lunedì 30 dicembre 2013

Buoni propositi per l'anno 2014

Luciano Granieri

Liberiamo l'ostaggio, liberiamo Frosinone


  disegno di Jacopo Granieri
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio  della voracità  di palazzinari senza scrupoli che sottraggono alla cittadinanza interi pezzi di città.
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio di una classe di amministratori che da decenni si mette al servizio dei  suddetti palazzinari, contro gli interessi della comunità .
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio di una serie di scandali (Forum, P.zza  Risorgimento, Piastra Cavoni, videosorveglianza del traffico, corruzione sulla gestione rifiuti) che hanno minato la legalità dell’azione amministrativa  delle giunte di centro sinistra e centro destra succedutesi alla guida della città .
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio della povertà, imposta ai cittadini da una scellerata politica fiscale che per decenni ha rinunciato a far pagare gli oneri di urbanizzazione ai palazzinari.
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio della disoccupazione, della mancanza di servizi sociali, o della  loro privatizzazione, di aliquote fiscale locali altissime. Risultato dello scellerato piano di riequilibrio economico e  finanziario che costringerà i cittadini per 10 anni a ripagare un debito di 50 milioni di euro di cui non hanno alcuna  responsabilità.
Liberiamo Frosinone
Ostaggio dello smog, delle polveri sottili, delle frane. Frutto di una pluriennale dissennata gestione del territorio.
NON C’E’ PIU’ TEMPO

LIBERIAMO FROSINONE

Con questo necessario, doveroso  obbiettivo auguriamo a tutti un ottimo e resistente 2014

CONTRO L’EUROPA DEI PADRONI E DELL’AUSTERITA’ PER L’EUROPA DELLE LAVORATRICI/TORI, DELLA DEMOCRAZIA E DELLA GIUSTIZIA SOCIALE

Sinistra Anticapitalista



I  paesi dell’Europa vivono una doppia crisi, quella generale del capitalismo cominciata nel 2007, tra le più gravi della sua storia, e quella propria del continente (accentuata ed accelerata dalla prima), espressione delle contraddizioni profonde delle strutture economiche ed istituzionali su cui è stata costruita l’Unione europea dalle classi dominanti.
Queste modalità di “costruzione dell’Europa” operate dalla borghesia europea e funzionali a questa fase di accumulazione capitalista con i suoi effetti devastanti di povertà e disoccupazione, hanno infangato l’idea stessa dell’unità europea e spingono settori della popolazione ad essere, non solo, come è giusto, contro “questa Europa”, ma contro l’idea stessa di Europa tout court, ripiegando su posizioni nazionaliste ed alimentando sempre più gli spazi delle destre fasciste e nazionaliste.

Le due fasi della costruzione europea

Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, espressione della divisione del continente in tanti stati nazionali e della concorrenza dei principali paesi capitalisti, le borghesie nazionali (a partire da quelle tedesca, francese ed italiana) decisero di costruire strutture politiche/economiche di collaborazione che disciplinassero la concorrenza capitalista e fossero funzionali ad estendere i mercati, garantendo una nuova fase di sviluppo del sistema. Per questo nacquero, prima la Comunità Economica Europea, poi la Comunità Europea ed infine l’Unione Europea. L’evoluzione di questa struttura continentale, si produsse nel quadro della fase espansiva del capitalismo, indirizzata da scelte economiche sia nazionali che europee di tipo keynesiano e sotto la spinta della mobilitazione operaia e della forza delle organizzazioni sindacali riformiste. Questo processo tendeva a far convergere le economie europee, pur con molti limiti e ancora con profonde differenze. Ma a partire da metà degli anni ’80, finita l’età dell’oro e sotto la spinta neoconservatrice e neoliberista degli USA e dell’Inghilterra le scelte di politica economica delle classi dominanti mutano profondamente. La borghesia europea, sempre con meno incertezze e grazie a una serie di sconfitte inflitte al movimento dei lavoratori, persegue la scelta dell’unità europea dentro un quadro rigorosamente neoliberista con la totale liberalizzazione dei processi economici, della finanziarizzazione e della concorrenza a tutti i livelli. Si sostiene che l’omogeneità e gli equilibri economici saranno prodotti dal libero mercato e non da una politica finanziaria e tributaria rivolta a gestire progetti economici e sociali che riducano le differenze esistenti tra i diversi paesi. L’introduzione della moneta unica deve servire a favorire ulteriormente gli scambi economici, ma anche ad imporre una disciplina di bilancio a tutti i paesi spingendoli a svalutare i salari, non potendo più esercitare la concorrenza tramite la svalutazione della moneta nazionale.
E infatti le differenze salariali che già erano molto alte si sono ancora rafforzate: il salario minimo dei paesi più deboli arriva ad essere di 8/9 volte inferiore a quello della Francia o dell’Olanda, ma anche le disparità interne a ciascun paese sono alte; si pensi alla Germania dove 7,5 milioni di lavoratori hanno un salario mensile di 400 euro mentre di norma il salario minimo supera i 1.200 euro. E così a tutti i livelli le disparità si sono aggravate e i paesi del Sud che in una prima fase dell’Euro avevano conosciuto un parziale recupero grazie al super indebitamento non hanno resistito all’arrivo della crisi. Quest’ultima ha rivelato il “peccato originale” della zona euro che aggrega paesi dalle caratteristiche strutturali molto differenti senza prevedere nulla per sanarle e neppure per garantire convergenze reali.

La scelta feroce delle borghesie europee

La verità è che c’è la scelta feroce e comune di tutto il padronato europeo nelle sue diverse articolazioni e governi nazionali, gestita dalla Commissione, dalla Banca europea e dalla Troika: ridisegnare il corso della storia, infliggere una sconfitta epocale alla classe lavoratrice, diminuire mediamente del 25 % i salari, disporre di un esercito industriale di riserva di decine di milioni di disoccupati e distruggere i diritti e la protezione sociale conquistati nel secondo dopoguerra. Questa politica e le scelte neoliberiste non sono della sola borghesia tedesca con la Merkel, come molti credono o cercano di far credere, ma sono condivise dalle altre borghesie europee, che ne hanno un proprio tornaconto (compresa quella greca) anche se, come in ogni banda a delinquere, ognuno cerca di accaparrarsi una parte più consistente del bottino e fa pesare la propria forza e gli interessi specifici. Inoltre esiste un processo, se pure ancora parziale, di formazione di una vera e propria borghesia europea in quanto tale rintracciabile in primo luogo nei settori capitalisti più dinamici e integrati.
La crisi del debito è stata l’occasione e il pretesto per infliggere alle classi lavoratrici dosi massicce di austerità e per ristabilire la redditività del capitale.
Per questo si sono inventati il six pack, il fiscal compact e il two paks, cioè leggi e misure finanziarie al servizio delle banche e delle grandi aziende private che hanno la funzione di garantire l’aumento dello sfruttamento e il mantenimento delle rendite finanziare e dei profitti: una vera guerra sociale che governi e borghesie hanno scatenato contro il mondo del lavoro.
Inoltre le politiche della grande borghesia e delle banche per ramazzare nuove risorse per difendere rendite e profitti stanno determinando anche l’impoverimento di vasti settori di piccola borghesia, di commercianti e di lavoratori indipendenti, che perdono la loro condizione di stabilità e sono sprofondati verso il basso: una parte di questi sono settori sociali consolidati e moderati che da sempre hanno disposto di una certa agiatezza, ma molti di questi sono anche ex lavoratori che dopo aver perso il posto di lavoro hanno aperto una piccola attività commerciale che ben presto arriva al capolinea.
Queste scelte economiche, che provocano drastiche riduzioni dei consumi, disoccupazione di massa e povertà, cioè un processo recessivo che alimenta ancor più la crisigenerale, possono sembrare assurde, irrazionali e fallimentari se viste in astratto (e sono naturalmente irrazionali, violente ed inaccettabili dal punto di vista degli interessi della collettività); sono però del tutto “razionali e necessarie” nell’ottica delle classi dominanti e dell’acuta concorrenza con cui queste ultime sono confrontate con gli altri poli capitalistici, garantendo a loro il potere e i privilegi. Nello stesso tempo aprono un periodo storico di grande crisi sociale, politica e culturale in cui si confronteranno sul campo le classi sociali e le forze politiche alla ricerca della loro egemonia e del loro sbocco politico ed economico; in questo quadro il pericolo della destra e della destra estrema, come già una serie di vicende illustrano ampiamente, è ben presente e deve essere assunto nell’orientamento politico e nella attività delle forze anticapitaliste.

NO a Scilla e a Cariddi

Se l’attuale costruzione dell’Europa capitalista, per altro vacillante e contradditoria, è inaccettabile perché corrisponde a un progetto di società reazionaria e violenta di dominazione di classe, anche il ripiegamento sugli stati nazionali non sarebbe meno reazionario e violento ed avverrebbe portando al potere esponenti della borghesia non meno feroci e disposti a tutto pur di garantirsi il potere e lo sfruttamento della classe lavoratrice.
Solo le forze anticapitaliste e rivoluzionarie possono proporre ciò che è necessario in questa fase storica: l’alternativa di un’altra Europa, in totale rottura con i trattati e le attuali istituzioni, fondata sulla democrazia, la collaborazione e la solidarietà tra i popoli, l’armonizzazione sociale verso l’alto, lo sviluppo dei servizi pubblici comuni, cioè un progetto e un percorso, di certo lungo e complesso, per l’Europa socialista come era negli auspici dei fondatori del movimento operaio. Non a caso a metà degli anni ’30 Trotsky scriveva: «I lavoratori non hanno il minimo interesse a difendere le frontiere attuali, soprattutto in Europa, sia agli ordini della loro borghesia sia nella insurrezione contro di essa… Il compito del proletariato europeo non è di rendere eterne le frontiere, ma di sopprimerle in modo rivoluzionario. Statu quo? No! Stati uniti d’Europa

Per l’unità delle classi lavoratrici del continente

Bandiere DEA Manifestazione in GreciaLa campagna che la nostra organizzazione sta facendo per l’unità del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori per la difesa del reddito e dell’occupazione è quindi strettamente collegata al rifiuto e al rigetto dei trattati europei.
Affrontiamo la “questione europea” a partire dall’unità delle classi proletarie, dalla necessità della costruzione di un movimento su scala internazionale contro le politiche della Troika, che porti la lotta delle donne e degli uomini sfruttate/i e oppresse/i a respingere il ricatto del debito e tutti gli strumenti padronali neoliberisti messi in piedi dalle istituzioni al servizio delle imprese private dei padroni e delle banche: il Fiscal compact, il two packs, il pareggio di bilancio. Occorre contrapporre un programma fondato sulla risoluzione dell’emergenza sociale, sulla distribuzione del lavoro esistente, il recupero salariale e la nazionalizzazione delle banche e delle imprese strategiche.
Il nostro asse politico è il rigetto delle politiche di austerità nella loro valenza europea e nazionale dei singoli stati, il rifiuto di pagare il debito, l’unità dei lavoratori su scala nazionale ed europea contro ogni ripiegamento nazionalista e di contrapposizione soggettiva ma anche obiettiva con la classe operaia di altri paesi.
Consideriamo nello stesso tempo del tutto utopistiche e sbagliate le posizioni di quelle forze di sinistra che accettano il quadro economico ed istituzionale dell’UE (un falso europeismo) e pensano di democratizzarla e di renderla “sociale” evocando qualche modesta misura riformista e keynesiana. Queste forze finiscono regolarmente per essere alleate e subalterne dei partiti socialliberisti, cioè a coloro che gestiscono insieme ai conservatori le politiche liberiste dell’Unione, cioè l’austerità.

La costruzione di un progetto e di una meta

Non partiamo dalla semplicistica proposta di uscita dall’euro, che molti sostengono pensando di aver trovato la parola d’ordine grimaldello e di massa per aprire la porta ad una risposta nazionale (ma per molti è anche una risposta nazionalista apertamente o potenzialmente di destra) alla politica delle istituzioni europee.
Qualsiasi idea di una soluzione nazionale dentro un quadro capitalista, variamente colorata dalla speranza di un ritorno ai vecchi tempi del keynesismo, un amarcord dei tempi “felici” dell’età dell’oro del dopoguerra, è del tutto utopica perché non corrisponde a questa fase dell’economia mondiale della globalizzazione. Non è un caso che chi sostiene questa posizione non precisa mai quale classe e quale governo dovrebbe portare avanti questa politica. Non sarebbe un’idea geniale, né interesse della classe lavoratrice, chiedere alla borghesia di tornare alla moneta nazionale, restando all’interno delle attuali politiche liberiste.
L’idea che l’austerità si possa sconfiggere con la svalutazione e il ritorno alle monete nazionali è infatti un’illusione, come è stato dimostrato dalla svalutazione della lira nel 1992 e dall’austerità economica senza precedenti con cui quella politica è stata accompagnata. Siamo stati contrari all’entrata dell’Italia nell’Euro con il trattato di Maastricht perché quel trattato prevedeva l’austerità economica, ma non è automaticamente con l’uscita da quel quadro che possiamo mettere fine a quelle stesse politiche.
Neanche possono convincere quelle posizioni che propongono la formazione di una moneta euromediterranea e di una zona economica (il riferimento è all’ALBA latino americana) dei paesi del Sud del continente. Va da se che occorre lavorare perché ogni forma di resistenza che si esprime in questi paesi, trovi i canali della convergenza e della unità. Per altro nell’unica occasione – l’ottobre del 2012 – in cui c’è stato un appello per una mobilitazione unitaria continentale, la rispondenza è stata positiva, mostrando le potenzialità di una lotta europea dei lavoratori e dei movimenti sociali, che deve essere perseguita più che mai.
Non convince nella proposta “euromediterranea” ancora una volta l’illusione della svalutazione della nuova moneta per reggere la concorrenza come momento salvifico, e soprattutto l’indefinitezza su quale classe, di quali governi dovrebbero essere i protagonisti, di questo distacco del Sud dell’Europa; posizione che, per altro, lascia spazio a possibili illusioni su settori “nazionali” della borghesia interessati al progetto e a “possibili compromessi” con queste forze del padronato. Non a caso al di là della presunta “concretezza” della nuova moneta tutto il progetto è avvolto da una grande nebbia certo non risolta dal generico riferimento al socialismo del XXI secolo.
Nello stesso tempo è chiaro e molto probabile che nelle resistenze sociali in corso in Europa la rottura sociale si porrà prima in un paese piuttosto che in un altro; se una rottura sociale e politica portasse, come è nei nostri obiettivi, a un governo di sinistra dei lavoratori, basato sulla mobilitazione popolare, quest’ultimo dovrebbe prendere tutte le misure di emergenza necessarie per difendere gli interessi della classe lavoratrice di fronte all’aggressione padronale e delle istituzioni europee, compreso se necessario, l’uscita dell’Euro, come misura di ultima istanza, avendo la capacità di usare questa minaccia, come elemento di condizionamento e di prova di forza con il padronato e l’Unione europea. Questi potrebbero anche assumersi la responsabilità di decretare l’uscita dall’euro di quello stato che pratica politiche alternative, ma i rischi sociali ed economici per gli altri stati, soprattutto se si stesse parlando anche solo di Italia o Spagna, non sarebbero irrilevanti.
Il nostro approccio strategico si basa dunque su cinque pilastri:
  1. una impostazione internazionalista e di unità dei lavoratori a livello europeo;
  2. il rigetto delle politiche di austerità e dei suoi strumenti;
  3. l’uscita dall’euro non è esclusa a priori, ma può in determinati casi essere utilizzata come arma dissuasiva da un governo di vera sinistra;
  4. la rottura con l’attuale Unione europea capitalista deve essere accompagnata da un progetto di rifondazione democratica, cooperativistica e socialista dell’Europa;
  5. la rottura con le politiche liberiste europee deve accompagnarsi con la piena rottura di ogni politica liberista nel paese dato.
Solo in questo modo è possibile contrastare la pericolosa crescita dei sentimenti nazionalisti e xenofobi e dell’estrema destra La costruzione della solidarietà e delle resistenze sociali a livello europeo è un compito non rinviabile. Soltanto una profonda e prolungata mobilitazione popolare in diversi paesi e su scala internazionale potrà sconfiggere le classi padronali dell’Europa e i loro progetti reazionari. Una crisi così violenta del capitalismo richiede soluzioni radicali, cioè l’uscita dal capitalismo; il cammino è lungo e difficile, si parte dalle resistenze e dalle lotte concrete, ma la meta dev’essere ben chiara.

Ho lavorato al programma statunitense dei droni. Il pubblico deve sapere.

Heather Linebaugh . fonte http://znetitaly.altervista.org/


Ogni volta che leggo commenti di politici che difendono il programma dei velivoli telecomandati Predator e Reaper – noti anche come droni – vorrei poter porre loro alcune domande.  Comincerei con: “Quanti donne e bambini avete visto inceneriti da un missile Hellfire?” E: “Quanti uomini avete visto trascinarsi attraverso un campo cercando di arrivare all’abitato più vicino in cerca di aiuto, sanguinando dalle gambe asportate?” O anche, più chiaramente: “Quanti soldati avete visto morire sul lato di una strada in Afghanistan perché i nostri UAV [‘unmanned aerial vehicles’ – velivoli senza equipaggio – n.d.t.] più precisi che mai non erano stati in grado di identificare un IED [improvised explosive device – congegno esplosivo improvvisato – n.d.t.] che attendeva il loro convoglio?”
Pochi tra questi politici che così sfacciatamente vantano i vantaggi dei droni hanno un’idea reale di cosa effettivamente succede. Io, d’altro canto, ho visto di persona queste immagini orribili.
Conoscevo i nomi di alcuni dei giovani soldati che vedevo dissanguarsi a morte sul lato di una strada. Ho visto dozzine di maschi in età da militare morire in Afghanistan, in campi vuoti, sulle rive di fiumi e alcuni appena fuori da un edificio dove la loro famiglia aspettava il loro ritorno dalla moschea.
I militari statunitensi e britannici insistono nell’affermare che questo è un programma esperto, ma mi incuriosisce il fatto che sentano il bisogno di trasmettere informazioni viziate, poche o nessuna statistica sui morti civili e contorti rapporti tecnologici sulle capacità dei nostri UAV. Questi specifici incidenti non sono isolati, e la percentuale di vittime civili non è cambiata, nonostante quanto ai nostri rappresentanti dell’esercito può piacere di raccontarci.
Quello che il pubblico deve capire è che il video fornito da un drone normalmente non è sufficientemente chiaro da identificare qualcuno che porta un’arma, anche un giorno limpido con poche nuvole e una luce perfetta. Questo rende incredibilmente difficile anche ai migliori analisti capire se qualcuno ha sicuramente armi. Viene in mente un esempio: “Il flusso è così sfocato; e se invece di un’arma fosse una pala?” Ho avvertito costantemente questa confusione, così come l’hanno avvertita i miei colleghi analisti degli UAV. Ci chiediamo sempre se abbiamo ucciso la persona giusta, se abbiamo messo in pericolo la gente sbagliata, se abbiamo distrutto la vita di un civile innocente tutto a causa di un’immagine o di un’angolazione cattiva.
E’ anche importante che il pubblico capisca che ci sono esseri umani che manovrano questi UAV e ne analizzano le informazioni. Lo so perché sono stata una di loro e nulla può preparare a una routine quasi quotidiana di missioni di combattimento di sorveglianza aerea su una zona di guerra. I promotori degli UAV affermano che i soldati che fanno questo genere di lavoro non sono colpiti dall’osservare questo combattimento perché non sono direttamente in pericolo fisico.
Ma ecco come stanno le cose: io possono non essere stata sul terreno in Afghanistan, ma ho osservato in grande dettaglio parti del conflitto per giorni interminabili. So ciò che si prova quando qualcuno muore. Raccapricciante è un aggettivo troppo debole. E quando si è esposti a questo in continuazione diventa come un piccolo video, incorporato nella tua testa, che si replica eternamente, causando una sofferenza psicologica e un dolore che sperabilmente molti non sperimenteranno mai. I soldati addetti agli UAV sono vittime non solo dei ricordi ossessivi che portano in sé da questo lavoro, ma anche del senso di colpa di essere sempre un po’ insicuri a proposito di quanto accurate siano state le loro conferme di armi o le loro identificazioni di individui ostili.
Naturalmente siamo addestrati a non provare questi sentimenti, e li combattiamo, e diventiamo amareggiati. Alcuni soldati cercano aiuto in cliniche della salute mentale offerte dall’esercito, ma abbiamo dei limiti riguardo a con chi e dove possiamo parlare, a causa della segretezza delle nostre missioni. Trovo interessante che le statistiche dei suicidi in questo settore di carriere non siano diffuse, né che lo siano i dati su quanti soldati che lavorano in posizioni UAV siano pesantemente curati con medicinali contro la depressione, i disturbi del sonno o l’ansia.
Recentemente il Guardian ha ospitato un corsivo del segretario di stato inglese alla difesa Philip Hammond.Vorrei potergli parlare dei due amici e colleghi che ho perso, nel giro di un anno dall’aver lasciato l’esercito, perché suicidi. Sono sicura che non è stato informato di questo piccolo particolare del programma segreto degli UAV, altrimenti sicuramente esaminerebbe con maggiore attenzione la portata completa del programma, prima di difenderlo di nuovo.

Gli UAV in Medio Oriente sono usati come arma, non come protezione, e fintanto che il nostro pubblico resta ignorante di ciò, questa grave minaccia alla sacralità della vita umana – in patria e all’estero – continuerà.

sabato 28 dicembre 2013

La menzogna delle attuali proposte per il lavoro

Luciano Granieri

La legge di stabilità appena licenziata  è aspramente criticata da sindacati e  Confindustria perché le risorse destinate alla riduzione del cuneo fiscale sono esigue.  Secondo le parti sociali un centinaio di euro in più in busta paga per i lavoratori e la stessa cifra di sgravi  fiscali per le imprese,  non sono sufficienti a far partire la crescita la cui conseguenza diretta dovrebbe essere un miglioramento delle condizioni economiche e il relativo aumento dell’occupazione. 

 In un Paese dove i salari sono fra i più bassi d’Europa  e la loro ulteriore compressione serve  a  sostituire la svalutazione monetaria come strumento utile a rendere la aziende competitive all’estero ed ad incentivare le esportazioni , neanche 300 o 400 euro in più in busta paga servirebbero a mettere in moto un processo tale da produrre una crescita occupazionale.  Neanche il job act di Renzi,  che pur nella sua genericità,  comunque prevede una maggiore flessibilità in uscita, escludendo dalle protezioni dell’art.18,  per tre anni,  i nuovi assunti, è utile a creare occupazione. In altri Paesi dove è consentito il licenziamento senza giusta causa, l’occupazione è in calo così come da noi. 

Se non  si esce dalla logica neoliberista del “MERCATO DEL LAVORO” non esiste alcun artificio utile a creare occupazione.  Il primo obbiettivo dell'ultraliberismo è quello di creare accumulazioni di capitale e profitti sempre più ingenti.  Una delle più importanti fonti necessarie ad alimentare profitti, oltre alle speculazioni finanziarie,   è  il   plusvalore determinato dalla forza lavoro. L’obbiettivo è di sottrarre sempre maggiori quote di questo plusvalore da lavoro   per destinarlo  alla generazione del profitto.  Con tale logica al lavoratore rimarrà poco o nulla della ricchezza che produce.  E’ quindi necessario per la prassi liberista il permanere  della disoccupazione e del  lavoro precario.  

Se il lavoro è una merce, questo sottostà alle regole della domanda e dell’offerta. E’ interesse  della casta  ultra  liberista che l’offerta di lavoro   sia sempre e comunque di molto inferiore alla domanda di occupazione,    in modo  da creare una dinamica contrattuale sempre più favorevole all’offerta.  La  compressione dei diritti sul lavoro  non ha come primo obbiettivo quello di abbassare i costi di produzione  per aumentare la competitività sul mercato, ma quello di aumentare la quota di plusvalore da destinare al profitto. Se si da per assodato il contesto capitalista e neoliberista, nessun provvedimento, nessun programma potrà essere pianificato per creare occupazione.  

E’ necessario smetterla di pensare al “MERCATO DEL LAVORO” .  Bisogna ritornare a considerare il LAVORO come un diritto naturale necessario a donne e uomini per vivere un’esistenza dignitosa.  Se l’offerta di occupazione  è limitata rispetto alla domanda, allora è necessaria una redistribuzione del lavoro esistente in modo da soddisfare completamente  la domanda. Lavorare meno, lavorare tutti  a parità di salario. Questa potrebbe essere una prima risposta. 

Prevedere la diminuzione delle ore di lavoro, un  ampio utilizzo del part-time, magari con un contributo dello Stato consistente nel farsi carico di una parte del salario  del lavoratore part-time in modo  tale che l’azienda, che usufruisce delle prestazioni di questi addetti,  non abbia l’onere di pagare il salario per intero.  Alla redistribuzione del tempo di lavoro si dovrebbe affiancare la creazione di nuovo lavoro. In tal senso si potrebbero  individuare settori  diversi bisognosi della creazione  di  beni e servizi. 

Settori come la sanità, la scuola, i servizi agli anziani, ai bambini, ai disabili, sono in continua emorragia di addetti. Blocco del turn-over, chiusura di strutture sociali, scuole, ospedali,  sono all’ordine del giorno. In quest’ambito  si potrebbero creare enormi opportunità occupazionali. Un altro settore che ha fame di addetti è quello relativo alla salvaguardia del territorio. L’Italia, come è noto e come ogni giorno le cronache non smettono di ricordare, è un paese ad alto rischio idrogeologico e sismico. Ma un programma di tutela del territorio non esiste.  Un altro campo potrebbe riguardare la ristrutturazione di immobili in degrado per destinarli ad alloggi popolari anche in questo caso si potrebbe creare occupazione. E’ evidente che i nuovi occupati in questi settori, dovrebbero essere assunti dallo Stato.  

Tutto ciò quanto ci costa?  La domanda sorge spontanea.  Contributi alle aziende che assumono part-time per la quota eccedente la metà del salario, nuove assunzioni dirette,  sicuramente avrebbero un costo notevole. Ma i soldi si possono trovare.  Ad esempio togliendo i contributi alla sanità e alla scuola privata, destinando   alla tutela del territorio i fondi delle grandi opere,  aumentando  la tassazione sulle rendite finanziarie, sui grandi patrimoni e sui profitti della speculazione finanziaria. 

Inoltre molte risorse potrebbero arrivare da una seria lotta all’evasione fiscale, da una maggiore tassazione a carico delle agenzie pubblicitarie, da una drastica riduzione delle spese militari.  Anche una rideterminazione della spesa sociale potrebbe liberare risorse. Ad esempio la rimodulazione degli assegni familiari, pensioni di invalidità. Prestazioni che oggi vengono erogate a tutti ma dalle quali si potrebbero escludere le famiglie più ricche.  Il  risparmio ottenuto potrebbe risultare cospicuo. 

E’ evidente che in questo modo si disinnesca il ricatto neoliberista e dunque tali misure non saranno mai adottate in un ambito che considera ineluttabili le regole del mercato.  Quindi l’azione  primaria che sta alla base di queste politiche a favore del lavoro è rovesciare il regime ultraliberista. Qualsiasi organizzazione  e movimento, sindacale o politico, che propone programmi  a favore del lavoro senza partire da un contrasto al liberismo e al capitalismo non è credibile.  Tutte le proposte che oggi sono sul tavolo  esplicandosi in un contesto liberista, più o meno mitigato da un improponibile controllo della politica, non sono assolutamente credibili, sanno di grande presa in giro. 


venerdì 27 dicembre 2013

Comunismo di ogni giorno e “Spirito del Natale”

di Jérôme Roos – 26 dicembre 2013. fonte http://znetitaly.altervista.org/

In questi tempi di crisi è cruciale ricordare che i semi di una società migliore hanno già radici nelle contraddizioni di quella attuale.

Nel mondo occidentale, almeno, il Natale è un periodo profondamente schizofrenico dell’anno. Da un lato le festività fanno emergere alcuni degli aspetti migliori di ciò che significa essere umani: ci si riunisce per condividere cibo e doni in uno spirito comunitario che temporaneamente rompe con l’alienazione della vita di ogni giorno. Ma, al tempo stesso, le festività gettano luce su alcuni degli elementi peggiori del consumismo e sulle false apparenze che hanno finito per pervadere il tessuto sociale: file infinite di essere umani ridotti a zombie che si muovono meccanicamente in centri commerciali decorati pretenziosamente alla ricerca del più recente aggeggio o biglietto d’auguri inutile, confermando ancora una volta che il solo modo di esprimere valore nella società tardo capitalista è mediante l’accumulo di merci inutili, pur mentre ci sono persone che di notte dormono per strada all’addiaccio.  
Quando Charles Dickens si abbandonò al lirismo a proposito della morte, dell’avidità e della miseria nel suo classico Canto di Nataleebbe ben presenti le distorsioni sociali causate dal capitalismo industriale. Naturalmente la critica del capitalismo di Dickens mancava di un’analisi politico economica approfondita e alla fine non riuscì ad andare oltre l’indignazione morale per la povertà e il declino delle virtù umane. Ma detto questo, persino Karl Marx espresse il parere che Dickens, nella sua vita, aveva “diffuso nel mondo più verità politiche e sociali di quante fossero state formulate da tutti i politici, i pubblicisti e i moralisti professionisti messi insieme”. Il Canto di Natale fu pubblicato nel 1843, appena cinque anni prima del Manifesto del Partito Comunista e dell’onda rivoluzionaria del 1848. Se dovessimo scrivere un Canto di Natale per i nostri giorni, il racconto sarebbe davvero molto diverso?
Buona crisi e felice nuova paura
Il personaggio di Scrooge sembra tuttora onnipresente, dai ricchi investitori di Wall Street che non hanno pagato un centesimo per il caos finanziario che hanno creato nel portarci alla crisi attuale, ai politici affamati di potere che si circondano letteralmente d’oro mentre annunciano un’Era d’Austerità per tutti gli altri. Sono tuttora diffuse miseria e morte mentre le reti di sicurezza sociale sono sacrificate all’altare del mercato, mentre milioni sudano semplicemente per far quadrare i conti, sopravvivendo con le misere paghe di lavori del tutto privi di significato e sempre più precari, persino mentre sono oberati da tasse e debiti sempre maggiori. E, specialmente in questo periodo dell’anno, non sono solo le privazioni materiali che contano; il trauma psicologico della persistente insicurezza economica e dell’atomizzazione sociale semina disastri su una scala che a fatica possiamo appena immaginare, un assassino che si prende migliaia di vite di cui non sapremo mai nulla.
Mi sono recentemente trasferito ad Atene, dove la rappresentazione dickensiana del capitalismo nudo è in piena mostra ogni singolo giorno: gente comune che dorme di fronte a banche e supermercati come cani randagi; decine di migliaia di cartelli “affittasi” che coprono le pareti degli appartamenti; immigrati che si nascondono in edifici cadenti, troppo impauriti per uscire per il timore di essere aggrediti dalla polizia o dalla feccia razzista. Uno strato di smog incombe sulla città mentre le persone ricorrono al fuoco di legna e plastica per riscaldarsi. I padroni di casa hanno chiuso il riscaldamento centrale in tutto il paese, semplicemente perché gli inquilini non sono più in grado di pagare il combustibile. Solo poche settimane fa una tredicenne è morta per aver respirato monossido di carbonio dopo che sua madre aveva cercato di combattere il freddo gelido del loro appartamento. L’elettricità era stata tagliata perché non era in grado di pagare le bollette. Non si tratta di incidenti isolati. Una povertà da Terzo Mondo si sta facendo strada nel centro stesso dell’occidente “sviluppato”.
La povertà e la disuguaglianza sono in ascesa in tutta Europa e nell’intera America del nord. Una cifra record di48 milioni di statunitensi – 22 milioni dei quali sono bambini – dipende dai buoni alimentari per sopravvivere. L’Oxfam ha recentemente avvertito che l’Europa rischia un “decennio perduto” di povertà ed emarginazione, con il direttore delle campagne della ONG che lamenta che “siamo stati fondati nel 1942 a causa della carestia in Grecia; nessuno avrebbe creduto che dopo settant’anni saremmo stati ancora qui a dire che la Grecia è in una condizione terribile”. E, di nuovo, la Grecia non è l’eccezione; la cosiddetta culla della democrazia è semplicemente l’esempio universale di una tendenza terrificante in tutto il mondo, con i regimi nominalmente democratici che ricorrono a misure sempre più autoritarie e disumane per far valere il dogma neoliberista che può essere sintetizzato in una formula semplice: privatizzare gli utili, socializzare le perdite. Scrooge incombe oggi su tutti noi, agitando manganelli e candelotti lacrimogeni.
Non è per caso, allora, che i rivoltosi che sono scesi in piazza ad Atene e in città di tutta la Grecia nel dicembre del 2008, dopo l’omicidio, da parte della polizia, del quindicenne Alexis Grigoropoulos, abbiano immediatamente attaccato e incendiato l’enorme albero di Natale che era stato così ostentatamente eretto a piazza Syntagma di fronte al Parlamento. Pochi giorni dopo le parole di un profeta sono state scarabocchiate su un muro cittadino: buona crisi e felice nuova paura! [In inglese l’espressione è meglio assonante con il tradizionale ‘Buon Natale e Felice Anno Nuovo’, rispettivamente: “merry crisis and a happy new fear” e “Merry Christmas and a Happy New Year” – n.d.t.].

Comunismo si ogni giorno e crisi dei nostri tempi
Ma non è tutto qui. Proprio come il Natale, i tempi di crisi tendono a essere profondamente schizofrenici, producendo sia pericoli estremi di disintegrazione sociale sia opportunità senza precedenti di cambiamento sociale radicale, mentre nessuna delle due cose sembrava possibile nel precedente stato di normalità. Incorporato nelle contraddizioni stesse del capitalismo c’è il potenziale latente sia della sua disintegrazione in una mostruosità, sia della sua estinzione e trascendenza in qualcosa di migliore.
In greco antico la parola greca ‘krisis’ si riferiva esattamente a questo: un momento di separazione, di decisione o giudizio, come un punto di svolta in una malattia che decide il destino del paziente: un momento di vita o di morte. In modo determinante, il termine implica ‘conflitto’: due possibili esiti ci sono davanti; le nostre azioni di oggi decideranno del mondo per decenni a venire.
Dopo essermi trasferito ad Atene ho rapidamente scoperto perché il paziente è riuscito sinora a sopravvivere alla sua crisi. Ovviamente ciò non ha nulla a che vedere con i tagli al bilancio dei salvataggi di UE e FMI. Tutto dipende dall’aiuto reciproco e dalla solidarietà comunitaria. Senza la gente comune che semplicemente si aiuta vicendevolmente a tirare avanti, la società greca si sarebbe trovata molto peggio. Non fosse stato per i genitori che si sono ripresi in casa giovani disoccupati sulla ventina, le mense dei poveri che hanno offerto cibo agli affamati, per cliniche autonome che hanno offerto assistenza medica gratuita ai non assicurati e centri sociali che hanno distribuito vestiario gratuito a chi ne aveva bisogno, è difficile immaginare come mai la gente ce l’avrebbe fatta. Ciò ci induce a una conclusione ironica: se non fosse stato per il senso di comunità e di aiuto reciproco – che sfidano entrambi la logica dell’egoismo di Smith e di Hayek – il capitalismo di per sé non sarebbe stato in grado di sopravvivere. In realtà nessuna società può funzionare senza una sana dose di altruismo. Il trucco, allora, sta nel produrre tale altruismo non come mezzo per sostenere il capitalismo, bensì come arma con cui ucciderlo.
David Graeber chiama questo caposaldo sociale di solidarietà comunitaria “comunismo di ogni giorno”. Basandosi sull’opera dell’antropologo francese Marcel Mauss, Graeber distingue tra tre tipi diversi di relazioni sociali: relazioni gerarchiche basate sul precedente, relazioni formalmente paritarie basate sullo scambio e relazioni genuinamente paritarie basate sulla condivisione, il vecchio principio comunista “da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni”.  Questi generi diversi di relazioni sociali non sono mai monolitici e perciò non essere totalizzanti: nessuna società si basa solo sul precedente, lo scambio o la condivisione. Le tre cose, invece, coesistono in gradi diversi in tipi diversi di società. Le società feudali possono essere contrassegnate dalla prevalenza della gerarchia; le società capitaliste dal predominio dello scambio e le società genuinamente comuniste dalla condivisione. Ma anche in quest’ultimo tipo di società, la gerarchia e lo scambio non spariranno mai del tutto; saranno semplicemente subordinate a una logica culturale e sistemica diversa: la logica della condivisione avrà la precedenza nella riorganizzazione radicale delle priorità.
Naturalmente le cose non sono così semplici. Ma in questo periodo dell’anno, e in questo periodo di crisi, Mauss e Graeber indirizzano la nostra attenzione a qualcosa di molto importante: persino nella società capitalista continuano a esistere relazioni “comuniste” (di altruismo e condivisione). In effetti, per molti versi, “siamo già comunisti”, specialmente nei confronti della famiglia e degli amici, e specialmente in un giorno come questo. Sarebbe del tutto inconcepibile per chiunque tra noi presentare ai nostri genitori, fratelli e sorelle o figli il conto del pranzo di Natale che abbiamo appena cucinato per loro; proprio come sarebbe totalmente assurdo che le madri addebitassero ai figli le cure e l’allattamento al seno. Allo stesso modo è totalmente assurdo che gli Scrooge di oggi – di fronte a una crisi che loro stessi hanno causato – oggi cerchino di socializzare le loro perdite forzando giù per la gola a tutti l’austerità e schiaffando un cartellino del prezzo su beni comuni quali l’acqua e il sapere. Se portata ai suoi estremi, questa logica di crudo egoismo alla Rand condurrebbe semplicemente alla totale disintegrazione sociale; ed è precisamente a essa che il neoliberismo sta spingendo oggi il mondo.  
Il fantasma dei Natali a venire
Stiamo vivendo un momento del giudizio in cui il destino deve decidersi il destino dell’umanità. In questi tempi bui, quando sembra persa ogni speranza e persino i più comunitari tra i rituali sociali stanno soccombendo allo spettacolo dello stolido consumismo, è cruciale ricordare a noi stessi che i semi di un mondo migliore hanno già radici nella terra bruciata di quello attuale; e che la nostra sfida, da “radicali” o “rivoluzionari”, non consiste necessariamente nella creazione di un’intera società nuova partendo da zero, bensì nella liberazione e attualizzazione delle potenzialità di altruismo e vita comunitaria che attualmente sono represse sotto la minaccia di un fucile. Questo dovrebbe darci speranza per la lotta: non dobbiamo necessariamente innovaretanto il nuovo, quando piuttosto dobbiamo abbattere il vecchio e rafforzare il nuovo che già esiste.
Nel Canto di Natale Scrooge alla fine era trasformato in un uomo migliore, che abbracciava lo Spirito del Natale e il senso di gioia e di comunità che rappresentava, ma non prima di essere visitato da tre fantasmi: il Fantasma dei Natali Passati, il Fantasma del Natale Presente e il Fantasma dei Natali Futuri. Il primo gli mostrava gli mostrava il suo io del passato, il bambino lieto di condividere; il secondo lo metteva di fronte all’uomo totalmente spregevole che era diventato, attaccato al suo denaro come se non ci fosse domani; e l’ultimo gli presentava la terrificante immagine di cosa lo aspettava se avesse insistito nei suoi modi da spilorcio dal cuore di pietra:
 
“Il Fantasma si avvicinò lentamente, gravemente, silenziosamente. Quando gli fu vicino, Scrooge cadde in ginocchio poiché nell’aria stessa attraverso la quale lo Spirito si muoveva esso sembrava gettare tenebre e mistero. Era avvolto da un ampio manto nero, che gli celava la testa, il volto, la forma e non lasciava null’altro di visibile che ma mano tesa … Gli diede un fremito di vago, incerto terrore sapere che sotto il polveroso sudario c’erano occhi spettrali intensamente fissi su di lui, mentre lui, anche se si sporgeva al massimo, non poteva vedere altro che una mano spettrale e un abisso di tenebra.”
Trasformiamoci in questo tetro spirito; nel fantasma del futuro che dal suo manto tormenta il taccagno prima dell’ora di andare a letto. Rendiamoci lo Spirito dei Natali a Venire, lo spettro del comunismo già esistente che perseguita il capitalismo attuale da terreno solido di un futuro ancora da venire. Rendiamoci lo Spirito della Rivoluzione reincarnata, che abbatte gli Scrooge del nostro tempo proprio mentre le tenebre sembrano avviluppare il mondo. Buon Natale a tutti. Il maggio del 2014 sarà la data della nostra spettrale riapparizione.

Colleferro, caro Signor Amministratore ti denunciamo perché non fai la raccolta differenziata.

Rete per la tutela della Valle del Sacco e Comitato Residenti Colleferro

La Rete per la Tutela della Valle del Sacco e il Comitato Residenti Colleferro hanno presentato in data 21 dicembre 2013 un esposto-denuncia alla Corte dei Conti della Regione Lazio contro l’Amministrazione comunale di Colleferro per il mancato raggiungimento delle percentuali di raccolta differenziata (RD) fissate dalla Legge n. 152/2006.

“Un atto dovuto” afferma Alberto Valleriani,  “un obbligo di legge” aggiunge Ina Camilli, rappresentanti rispettivamente dell’Associazione e del Comitato, “che deve essere osservato, mentre anche questa volta, proprio come per tutte le varie sollecitazioni che abbiamo presentato insieme ad altri gruppi associativi dell’area comunale, non hanno mai avuto un seguito”.

“In questi anni abbiamo sempre chiesto il rispetto della legge e messo in pratica tutto ciò che per noi era possibile, senza mai avere avuto un riscontro positivo dall’Amministrazione del nostro Comune. Se andiamo a verificare le percentuali di RD nel Comune di Colleferro dal 2006, anno di emanazione della Legge n. 152 ad oggi, ci rendiamo conto che l’inefficienza dell’Amministrazione è oggettiva ed evidente”. “ Si passa dal 4,9% del 2006 all’ 11,25% del 2009, fino al 16,53% del 2011 per scendere al 15,25% del 2012”, quando la soglia fissata dall’art. 24 della citata legge è del 65% entro il 2012. Praticamente vi è stato il totale disinteresse negli ultimi anni ad applicare quanto stabilito da una Legge vigente, emanata in ottemperanza alle Direttive Europee.
Il comportamento omissivo dell’Amministrazione, ovvero il colpevole ritardo nell’applicazione della legislazione si traduce in una violazione contabile sanzionabile come danno erariale per l’ente comunale, e quindi per i cittadini contribuenti, a causa del mancato raggiungimento della quota prevista dalla normativa in materia di raccolta differenziata, a partire dal 2006.

Questo è quanto ha stabilito la Sentenza n. 83 del 27/05/2013, emessa dalla Corte dei Conti, Sezione giurisdizionale della Liguria, in merito alla analoga situazione del Comune di Recco.

In conclusione, a carico degli Amministratori comunali e dei dirigenti del servizio Ambiente si configura un comportamento di sostanziale inerzia riguardo a legittime e doverose attività volte al miglioramento ed al costante monitoraggio del livello qualitativo e quantitativo del servizio di raccolta differenziata; tale comportamento denota inescusabile negligenza e grave trascuratezza nella cura dell’interesse pubblico, che avrebbe dovuto essere, invece, tutelato attraverso il doveroso e diligente svolgimento delle funzioni istituzionali e degli obblighi di servizio loro attribuiti. Tutto ciò evidenzia la sussistenza di quell’elemento soggettivo indispensabile per l’affermazione della responsabilità amministrativo-contabile individuale e personale, riconosciuta dalla citata Sentenza di Recco.

Nonostante il collegato ambientale alla Legge di Stabilità per il 2014 intenda tutelare l’inefficienza di Amministrazioni come la nostra, prevedendo una proroga, noi abbiamo il dovere, affermano i ricorrenti, di presentare l’esposto alla Corte dei Conti per la violazione di un adempimento inderogabile, posto a tutela dell’interesse generale, per il grave pregiudizio creato alla finanza locale, per i maggiori oneri a carico dei contribuenti, per i danni alla salute pubblica e all’ambiente.

La proroga non basterà a salvare quegli Amministratori e Amministrativi comunali che al 31 dicembre 2014 non hanno raggiunto la soglia del 35% di raccolta differenziata, come nel caso della nostra Giunta Comunale che si ferma molto al di sotto e per questo farà si che venga applicata una maggiorazione del 20% del relativo tributo di conferimento in discarica, che va a gravare sulle finanze comunali, cioè sui cittadini e di conseguenza sulla possibile erogazione di servizi di welfare.

“Alle associazioni, ai comitati e ai cittadini”, conclude Valleriani, “spetta avviare un processo virtuoso di rispetto del diritto, anche quando una Legge Nazionale va in soccorso dei Comuni”, “perché è il cittadino che chiede”, commenta Camilli, “l’accertamento di eventuali profili di illegittimità nei comportamenti dei nostri Amministratori e dirigenti comunali in termini di responsabilità erariale.”