sabato 4 gennaio 2014

La memoria maestra di legalità

Osservatorio Peppino Impastato

Disgraziatamente    la mafia ha caratterizzato la storia d’Italia almeno dalla sua unità  fino ad oggi.  Le organizzazioni mafiose hanno innervato  i rapporti economici, politici   del Paese, modulandosi a seconda del mutare delle condizioni sociali e finanziarie che hanno contraddistinto l’evolversi della Nazione.   La mafia ha condizionato e determinato gli indirizzi politici ed economici costituendo un vero e proprio carcinoma maligno divoratore di risorse economiche,  finanziarie ma anche sterminatore di vite umane. 

Oggi si calcola che le organizzazioni mafiose e criminogene siano le multinazionali che realizzano i maggiori profitti al mondo attraverso il governo del malaffare e del riciclo dei proventi di queste attività nell’economia legale.  Parallelamente all’evoluzione della mafia  si è sviluppato, come un’anticorpo sociale, un sistema di lotta alla mafia che ha impegnato   migliaia di persone alcune delle quali hanno pagato con la vita il prezzo  della loro dedizione. Donne e uomini che si sono battuti contro tutte le mafie con determinazione e forza, segnando spesso delle importanti vittorie, ma non riuscendo mai a debellare il cancro. In particolare il terreno della lotta alla mafia diventava e diventa impervio quando si arriva ad intaccare l’intreccio tra mafia, politica e istituzioni, diciamo così, deviate.  

 Il movimento antimafia in generale ha visto grandi figure battersi strenuamente e poi soccombere. Magistrati del calibro di Falcone e Borsellino, ma anche attori che hanno lottato contro la mafia all’interno della società civile. Un movimento di antimafia che combatteva tutti i giorni nel sociale, nei rapporti con  i propri simili.  Fra questi annoveriamo Placido Rizzotto, Peppino Impastato,  da cui la nostra associazione  prende il nome, e il giornalista, scrittore Giuseppe (Pippo) Fava . 

  Il 5 gennaio di 30 anni fa, Pippo Fava fu freddato dalla mafia con 5 colpi calibro 7,65 alla nuca.  Aveva appena lasciato la redazione del suo giornale “I siciliani” e si stava recando a prendere la nipote che recitava presso il teatro  Verga a Catania. Non gli lasciarono nemmeno  il tempo di scendere dalla sua Renault 5. Lo stesso rituale di depistaggi e diffamazioni , andato in scena dopo l’omicidio per mafia di Peppino Impastato, si replicò anche per Fava. Solo nel 1998 si concluse il processo con la condanna all’ergastolo  del boss Nitto Santapaola come mandante , degli  organizzatori dell’omicidio  Marcello D’Agata e  Francesco Giammusso e degli esecutori material  Aldo Ercolano e  Maurizio Avola. 

 Quale la colpa che ha condannato a morte Fava? Quella di non farsi i fatti propri né più e né meno come Peppino Impastato. Con la sua attività di giornalista, prima all’Espresso sera , poi come direttore del  “Giornale del Sud” e della rivista  indipendente “I Siciliani”  Fava    denunciò il perverso   intreccio fra mafia politica e finanza che infestava la Sicilia e tutto il Paese . Grazie alle inchieste svolte dal mensile  “I siciliani” -  rivista indipendente da lui fondata  dopo che l’establishment politico-mafioso era riuscito a cacciarlo dal “Giornale del Sud”  -  grazie a una redazione composta da giovani giornalisti, molti inesperti  ma attivi e intraprendenti , fra cui il figlio il giornalista e politico Claudio Fava,  gli affari che il clan Santapaola tesseva con i grandi imprenditori catanesi, oltre che con il faccendiere Michele Sindona, divennero oggetto di pubblica denuncia.  

In un’intervista rilasciata ad Enzo Biagi pochi giorni prima della sua morte,  il 28 dicembre del 1983 Fava ebbe a dichiarare: “ Mi rendo conto che c'è un'enorme confusione sul problema della mafia. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale, questa è roba da piccola criminalità, che credo abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il fenomeno della mafia è molto più tragico ed importante…”  Pippo Fava era uno che dava fastidio, come Peppino Impastato,  e come Peppino è stato ucciso. Nel degrado etico o politico che contraddistingue lo scenario attuale, con mafia e camorra che continuano a fare affari, contaminando i rapporti economici e sociali del nostro Paese, la memoria di persone come Pippo Fava deve rimanere sempre ben presente nella società civile.  E’ dall’attività di queste persone sempre pronte a gridare  con coraggio che “La Mafia è una montagna di merda” che può rinascere una consapevolezza oggi debole o del tutto mancante.  La consapevolezza che   con l’illegalità, la corruzione, la prevaricazione degli altri, la nostra società rimarrà sempre vittima del degrado etico e politico,  risultato dell’azione delle mafie con il concorso della spregiudicatezza   della speculazione finanziaria.   Per questo motivo riteniamo   giusto e doveroso ricordare Pippo Fava a trent’anni dalla sua morte.

La memoria dei martiri toscani, in difesa della Costituzione

Comitato in difesa della Costituzione Frosinone


Il comitato in difesa della Costituzione di Frosinone invita tutti i cittadini, movimenti e associazioni alla commemorazione  dell’eccidio di tre giovani toscani ,  Pier Luigi Bianchi, di Fiesole, Luciano Lavacchini di B.go San Lorenzo e Giorgio Grassi di Firenze,   fucilati il 6 gennaio del 1944  dai fascisti nella nostra città  . Il comitato sarà presente alla commemorazione che avrà inizio alle ore 10,00 di lunedì 6 gennaio presso  il piazzale dei Martiri Toscani. Il ricordo dei tre ragazzi,  a settant’anni dalla loro fucilazione per mano fascista,  è anche un’occasione irrinunciabile per riaffermare i valori dell’antifascismo e della solidarietà sociale  iscritti nella Costituzione.  Il riproporsi di rigurgiti nazifascisti, attraverso  il protagonismo di organizzazioni  neo fasciste, come CasaPound e Forza Nuova,    nel  cavalcare la protesta della piccole e media borghesia, unito al tentativo da parte dell’attuale parlamento di stravolgere la   Costituzione in senso  autoritario,  impongono alle forze sinceramente democratiche di reagire. L’attuale crisi economica e sociale non si risolve   resuscitando i peggiori istinti fascisti né stravolgendo la Costituzione.  Anzi  è proprio il  rigoroso rispetto della Carta costituzionale  che potrà garantire quella solidarietà e condivisione necessaria alla collettività per uscire insieme  dalla  palude.  E’ su queste basi che Il comitato in difesa della Costituzione di Frosinone,   ritiene doverosa la sua partecipazione alla commemorazione del 6 gennaio.

Video Luciano Granieri

Commemorazione dell'eccidio dei martiri toscani

Comitato ANPI provincia di Frosinone il presidente Giovanni Morsillo



L’ANPI sostiene e promuove la manifestazione di commemorazione dell’eccidio dei tre Martiri toscani che si terrà in occasione del 70° anniversario del massacro perpetrato dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti fascisti a Frosinone il 6 Gennaio 1944.
I tre giovani trucidati presso il curvone di via Mazzini, dove oggi sorge il monumento alla loro memoria, erano rei di aver tentato la fuga dal lavoro coatto al servizio delle truppe tedesche presso il fronte di Cassino. Catturati insieme ad altri loro compagni, i fascisti italiani insistettero per fucilarli tutti, ma il comando tedesco si oppose, e acconsentì ad estrarne a sorte tre e fucilare solo questi, destinando gli altri alla prigionia dimostrando, pur nella sua crudeltà, di possedere meno disumanità dei suoi complici italiani.
A 70 anni dalla strage, l’ANPI si rivolge ai cittadini della nostra provincia perché accolgano l’invito a partecipare alle celebrazioni, che si terranno lunedì 6 Gennaio alle ore 10.00 presso il monumento in Largo dei Tre Martiri. Alla manifestazione parteciperanno cittadini, associazioni, forze politiche e sindacali, comitati di cittadini di varia ispirazione, uniti dalla condivisione del valore della pace e dell’impegno democratico come condizioni irrinunciabili per il progresso e la stessa vita civile del nostro popolo e del nostro Paese.
L’ANPI coglie, come sempre in passato, questa triste occasione di memoria civile per riflettere assieme a tutti coloro che interverranno, sulla necessità di custodire nei fatti e concretamente l’insegnamento della guerra, delle sofferenze patite dai popoli europei solo pochi decenni fa, per rafforzare attraverso la conoscenza e la memoria l’impegno totale per la pace, la democrazia, il progresso civile.
Proprio perché consapevoli e memori dei dolori provati in passato, siamo oggi impegnati attivamente per bloccare i tentativi in atto di manomissione di quelle garanzie democratiche allora negate, e conquistate a prezzo di immani sacrifici dai combattenti antifascisti. Sull’antifascismo come condizione della democrazia, sulla preziosa eredità costituzionale ricevuta dalle mani di coloro che sconfissero quel modo di intendere la società fondato sull’oppressione e sulla cancellazione fisica dell’avversario, conduciamo la nostra lotta per nuove e più ampie conquiste, a cominciare da un’Europa dei popoli, che promuova le capacità dei suoi cittadini e trasmetta al mondo intero i valori di libertà e di dignità figli della sconfitta dei disegni di potenza criminali di allora.
Ci auguriamo che l’anno che inizia si apra sotto questi auspici, e che sia sempre maggiore la partecipazione dei cittadini alla difesa della memoria e all’esercizio convinto della democrazia.
                       
Comitato ANPI - Provincia di Frosinone
Il Presidente
(Giovanni Morsillo)


LA FRANA CHE VIENE DA LONTANO

Giuseppina Bonaviri



All’inizio di un nuovo anno e in un momento di grande travaglio pe la nostra amministrazione comunale e per il nostro territorio, da anni mortificato da cementificazione selvaggia e da aggressione dei gestori pubblici all’ambiente, la Rete Indipendente La Fenice, assieme a tecnici ed esperti come il geologo e fisico Prof. Mario Catullo, ritiene doverose alcune precisazioni  nel rispetto dell’informazione, riguardo la gravità attuale delle condizioni franose della zona del Viadotto Biondi di Frosinone.
Già nel mese di maggio 2013 nella sede del nostro  Movimento furono organizzati incontri e conferenze di chiarificazione illustranti le condizioni dell’ecosistema frusinate che, non rispettato negli ultimi trenta anni, ha apportato gravi danni alla parte alta del capoluogo e non solo. In quei momenti di dibattito, aperti e rivolti alla cittadinanza, alla presenza di ex amministratori, venivano precisati tutti quei riferimenti tecnici e scientifici -desunti dalle leggi della fisica e della chimica- che vanno ben oltre semplici schematismi ed appiattimenti propinatici dalla mala politica e da quelle poche ed incoerenti nozioni che, nonostante tutto, siamo costretti ad ascoltare.
La condizione  ambientale della zona attigua al Viadotto Biondi è stata molto bene acclarata dagli studi dell’Italtekna  che negli anni ‘80 aveva condotto, sotto l’egida del Ministero dei Lavori Pubblici e con il benestare della legge nazionale n. 730 del 28-10-86 (recepita al Protocollo del Comune di Frosinone il 16-12-89 con n. 30962) uno studio specifico riguardante il dissesto idrogeologico di Torrice, Frosinone ed Arnara. In base a questa normativa nazionale sono stati condotti direttamente dallo Stato, tramite il Ministero dei Lavori Pubblici, lavori complessi e altamente scientifici riguardanti la geologia delle suddette città, la sismica e l’idraulica del territorio come anche la meccanica dei pendii.
All’interno di questo documento-elaborato, composto di vari volumi ognuno riguardante una zona specifica della città capoluogo, contenente prescrizioni e obblighi (fu consegnato nel 1989 nelle mani della stessa Amministrazione Comunale perché ne fossero rispettati i criteri oltre che al Ministero dei Lavori Pubblici e alla Università La Sapienza, vedi allegato ) erano contenuti i dati che lasciavano presuppore le drammatiche conseguenze qualora non si fossero rispettati i criteri suggeriti. Questi stessi documenti, che per trasparenza amministrativa dovrebbero essere a disposizione del facente richiesta, non sono invece mai stati consegnati a chi, come Catullo, li avesse richiesti ufficialmente ( forse perché dispersi?). Due erano i capisaldi prescritti dalla Italtekna per evitare la catastrofe: continuare il monitoraggio sul territorio e-o dare luogo al risanamento. Ma, come si sa, non ci fu seguito alcuno. Si sarebbe, invece, dovuto operare preventivamente evitando la messa in atto di opere o surrogati.
I tecnici dell’Università La Sapienza che lavorarono al documento, nel 2000 pubblicarono un volume specifico intitolato “Le frane della Regione Lazio” che affrontava la questione frusinate come emblematica del dissesto geologico a seguito del disordine urbanistico causato dall’incuria e la impreparazione di una classe politica, incapace e mediocre. Sarebbero stati sufficienti controlli inclinometrici e piezometrici ( oggi molto di moda), per giunta previsti per obbligo di legge e loro eventuale sostituzione o integrazione nel caso di rottura. Ciò, invece, non fu mai fatto (vedi l’inclinometro a contorno del Piazzale Vittorio Veneto e quelli che furono collocati, solo inizialmente, al di sotto del pendio Biondi e che arrivavano al viadotto).
 Inoltre, la mancanza dello spazio utile per gradonature e gabbionate, la mancanza di capacità portante della collina già gravata dai numerosi carichi antropici ed urbanistici, la presenza del fiume Cosa che alla base erode le sponde e degrada la collina, suggerivano interventi meno invasivi per carichi meccanici e, certamente molto meno costosi per le nostre tasche. Emerge con chiarezza una domanda: perché non sono state messe in atto queste misure protettive? Quali le vere motivazioni? Quali i guadagni e diretti a chi?
La proposta, che già ad aprile del 2013 il nostro Movimento aveva reso pubblica, considerava la situazione stratigrafica del pendio e la mancanza di uno strato di base utile per palificate prevedendo, in sintesi, di aumentare i legami elettrochimici ed elettro osmotici con l’utilizzo di semplici coppie galvaniche o pannelli solari, intervento che si presenta ad oggi risolutivo ed estremamente economico per la nostra già tanto sofferente amministrazione. Si suggeriva, anche, di creare una task force di tecnici esterni, non manipolabili e a costo zero per supervisioni e confronti partecipati dalla base che potessero essere a garanzia di una governance diffusa.
Torneremo a dibattere e a riproporre questo progetto il 9 gennaio alle ore 17, a Frosinone in Vicolo Moccia, in un incontro aperto alla popolazione e a tutti i nostri amministratori e politici che, benpensanti , intendessero il confronto frontale la base di una buona politica per il rilancio del bene comune. Si effettuerà, a partire dai prossimi giorni, nelle piazze e nelle strade del capoluogo, un volantinaggio informativo e formativo che non lascerà spazio a dubbi e cattivi propositi amministrativi. 

Video di Luciano Granieri

venerdì 3 gennaio 2014

Fiat: l'abilità di fare soldi anzichè macchine

Luciano Granieri


Sergio Marchionne è bravo a fare i soldi e non le macchine. Questo è assodato, per buttarla in lotta di classe possiamo dire che l’Ad Fiat è bravo ad ingrassare gli azionisti e a fottere gli operai.  Tale   solita morale   sta alla base anche    della conquista di Chrysler .

Con magno gaudio dei media di regime  e dei sindacati, egualmente di regime, il Lingotto conquista definitivamente l’America . Quando Marchionne ha a che fare con sindacati recalcitranti sfodera il meglio di se. Ed è stato così anche con il Uaw, United Auto Workers, la potente organizzazione sindacale che attraverso il fondo sanitario Veba deteneva il 41,5% delle azioni di Chrysler.  Quelle quote ora sono di Fiat e consente al gruppo di possedere al 100% Chrysler. 

La trattativa è stata da manuale. Veba pretendeva  5 miliardi,  Marchionne sdegnato per la insolente ed esosa offerta ne offriva al massimo due.  Si è arrivato alla fine ad un accordo per il quale Marchionne è stato incensato come grande manager da giornalisti, politici e sindacati.  A dire il vero l’affare in soldi è sembrato più soddisfacente per i sindacati che hanno spuntato una cifra di poco inferiore alla loro richiesta, 4 miliardi e 300mila dollari, ma il colpo da maestro sta nelle modalità con cui  Fiat pagherà questo importo. 

Dalle casse del lingotto usciranno solo 1,75 miliardi,  gli eredi Agnelli non cacceranno un dollaro di più. Di aumento di capitale neanche a parlarne. Il resto  della cifra verrà corrisposto come segue:  Altri 1,9 miliardi, necessari per comprare Chrysler,  li pagherà Chrysler  e il fondo Veba  cioè coloro che hanno venduto. Potenza della finanza!  In pratica gli azionisti di Chrysler, Veba e Fiat  anziché spartirsi un generoso dividendo di un miliardo e nove lo destineranno all’acquisto  da parte di Fiat dell’intero pacchetto azionario.  Il resto della spesa, 700 milioni verrà pagato al sindacato in quattro tranche per quattro anni, trasformato in premio di produzione.  Cioè se gli operai   saranno bravi avranno saldate le loro spettanze sulle quote che hanno ceduto a Fiat, altrimenti nisba. Bel colpo!  

Ma da questo gioco delle tre carte, agli operai di Cassino, Pomigliano, Melfi, Mirafiori e all’Italia tutta , che ne verrà in saccoccia? Questo è una domanda blasfema che come al solito pongono i soliti comunisti disfattisti. La fusione, sostengono  le truppe cammellate, consentirebbe a Fiat di assaltare il tesoretto di Chrysler, accumulato con i successi commerciali  ottenuti nel  mercato americano e quello brasiliano,  e destinarlo a faraonici investimenti sugli stabilimenti italiani per trasformare le asfittiche catene di montaggio nazionali in mirabili fabbriche sforna suv. Ma sarà vero? 

Perché le  agenzie di rating non benedicono questa operazione?   La struttura finanziaria del gruppo  in verità ha ancora qualche debituccio, la sua  situazione  economica , tutt’altro  che solida,   è superiore solo al gruppo Peugeot.  Un poco di dollari per pagare i buffi saranno forse necessari. Poi,  a quanto si conosce, gli investimenti previsti riguarderebbero il rilancio dei marchi Alfa Romeo e Maserati.  A Cassino verranno prodotte, sotto il segno del biscione,  un’ammiraglia  e un Suv, oltre che l’erede della Giulietta.  E’  possibile che    la catena del Suv  vada  Mirafiori.  A Grugliasco,    ai modelli Maserati   Quattroporte e Ghibli già in produzione, si affiancherebbe un altro Suv di maggiore potenza e prestigio.  A Melfi sono   invece previsti  la   nuova Punto, sempre annunciata  e mai  realizzata  e  due mini Suv  500X e Jeep. Solo per i tre nuovi modelli di Cassino gli investimenti dovrebbero aggirarsi attorno ai 3 miliardi di euro.  

Con tutta la buona volontà è difficile capire quale successo potrà avere la scelta di produrre Suv e ammiraglie,  vetture che si pongono in segmenti dove Volkswagen, Audi e Bmw la fanno da padroni e dove il numero di auto vendute è limitato.  Di investimenti su auto elettriche o a bassa emissione neanche a parlarne.  Inoltre  molti dubbi arrivano dai mercati di riferimento. In Italia Fiat continua a perdere anche se il business dell’auto è in ripresa, in Brasile le cose non sembrano rimanere così rosee come in passato. E negli Stati Uniti, finta la cura da  cavallo  di Obama che ha risollevato l’economia   a botte di politiche keynesiane e iniezioni di denaro fresco dalla Federal Reserve,  il successo commerciale fini ad ora ottenuto verrà riconfermato?  Di conquistare  nuovi mercati emergenti, in  Russia, in Cina, in Asia in generale, non si fa menzione.  

Basterà il tesoretto Chrysler a  pagare i debiti e  a rilanciare la produzione in Italia? Ma soprattutto - considerata la spoliazione operata da Marchionne degli stabilimenti italiani, con l’aiuto dei sindacati , attraverso  la chiusura di Termini Imerese e della Irisbus,  usando dosi massicce di cassa integrazione e erodendo i diritti dei lavoratori -siamo sicuri che ci sia la volontà di investire in Italia? Di certo da questa operazione di fusione c’è solo che un’altra parte del gruppo migrerà in paradisi fiscali come già e accaduto per la Fiat Industrial  - sottraendo    ulteriori entrate fiscali all’erario  - che la nuova società verrà quotata alla borsa di New York anziché a Milano e che gli azionisti Fiat già da ieri hanno visto le proprie azione apprezzarsi del 16%. Forse varrebbe la pena che il governo vigilasse un po’ meglio sulle attività di questo genio capace di fare soldi ma non di fare macchine, cioè per dirla in termini di lotta di classe, capace di ingrassare gli azionisti e fottere gli operai.

giovedì 2 gennaio 2014

Valutazioni sui rilievi statistici concernenti le primarie del Pd.

Luciano Granieri


Cliccando sul link: Candidate & Leader Selection è possibile accedere ad una ricerca statistica che analizza  i profili  di chi  ha votato alle primarie per la segreteria del Pd.  Ignazio Mazzoli  redattore del   sito http://www.unoetre.it/ mi ha chiesto di commentare questi dati. Di seguito le mie valutazioni pubblicate anche su  unoetre.




Premetto che non ho votato alle primarie. Dalla lettura dei dati Civati  risulta il candidato ideale per un rinnovamento del partito, che rispetti un minimo le tradizioni ideologiche   (il famoso veniamo da lontano).  Leggendo il rapporto Civati ha una  maggiore incidenza del voto femminile,  e dei giovani (se aggreghiamo le tre fasce più giovani da 16 a 44 anni Civati batte nettamente gli altri contendenti). Anche fra gli studenti Pippo risulta il più votato. 

In relazione al titolo di studio Civati  raccoglie  preferenze  dai laureati, più di  Renzi e Cuperlo. In termini ideologici  Pippo  aggrega  maggiori consensi,  rispetto agli altri contendenti, dall’area della sinistra.  Se fossi del Pd mi preoccuperei della notevole adesione che Renzi ha avuto dalla destra (l’aggregato centro-centro e destra riporta il 22% il dato più elevato di gran lunga rispetto agli altri due candidati  ). Il profilo socio politico rivela che Civati ha un elettorato più qualificato.  E’ il candidato che ha ottenuto maggiori consensi dai non iscritti, i quali vengono tutti dall’area di sinistra,  molti avevano votato Sel alle precedenti elezioni. Inoltre raccoglie una  percentuale maggiore di veterani delle primarie dopo Cuperlo che notoriamente era il candidato della nomenclatura. 

Un altro aspetto importante indica come Civati rispetti meglio i valori di chi l’ha votato a differenza degli elettori di Renzi che condividono il suo futuro di  Pd, ma si sentono meno rappresentati nei loro  valori. Qui si potrebbe aprire una discussione  su quali valori debba rappresentare il futuro Pd. Un altro dato importante è che Civati risulta il più stimato da coloro che gli hanno preferito Renzi  o Cuperlo.  Se si sommano i voti di stima che gli elettori hanno dato ai candidati  a cui non hanno concesso  la preferenza  risulta che  Civati totalizza 125, Cuperlo 95, Renzi 83. 

In conclusione,  un segretario che ha i maggiori consensi fra donne, giovani, studenti e laureati, in più intercetta voti  dai non iscritti alla sinistra del Pd, rappresenta  meglio i valori di chi lo sceglie  ed è anche molto stimato da coloro che non lo hanno votato,  dovrebbe essere il  segretario ideale per un partito che aspiri a mantenere un minimo di substrato riformista, e a rinnovare il profilo  anagrafico sociale e politico dei propri iscritti. 

Ma gli elettori delle primarie, evidentemente, votando Renzi, hanno espresso altre priorità.  L’ultima domanda su chi si ritiene possa essere il miglior candidato  per battere il centro destra segna un plebiscito per il sindaco di Firenze.  Evidentemente chi è andato a votare ha pensato   a scegliere il prossimo candidato premier più che il segretario di partito. E il prossimo candidato premier designato è quello che più di tutti pesca consensi a destra. Inviterei gli amici del Pd a riflettere su questo. 

Che il governo e la regione intervengano sulla situazione Fiat a Cassino


Il segretario Provinciale PdCi Oreste Della Posta

Ormai dovrebbe essere chiaro a tutti che la situazione tragica dello stabilimento Fiat di Cassino, dove in questo mese di gennaio si lavorerà solo quattro giorni, è aggravata dal fatto che non si prevede per il futuro né la produzione di nuovi modelli, né men che meno la bozza di un piano industriale. Se questa situazione dovesse permanere, appare chiaro che lo stabilimento ha dinanzi a se un futuro incerto. In questo quadro è allarmante ciò che emerge dall’esperienza delle varie multinazionali, le quali ritengono che i siti produttivi si possono salvare solo se utilizzano gli impianti per oltre il 50% delle potenzialità produttive. Applicando tale regola alla Fiat di Cassino, è possibile notare che la produzione attuale è molto al di sotto delle potenzialità dello stabilimento, circa 1800 vetture al giorno, e oltretutto palesemente al di sotto del 50%. E’ evidente che a questo ritmo lo stabilimento non può reggere. Nella tragica prospettiva di chiusura della stabilimento, non si perderebbero solo i 3900 lavoratori, ma si determinerebbe altresì il crollo economico di un’intera area geografica. Occorre non perdere altro tempo in discussioni inutili, capziose e fuorvianti, ma andare al nocciolo della questione. E’ evidente a tutti che per incidere sul problema Fiat occorre un forte intervento del governo unico in grado di condizionare le scelte dell’azienda. In questo quadro i Comunisti ritengono che tutte le forze sindacali e politiche devono chiedere l’intervento del governo sulla vertenza dello stabilimento Fiat di Cassino. Di tale richiesta deve farsi carico, in modo ferreo e determinato, la Regione Lazio tramite il suo governatore Zingaretti. E’ oltremodo necessario un grande movimento di lotta che lanci l’allarme Fiat e che veda tutti i cittadini partecipi, perché se lo stabilimento dovesse chiudere, si impoverirebbe il commercio, l’artigianato e persino la normale convivenza civile e sociale subirebbe un duro colpo. Un appello pressante per far sì che sisvolga un’azione incisiva sul governo, va fatto ai nostri senatori e deputati, potrebbe essere anche una buona occasione per riavvicinare i cittadini, ormai disillusi e facile preda dei populismi, alle istituzioni.

mercoledì 1 gennaio 2014

Super gasoline blues. In ricordo di Roberto Ciotti

Luciano Granieri

                                                                                                                                                                                                                                 
 

Il treno arranca sferragliando nella valle. In mezzo al dondolio, ora dolce ora brusco, da un lato la storia del finestrino mostra una distesa trapuntata di covoni di fieno. Sullo sfondo le ciminiere di una fabbrica sputano polveri sottili e anidride carbonica. Super Gasoline Blues. Dall’altro lato il finestrino opposto proietta un altro film, mentre il treno continua a sferragliare fra scossoni e rollii. Le scene tenui, come in una pellicola in bianco e nero mostrano la valle. Alcune mucche sono al pascolo. Si nutrono di un’erba fracida di smog. Negli angoli, dietro i frattoni, spuntano carcasse di frigoriferi ed elettrodomestici non meglio identificati. Il nastro dell’autostrada, brulicante di camion, unisce il pendio con la pianura. Sullo sfondo lo scheletro di una fabbrica dismessa vomita ancora amianto. Super Gasoline Blues. Immagini scossoni, suggestioni di un cult movie che combina scenari apocalittici, di una letale devastazione ambientale, con la caparbietà di roccaforti agresti che tentano di resistere più forti delle polveri sottili. Super Gasoline blues. Il film potrebbe evocare desolazione, ma il diffondersi di un giro di blues, rende tutto stranamente poetico, anche lo smog, l’autostrada, la fabbrica che sputa amianto. E’ una giostra armonica combinata da accordi e arpeggi lenti e raffinati a cui si aggiunge un canto shout ma asciutto. Non c’è altro tranne un piede che batte il tempo sul pavimento della carrozza sferragliante. Si riconosce Castle of sand, un blues si Jimi Hendrix. Ma quella chitarra originale , quella voce inconfondibile , che rendono tutto così surreale, magico appartengono ad uno dei più grandi bluesman italiani Roberto Ciotti. Il brano è tratto da uno dei suoi capolavori Super Gasoline blues . Il 2013 si è chiuso con la triste notizia della morte del compagno di tanti viaggi che gli appassionati di blues, e non solo, hanno condiviso sulle note della sua incredibile chitarra. Insieme al 2013, proprio il 31 dicembre, se ne è andato a 60 anni Roberto Ciotti, ma quei viaggi a bordo di treni sferraglianti continueranno ancora grazie al patrimonio di grandi blues e di sontuosa musica che Roberto ci ha lasciato.


La pagliuzza nella trave

Comitato di lotta Frosinone





















































Che una persona assurga ai titoli di cronaca per portare con sé la patente scaduta è un po' eccessivo anche per i mezzi di comunicazione locali all'asciutto evidentemente di notizie un po' più serie che pure esisterebbero: ultimamente si ha difficoltà a percepire la “foresta” e si guardano solo singoli “alberi”. La rilevanza data alla non-notizia (vedi allegati) attraverso una sovraesposizione dei titoli e/o articoli un po' forzati conditi di sollecito della immaginazione per situazioni non pertinenti per un semplice fermo stradale, maschera la vera notizia: che la persona in questione sia della “Multiservizi”.
Che poi la notizia non sia riportata correttamente e completamente anche questo è un dettaglio che ai nostri mezzi di comunicazione non interessa. E' certo che la pericolosità del soggetto sia stata rilevata immediatamente a fronte anche delle sue pur pesanti affermazioni? E, se così non fosse stato, come mai la pericolosità viene contestata tempo dopo? Come si è appurata l'effettiva pericolosità delle affermazioni del soggetto che potevano anche essere dettate da una pur non giustificabile iperbole?

Rimane il fatto che lavoratori della Frosinone Multiservizi protestano pubblicamente e ininterrottamente da 8 mesi. Essi sono stati tutti licenziati dopo 17 anni di attività precaria per la pubblica amministrazione. L'80% di essi non si è piegata al dimezzamento del salario e ad un contratto a tempo determinato di pochi mesi, ma ha preferito ingaggiare una lunga lotta per il diritto al lavoro, alla dignità, senza tener ascolto alle false sirene della amministrazione, diventando nei fatti l'unica opposizione pubblica al “sistema appalti”, oggetto oggi anche della magistratura, e alle scelte come quelle del predissesto che condanna la città e i cittadini a camminare in ginocchio per 10 lunghi anni salvando la politica.

In questi mesi più la protesta si è alzata forte più l'azione di contrasto della amministrazione ha preso la piega dello screditare chi vi si opponeva in maniera varia ma costante. I lavoratori della Frosinone Multiservizi spesso vengono denigrati e sbeffeggiati, descritti senza volontà di lavorare e sordi alle “ottime” proposte della giunta (sigh!). Tale trattamento è stato riservato anche ad altre istituzioni, siano esse grandi (la Regione) o più piccole (altri enti), che hanno sperimentato la supponenza con le quali venivano fatte oggetto di indifferenza o di non certezza delle azioni. E non basta. La stessa maggioranza consiliare rimane annichilita dai continui e saccenti interventi del sindaco che risultano non essere emendabili, durante i quale qualcuno se non sapesse che si è nell'aula consiliare penserebbe ad un tribunale. E così l'opposizione consiliare - quando si manifesta tale - viene svilita attraverso ripetute condanne alle sue ancestrali colpe.

In ogni caso e contro tutto e tutti i lavoratori continueranno a sottolineare la drammatica situazione che la città di Frosinone attraversa sul piano politico e sociale a cui si aggiunge, come ciliegina sulla torta, la gravissima situazione giudiziaria venutasi a creare e che i cittadini e la stampa farebbero bene a non trascurare.

Essi si difendono dalla politica reazionaria della giunta con l'avallo del silente consiglio, che slalomeggia in un misto di retorica cattolica e famelico arrivismo, politica che è la vera pericolosa avversaria per la città e i cittadini.

lunedì 30 dicembre 2013

Buoni propositi per l'anno 2014

Luciano Granieri

Liberiamo l'ostaggio, liberiamo Frosinone


  disegno di Jacopo Granieri
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio  della voracità  di palazzinari senza scrupoli che sottraggono alla cittadinanza interi pezzi di città.
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio di una classe di amministratori che da decenni si mette al servizio dei  suddetti palazzinari, contro gli interessi della comunità .
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio di una serie di scandali (Forum, P.zza  Risorgimento, Piastra Cavoni, videosorveglianza del traffico, corruzione sulla gestione rifiuti) che hanno minato la legalità dell’azione amministrativa  delle giunte di centro sinistra e centro destra succedutesi alla guida della città .
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio della povertà, imposta ai cittadini da una scellerata politica fiscale che per decenni ha rinunciato a far pagare gli oneri di urbanizzazione ai palazzinari.
Liberiamo Frosinone:
Ostaggio della disoccupazione, della mancanza di servizi sociali, o della  loro privatizzazione, di aliquote fiscale locali altissime. Risultato dello scellerato piano di riequilibrio economico e  finanziario che costringerà i cittadini per 10 anni a ripagare un debito di 50 milioni di euro di cui non hanno alcuna  responsabilità.
Liberiamo Frosinone
Ostaggio dello smog, delle polveri sottili, delle frane. Frutto di una pluriennale dissennata gestione del territorio.
NON C’E’ PIU’ TEMPO

LIBERIAMO FROSINONE

Con questo necessario, doveroso  obbiettivo auguriamo a tutti un ottimo e resistente 2014

CONTRO L’EUROPA DEI PADRONI E DELL’AUSTERITA’ PER L’EUROPA DELLE LAVORATRICI/TORI, DELLA DEMOCRAZIA E DELLA GIUSTIZIA SOCIALE

Sinistra Anticapitalista



I  paesi dell’Europa vivono una doppia crisi, quella generale del capitalismo cominciata nel 2007, tra le più gravi della sua storia, e quella propria del continente (accentuata ed accelerata dalla prima), espressione delle contraddizioni profonde delle strutture economiche ed istituzionali su cui è stata costruita l’Unione europea dalle classi dominanti.
Queste modalità di “costruzione dell’Europa” operate dalla borghesia europea e funzionali a questa fase di accumulazione capitalista con i suoi effetti devastanti di povertà e disoccupazione, hanno infangato l’idea stessa dell’unità europea e spingono settori della popolazione ad essere, non solo, come è giusto, contro “questa Europa”, ma contro l’idea stessa di Europa tout court, ripiegando su posizioni nazionaliste ed alimentando sempre più gli spazi delle destre fasciste e nazionaliste.

Le due fasi della costruzione europea

Dopo la tragedia della seconda guerra mondiale, espressione della divisione del continente in tanti stati nazionali e della concorrenza dei principali paesi capitalisti, le borghesie nazionali (a partire da quelle tedesca, francese ed italiana) decisero di costruire strutture politiche/economiche di collaborazione che disciplinassero la concorrenza capitalista e fossero funzionali ad estendere i mercati, garantendo una nuova fase di sviluppo del sistema. Per questo nacquero, prima la Comunità Economica Europea, poi la Comunità Europea ed infine l’Unione Europea. L’evoluzione di questa struttura continentale, si produsse nel quadro della fase espansiva del capitalismo, indirizzata da scelte economiche sia nazionali che europee di tipo keynesiano e sotto la spinta della mobilitazione operaia e della forza delle organizzazioni sindacali riformiste. Questo processo tendeva a far convergere le economie europee, pur con molti limiti e ancora con profonde differenze. Ma a partire da metà degli anni ’80, finita l’età dell’oro e sotto la spinta neoconservatrice e neoliberista degli USA e dell’Inghilterra le scelte di politica economica delle classi dominanti mutano profondamente. La borghesia europea, sempre con meno incertezze e grazie a una serie di sconfitte inflitte al movimento dei lavoratori, persegue la scelta dell’unità europea dentro un quadro rigorosamente neoliberista con la totale liberalizzazione dei processi economici, della finanziarizzazione e della concorrenza a tutti i livelli. Si sostiene che l’omogeneità e gli equilibri economici saranno prodotti dal libero mercato e non da una politica finanziaria e tributaria rivolta a gestire progetti economici e sociali che riducano le differenze esistenti tra i diversi paesi. L’introduzione della moneta unica deve servire a favorire ulteriormente gli scambi economici, ma anche ad imporre una disciplina di bilancio a tutti i paesi spingendoli a svalutare i salari, non potendo più esercitare la concorrenza tramite la svalutazione della moneta nazionale.
E infatti le differenze salariali che già erano molto alte si sono ancora rafforzate: il salario minimo dei paesi più deboli arriva ad essere di 8/9 volte inferiore a quello della Francia o dell’Olanda, ma anche le disparità interne a ciascun paese sono alte; si pensi alla Germania dove 7,5 milioni di lavoratori hanno un salario mensile di 400 euro mentre di norma il salario minimo supera i 1.200 euro. E così a tutti i livelli le disparità si sono aggravate e i paesi del Sud che in una prima fase dell’Euro avevano conosciuto un parziale recupero grazie al super indebitamento non hanno resistito all’arrivo della crisi. Quest’ultima ha rivelato il “peccato originale” della zona euro che aggrega paesi dalle caratteristiche strutturali molto differenti senza prevedere nulla per sanarle e neppure per garantire convergenze reali.

La scelta feroce delle borghesie europee

La verità è che c’è la scelta feroce e comune di tutto il padronato europeo nelle sue diverse articolazioni e governi nazionali, gestita dalla Commissione, dalla Banca europea e dalla Troika: ridisegnare il corso della storia, infliggere una sconfitta epocale alla classe lavoratrice, diminuire mediamente del 25 % i salari, disporre di un esercito industriale di riserva di decine di milioni di disoccupati e distruggere i diritti e la protezione sociale conquistati nel secondo dopoguerra. Questa politica e le scelte neoliberiste non sono della sola borghesia tedesca con la Merkel, come molti credono o cercano di far credere, ma sono condivise dalle altre borghesie europee, che ne hanno un proprio tornaconto (compresa quella greca) anche se, come in ogni banda a delinquere, ognuno cerca di accaparrarsi una parte più consistente del bottino e fa pesare la propria forza e gli interessi specifici. Inoltre esiste un processo, se pure ancora parziale, di formazione di una vera e propria borghesia europea in quanto tale rintracciabile in primo luogo nei settori capitalisti più dinamici e integrati.
La crisi del debito è stata l’occasione e il pretesto per infliggere alle classi lavoratrici dosi massicce di austerità e per ristabilire la redditività del capitale.
Per questo si sono inventati il six pack, il fiscal compact e il two paks, cioè leggi e misure finanziarie al servizio delle banche e delle grandi aziende private che hanno la funzione di garantire l’aumento dello sfruttamento e il mantenimento delle rendite finanziare e dei profitti: una vera guerra sociale che governi e borghesie hanno scatenato contro il mondo del lavoro.
Inoltre le politiche della grande borghesia e delle banche per ramazzare nuove risorse per difendere rendite e profitti stanno determinando anche l’impoverimento di vasti settori di piccola borghesia, di commercianti e di lavoratori indipendenti, che perdono la loro condizione di stabilità e sono sprofondati verso il basso: una parte di questi sono settori sociali consolidati e moderati che da sempre hanno disposto di una certa agiatezza, ma molti di questi sono anche ex lavoratori che dopo aver perso il posto di lavoro hanno aperto una piccola attività commerciale che ben presto arriva al capolinea.
Queste scelte economiche, che provocano drastiche riduzioni dei consumi, disoccupazione di massa e povertà, cioè un processo recessivo che alimenta ancor più la crisigenerale, possono sembrare assurde, irrazionali e fallimentari se viste in astratto (e sono naturalmente irrazionali, violente ed inaccettabili dal punto di vista degli interessi della collettività); sono però del tutto “razionali e necessarie” nell’ottica delle classi dominanti e dell’acuta concorrenza con cui queste ultime sono confrontate con gli altri poli capitalistici, garantendo a loro il potere e i privilegi. Nello stesso tempo aprono un periodo storico di grande crisi sociale, politica e culturale in cui si confronteranno sul campo le classi sociali e le forze politiche alla ricerca della loro egemonia e del loro sbocco politico ed economico; in questo quadro il pericolo della destra e della destra estrema, come già una serie di vicende illustrano ampiamente, è ben presente e deve essere assunto nell’orientamento politico e nella attività delle forze anticapitaliste.

NO a Scilla e a Cariddi

Se l’attuale costruzione dell’Europa capitalista, per altro vacillante e contradditoria, è inaccettabile perché corrisponde a un progetto di società reazionaria e violenta di dominazione di classe, anche il ripiegamento sugli stati nazionali non sarebbe meno reazionario e violento ed avverrebbe portando al potere esponenti della borghesia non meno feroci e disposti a tutto pur di garantirsi il potere e lo sfruttamento della classe lavoratrice.
Solo le forze anticapitaliste e rivoluzionarie possono proporre ciò che è necessario in questa fase storica: l’alternativa di un’altra Europa, in totale rottura con i trattati e le attuali istituzioni, fondata sulla democrazia, la collaborazione e la solidarietà tra i popoli, l’armonizzazione sociale verso l’alto, lo sviluppo dei servizi pubblici comuni, cioè un progetto e un percorso, di certo lungo e complesso, per l’Europa socialista come era negli auspici dei fondatori del movimento operaio. Non a caso a metà degli anni ’30 Trotsky scriveva: «I lavoratori non hanno il minimo interesse a difendere le frontiere attuali, soprattutto in Europa, sia agli ordini della loro borghesia sia nella insurrezione contro di essa… Il compito del proletariato europeo non è di rendere eterne le frontiere, ma di sopprimerle in modo rivoluzionario. Statu quo? No! Stati uniti d’Europa

Per l’unità delle classi lavoratrici del continente

Bandiere DEA Manifestazione in GreciaLa campagna che la nostra organizzazione sta facendo per l’unità del movimento delle lavoratrici e dei lavoratori per la difesa del reddito e dell’occupazione è quindi strettamente collegata al rifiuto e al rigetto dei trattati europei.
Affrontiamo la “questione europea” a partire dall’unità delle classi proletarie, dalla necessità della costruzione di un movimento su scala internazionale contro le politiche della Troika, che porti la lotta delle donne e degli uomini sfruttate/i e oppresse/i a respingere il ricatto del debito e tutti gli strumenti padronali neoliberisti messi in piedi dalle istituzioni al servizio delle imprese private dei padroni e delle banche: il Fiscal compact, il two packs, il pareggio di bilancio. Occorre contrapporre un programma fondato sulla risoluzione dell’emergenza sociale, sulla distribuzione del lavoro esistente, il recupero salariale e la nazionalizzazione delle banche e delle imprese strategiche.
Il nostro asse politico è il rigetto delle politiche di austerità nella loro valenza europea e nazionale dei singoli stati, il rifiuto di pagare il debito, l’unità dei lavoratori su scala nazionale ed europea contro ogni ripiegamento nazionalista e di contrapposizione soggettiva ma anche obiettiva con la classe operaia di altri paesi.
Consideriamo nello stesso tempo del tutto utopistiche e sbagliate le posizioni di quelle forze di sinistra che accettano il quadro economico ed istituzionale dell’UE (un falso europeismo) e pensano di democratizzarla e di renderla “sociale” evocando qualche modesta misura riformista e keynesiana. Queste forze finiscono regolarmente per essere alleate e subalterne dei partiti socialliberisti, cioè a coloro che gestiscono insieme ai conservatori le politiche liberiste dell’Unione, cioè l’austerità.

La costruzione di un progetto e di una meta

Non partiamo dalla semplicistica proposta di uscita dall’euro, che molti sostengono pensando di aver trovato la parola d’ordine grimaldello e di massa per aprire la porta ad una risposta nazionale (ma per molti è anche una risposta nazionalista apertamente o potenzialmente di destra) alla politica delle istituzioni europee.
Qualsiasi idea di una soluzione nazionale dentro un quadro capitalista, variamente colorata dalla speranza di un ritorno ai vecchi tempi del keynesismo, un amarcord dei tempi “felici” dell’età dell’oro del dopoguerra, è del tutto utopica perché non corrisponde a questa fase dell’economia mondiale della globalizzazione. Non è un caso che chi sostiene questa posizione non precisa mai quale classe e quale governo dovrebbe portare avanti questa politica. Non sarebbe un’idea geniale, né interesse della classe lavoratrice, chiedere alla borghesia di tornare alla moneta nazionale, restando all’interno delle attuali politiche liberiste.
L’idea che l’austerità si possa sconfiggere con la svalutazione e il ritorno alle monete nazionali è infatti un’illusione, come è stato dimostrato dalla svalutazione della lira nel 1992 e dall’austerità economica senza precedenti con cui quella politica è stata accompagnata. Siamo stati contrari all’entrata dell’Italia nell’Euro con il trattato di Maastricht perché quel trattato prevedeva l’austerità economica, ma non è automaticamente con l’uscita da quel quadro che possiamo mettere fine a quelle stesse politiche.
Neanche possono convincere quelle posizioni che propongono la formazione di una moneta euromediterranea e di una zona economica (il riferimento è all’ALBA latino americana) dei paesi del Sud del continente. Va da se che occorre lavorare perché ogni forma di resistenza che si esprime in questi paesi, trovi i canali della convergenza e della unità. Per altro nell’unica occasione – l’ottobre del 2012 – in cui c’è stato un appello per una mobilitazione unitaria continentale, la rispondenza è stata positiva, mostrando le potenzialità di una lotta europea dei lavoratori e dei movimenti sociali, che deve essere perseguita più che mai.
Non convince nella proposta “euromediterranea” ancora una volta l’illusione della svalutazione della nuova moneta per reggere la concorrenza come momento salvifico, e soprattutto l’indefinitezza su quale classe, di quali governi dovrebbero essere i protagonisti, di questo distacco del Sud dell’Europa; posizione che, per altro, lascia spazio a possibili illusioni su settori “nazionali” della borghesia interessati al progetto e a “possibili compromessi” con queste forze del padronato. Non a caso al di là della presunta “concretezza” della nuova moneta tutto il progetto è avvolto da una grande nebbia certo non risolta dal generico riferimento al socialismo del XXI secolo.
Nello stesso tempo è chiaro e molto probabile che nelle resistenze sociali in corso in Europa la rottura sociale si porrà prima in un paese piuttosto che in un altro; se una rottura sociale e politica portasse, come è nei nostri obiettivi, a un governo di sinistra dei lavoratori, basato sulla mobilitazione popolare, quest’ultimo dovrebbe prendere tutte le misure di emergenza necessarie per difendere gli interessi della classe lavoratrice di fronte all’aggressione padronale e delle istituzioni europee, compreso se necessario, l’uscita dell’Euro, come misura di ultima istanza, avendo la capacità di usare questa minaccia, come elemento di condizionamento e di prova di forza con il padronato e l’Unione europea. Questi potrebbero anche assumersi la responsabilità di decretare l’uscita dall’euro di quello stato che pratica politiche alternative, ma i rischi sociali ed economici per gli altri stati, soprattutto se si stesse parlando anche solo di Italia o Spagna, non sarebbero irrilevanti.
Il nostro approccio strategico si basa dunque su cinque pilastri:
  1. una impostazione internazionalista e di unità dei lavoratori a livello europeo;
  2. il rigetto delle politiche di austerità e dei suoi strumenti;
  3. l’uscita dall’euro non è esclusa a priori, ma può in determinati casi essere utilizzata come arma dissuasiva da un governo di vera sinistra;
  4. la rottura con l’attuale Unione europea capitalista deve essere accompagnata da un progetto di rifondazione democratica, cooperativistica e socialista dell’Europa;
  5. la rottura con le politiche liberiste europee deve accompagnarsi con la piena rottura di ogni politica liberista nel paese dato.
Solo in questo modo è possibile contrastare la pericolosa crescita dei sentimenti nazionalisti e xenofobi e dell’estrema destra La costruzione della solidarietà e delle resistenze sociali a livello europeo è un compito non rinviabile. Soltanto una profonda e prolungata mobilitazione popolare in diversi paesi e su scala internazionale potrà sconfiggere le classi padronali dell’Europa e i loro progetti reazionari. Una crisi così violenta del capitalismo richiede soluzioni radicali, cioè l’uscita dal capitalismo; il cammino è lungo e difficile, si parte dalle resistenze e dalle lotte concrete, ma la meta dev’essere ben chiara.

Ho lavorato al programma statunitense dei droni. Il pubblico deve sapere.

Heather Linebaugh . fonte http://znetitaly.altervista.org/


Ogni volta che leggo commenti di politici che difendono il programma dei velivoli telecomandati Predator e Reaper – noti anche come droni – vorrei poter porre loro alcune domande.  Comincerei con: “Quanti donne e bambini avete visto inceneriti da un missile Hellfire?” E: “Quanti uomini avete visto trascinarsi attraverso un campo cercando di arrivare all’abitato più vicino in cerca di aiuto, sanguinando dalle gambe asportate?” O anche, più chiaramente: “Quanti soldati avete visto morire sul lato di una strada in Afghanistan perché i nostri UAV [‘unmanned aerial vehicles’ – velivoli senza equipaggio – n.d.t.] più precisi che mai non erano stati in grado di identificare un IED [improvised explosive device – congegno esplosivo improvvisato – n.d.t.] che attendeva il loro convoglio?”
Pochi tra questi politici che così sfacciatamente vantano i vantaggi dei droni hanno un’idea reale di cosa effettivamente succede. Io, d’altro canto, ho visto di persona queste immagini orribili.
Conoscevo i nomi di alcuni dei giovani soldati che vedevo dissanguarsi a morte sul lato di una strada. Ho visto dozzine di maschi in età da militare morire in Afghanistan, in campi vuoti, sulle rive di fiumi e alcuni appena fuori da un edificio dove la loro famiglia aspettava il loro ritorno dalla moschea.
I militari statunitensi e britannici insistono nell’affermare che questo è un programma esperto, ma mi incuriosisce il fatto che sentano il bisogno di trasmettere informazioni viziate, poche o nessuna statistica sui morti civili e contorti rapporti tecnologici sulle capacità dei nostri UAV. Questi specifici incidenti non sono isolati, e la percentuale di vittime civili non è cambiata, nonostante quanto ai nostri rappresentanti dell’esercito può piacere di raccontarci.
Quello che il pubblico deve capire è che il video fornito da un drone normalmente non è sufficientemente chiaro da identificare qualcuno che porta un’arma, anche un giorno limpido con poche nuvole e una luce perfetta. Questo rende incredibilmente difficile anche ai migliori analisti capire se qualcuno ha sicuramente armi. Viene in mente un esempio: “Il flusso è così sfocato; e se invece di un’arma fosse una pala?” Ho avvertito costantemente questa confusione, così come l’hanno avvertita i miei colleghi analisti degli UAV. Ci chiediamo sempre se abbiamo ucciso la persona giusta, se abbiamo messo in pericolo la gente sbagliata, se abbiamo distrutto la vita di un civile innocente tutto a causa di un’immagine o di un’angolazione cattiva.
E’ anche importante che il pubblico capisca che ci sono esseri umani che manovrano questi UAV e ne analizzano le informazioni. Lo so perché sono stata una di loro e nulla può preparare a una routine quasi quotidiana di missioni di combattimento di sorveglianza aerea su una zona di guerra. I promotori degli UAV affermano che i soldati che fanno questo genere di lavoro non sono colpiti dall’osservare questo combattimento perché non sono direttamente in pericolo fisico.
Ma ecco come stanno le cose: io possono non essere stata sul terreno in Afghanistan, ma ho osservato in grande dettaglio parti del conflitto per giorni interminabili. So ciò che si prova quando qualcuno muore. Raccapricciante è un aggettivo troppo debole. E quando si è esposti a questo in continuazione diventa come un piccolo video, incorporato nella tua testa, che si replica eternamente, causando una sofferenza psicologica e un dolore che sperabilmente molti non sperimenteranno mai. I soldati addetti agli UAV sono vittime non solo dei ricordi ossessivi che portano in sé da questo lavoro, ma anche del senso di colpa di essere sempre un po’ insicuri a proposito di quanto accurate siano state le loro conferme di armi o le loro identificazioni di individui ostili.
Naturalmente siamo addestrati a non provare questi sentimenti, e li combattiamo, e diventiamo amareggiati. Alcuni soldati cercano aiuto in cliniche della salute mentale offerte dall’esercito, ma abbiamo dei limiti riguardo a con chi e dove possiamo parlare, a causa della segretezza delle nostre missioni. Trovo interessante che le statistiche dei suicidi in questo settore di carriere non siano diffuse, né che lo siano i dati su quanti soldati che lavorano in posizioni UAV siano pesantemente curati con medicinali contro la depressione, i disturbi del sonno o l’ansia.
Recentemente il Guardian ha ospitato un corsivo del segretario di stato inglese alla difesa Philip Hammond.Vorrei potergli parlare dei due amici e colleghi che ho perso, nel giro di un anno dall’aver lasciato l’esercito, perché suicidi. Sono sicura che non è stato informato di questo piccolo particolare del programma segreto degli UAV, altrimenti sicuramente esaminerebbe con maggiore attenzione la portata completa del programma, prima di difenderlo di nuovo.

Gli UAV in Medio Oriente sono usati come arma, non come protezione, e fintanto che il nostro pubblico resta ignorante di ciò, questa grave minaccia alla sacralità della vita umana – in patria e all’estero – continuerà.