sabato 21 dicembre 2019

Comitato referendario per sostenere le ragioni del no al taglio dei parlamentari

Coordinamento per la democrazia costituzionale



Il referendum sul taglio dei parlamentari si fara'. Al Senato e' stato raggiunto il numero di firme necessario per promuovere il referendum. Il taglio dei parlamentari e' questione decisiva ed importante che riguarda i limiti e le forme attraverso le quali si esprime la sovranità popolare ed e' giusto che su di essa si pronuncino le elettrici e gli elettori, qualunque sia l’esito  delle urne.

Il Coordinamento costituira' un suo Comitato referendario per sostenere le ragioni del No. Infatti non si puo' accettare che il numero dei parlamentari venga affrontato in termini demagogici e come un taglio di poltrone al solo scopo dichiarato di risparmiare sui costi.

Siamo contro questa versione demagogica e populista, in particolare contestiamo l'unica vera motivazione portata sulle minori spese, per sottolineare al contrario che una riforma ha senso se riafferma la centralita' del parlamento, un asse portante della nostra democrazia delineata dalla Costituzione.

La centralita' del parlamento va affermata anche con l'approvazione di una legge elettorale proporzionale che riconsegni ai cittadini il diritto di scegliere direttamente i parlamentari che li devono rappresentare.

E' evidente il tentativo di scaricare la crisi di credibilita' di tanta parte delle istituzioni e dei partiti sul solo parlamento, che va sicuramente rinnovato nella qualita' e nel funzionamento, rimettendolo al centro del sistema istituzionale anche per arginare le tentazioni presidenzialiste della destra.

Condurremo la nostra campagna per il No all'insegna del rilancio del ruolo del parlamento, della sua centralita', senza timore di contrastare una vulgata falsa e sbagliata che ha dominato in questi anni.

 


martedì 17 dicembre 2019

Le sardine e lo sciopero generale (che non c’è)

Fabiana Stefanoni


Il fatto che, nelle ultime settimane, le piazze di tutte le principali città italiane si stiano riempiendo di migliaia di manifestanti al richiamo delle "sardine" (enorme la manifestazione del 14 dicembre a Roma: Piazza San Giovanni non si riempiva così da molti anni) ha aperto un dibattito anche a sinistra. Tanti attivisti hanno storto il naso di fronte a questo movimento: si sono interrogati sull’opportunità o meno di parteciparvi, considerandolo eterodiretto dal Partito democratico. Ma è un dato di fatto che decine, forse centinaia di migliaia di persone, soprattutto giovani, stanno scendendo in piazza per una causa giusta, cioè contro il populismo xenofobo e reazionario (ben rappresentato da Matteo Salvini, principale obiettivo polemico di quelle piazze) e non se ne torneranno certo a casa su ordine del Pd. Per capire come porsi di fronte a questo nuovo fenomeno, è necessario partire dal contesto in cui si sta sviluppando e da un’analisi della sua composizione.

Il quadro internazionale
Sarebbe sbagliato analizzare il movimento delle sardine limitandosi al contesto politico italiano, come fanno quasi tutti i giornalisti (che tanto spazio stanno dando a questo movimento nelle trasmissioni televisive e sulla stampa). Altrettanto sbagliato sarebbe vederlo come una riproposizione del M5S delle origini: le sardine nuotano in un mare totalmente diverso, perché, nel frattempo, il mondo è cambiato, ed è in rivolta. Le televisioni di tutto il mondo sono costrette a diffondere le immagini di piazze strapiene: da ultimo, in Francia un milione e mezzo di scioperanti, insieme con migliaia di studenti, hanno invaso le città di tutto il Paese (e lo sciopero è ancora in corso in molti settori). La rassegna dei Paesi dove si stanno sviluppando movimenti di massa è molto lunga (e si allunga di giorno in giorno): Cile, Uruguay, Honduras, Panama, Haiti, Hong Kong, Libano, Iraq, Iran, Catalogna, Francia. Mentre starete leggendo questo articolo, probabilmente, l’elenco sarà già datato.
Il fatto che stia avvenendo questa ondata rivoluzionaria – in barba ai pessimisti (spesso opportunisti) teorici dell’«ondata reazionaria» – ha una ragione materiale. Il capitalismo, come solo l’analisi marxista aveva correttamente previsto, non accenna a uscire dalla crisi iniziata nel 2007. Per preservare i profitti miliardari dei grandi industriali e dei banchieri e riempire le loro tasche di denari pubblici, in tutto il mondo i governi borghesi hanno applicato politiche di austerity che hanno ulteriormente peggiorato le condizioni di vita delle masse povere, le quali, di conseguenza, protestano.
I primi a ribellarsi sono stati, non a caso, i proletari dei Paesi coloniali o semi-coloniali, dall’Asia all’Africa all’America Latina. In queste regioni il Fmi (Fondo monetario internazionale) ha imposto misure draconiane a popoli già stremati: è bastata una scintilla a far scoppiare gli incendi che oggi attraversano, ad esempio, l’America centrale e meridionale (Cile in testa). In Europa le cose non vanno molto diversamente: se alcuni Paesi imperialisti – come la Germania e la Francia – potevano vantare economie più solide, gli ultimi dati degli economisti dimostrano che persino loro sono a rischio recessione (come l’Italia). I capitalisti europei, per mano della Troika (Fmi, Banca centrale europea, Commissione Europea), non faranno passi indietro: succhieranno tutto il sangue che potranno dalle membra già martoriate di milioni di poveri.
E’ un dato di fatto: le nuove generazioni, anche in Europa, sono destinate o alla disoccupazione, oppure a lavori precari e sottopagati. Per questo è molto probabile che l’ondata di lotte non si arresterà alla Francia e coinvolgerà altri Paesi europei: se il popolo ha fame e, soprattutto, ha ben poco da perdere, da che mondo è mondo si ribella.

E l’Italia?
L’Italia non è un’isola. Soprattutto, non è un’isola felice. Le condizioni del proletariato sono persino peggiori di quelle di altri Paesi europei: il debito pubblico è il più alto dopo la Grecia, la disoccupazione raggiunge (soprattutto al Sud) percentuali da brivido, la produzione dal 2007 è calata del 22%, il potere d’acquisto dei salari è ai minimi storici. Il malcontento della classe lavoratrice cresce, ma non ha trovato, per ora, uno sbocco nella lotta. E anche questo non è casuale: ha una ragione materiale.
In Italia le direzioni politiche e sindacali egemoni nel movimento operaio hanno agito da freno. Sono anni che le principali burocrazie sindacali (Cgil, Cisl e Uil) non chiamano allo sciopero generale (l’ultimo è stato proclamato dalla sola Cgil nel 2014, contro il Jobs Act). E’ emblematico il caso dei rinnovi contrattuali dei principali settori operai (metalmeccanici in primis), che stanno avvenendo ormai senza nemmeno un giorno di sciopero (negli anni Settanta quando si apriva la stagione dei rinnovi contrattuali la terra sotto i piedi dei padroni tremava!). Altrettanto emblematico è che uno dei principali difensori della Finanziaria del Conte-bis sia l’ex metalmeccanico Landini, ora alla testa della più grande Confederazione sindacale (si veda l’intervista rilasciata a Repubblica il 9/12/2019, dove il leader della Cgil propone «una nuova alleanza a governo e imprese» per uscire insieme dalla crisi!). Fa parte di questa politica concertativa il fatto che, in questi giorni, mentre all’Ilva risuona il ticchettio di una bomba ad orologeria (4700 esuberi nel migliore dei casi) e mentre sono a rischio altre decine di migliaia di posti di lavoro (dalla Whirlpool ad Alitalia, da Auchan a Unicredit alla Banca popolare di Bari), le tre principali confederazioni sindacali si limitano a organizzare qualche innocuo sit-in a Roma…
Al contempo, al di fuori di questi grandi apparati, il quadro non è roseo. Le direzioni dei sindacati alternativi e autonomi hanno fatto – e continuano a fare – scelte deleterie per la lotta di classe, ostinandosi a non mettere in atto azioni di sciopero e mobilitazioni unitarie. Mentre celebrano lo sciopero generale in Francia, nella prassi operano in direzione esattamente opposta: lo sciopero generale in Francia ha visto partecipare contemporaneamente sia i sindacati alternativi (come Solidaires) sia quelli tradizionali e burocratici (come la Cgt); i principali dirigenti dei nostri sindacati di base si rifiutano persino di organizzare uno sciopero unitario tra di loro e spezzettano gli scioperi e le lotte ogni volta che è possibile.
Sappiamo, per esperienza, che se i lavoratori si mobilitano, se scendono in sciopero numerosi e uniti, la loro coscienza cambia rapidamente: hanno fiducia in sé stessi, nella loro capacità di strappare risultati con la lotta e questo non può che rafforzare la loro combattività e ostacolare l’opera di pompieraggio delle burocrazie e delle direzioni traditrici.
Se per ora, invece, la classe operaia in Italia è sfiduciata, se non crede nella sua straordinaria forza (quella che prende forma nella lotta), se vota Salvini o la Meloni «per protesta» (secondo il Censis il 62% degli operai spera in un uomo forte al potere), la colpa non è sua. La colpa è di chi, affermando di difendere gli interessi degli operai, li ha, ieri come oggi, sistematicamente traditi, firmando accordi vantaggiosi solo per i padroni (le burocrazie sindacali) o sostenendo governi al soldo di Confindustria (i partiti della sinistra politica: Rifondazione comunista ieri, Sinistra italiana oggi). La colpa è di chi, di fronte a licenziamenti di massa e restrizione dei diritti nei luoghi di lavoro, fa di tutto per evitare azioni di sciopero ampie e incisive. Come nella vita capita che, in seguito a traumi dolorosi, alcune persone perdano il senso della realtà e si abbandonino al delirio, qualcosa di simile può accadere nelle dinamiche collettive. Il voto degli operai alla Lega o a Fratelli d’Italia – partiti che non mancano di richiamarsi, all’occorrenza, persino all’esperienza del fascismo, cioè al peggior nemico del movimento operaio – ha, in effetti, qualcosa di delirante. Ma chi ha scritto il copione di questo dramma non sono gli operai, bensì le burocrazie. Gli interrogativi di Landini, che sui quotidiani cerca di spiegarsi perché gli operai ripongono fiducia nell’«uomo forte», ricordano un po’ le rimostranze di un marito che si chiede perché la moglie lo ha lasciato dopo che lui l’ha tradita e maltrattata per anni. Parafrasando il canto delle femministe cilene che sta attraversando le strade di tutto il mondo, il responsabile di questa situazione sei tu, caro Landini!

Sardine et similia
Ma cosa c’entrano le sardine con il problema degli scioperi? Un collegamento c’è. Se le direzioni del movimento operaio sono troppo impegnate a sostenere il governo (Cgil, Cisl e Uil) o a farsi la guerra tra di loro (sindacati autonomi), è ben difficile che per merito della loro azione le piazze si riempiano di operai e di lavoratori, coi loro simboli e le loro bandiere (come invece succede in questi giorni in Francia). Eppure, le contraddizioni di questo sistema economico in putrefazione non possono essere sedate, se è corretta l’analisi che facevamo poco fa. Ecco allora che la mobilitazione delle masse sta trovando, in Italia, canali di espressione che non sono, prioritariamente, quelli tradizionali del movimento operaio. Si mobilitano gli studenti (futuri disoccupati) del Friday For Future (pensiamo alle oceaniche manifestazioni del 27 settembre scorso); si mobilitano in massa le donne contro il maschilismo (ricordiamo la grande manifestazione del 23 novembre a Roma); scendono in piazza decine di migliaia di persone al richiamo delle Sardine, spaventate dalla possibilità che il futuro riservi loro un governo reazionario e xenofobo di estrema destra.
Che il movimento delle Sardine sia contraddittorio è un dato di fatto: il Pd (cioè un partito borghese che è pure al governo) lo sostiene, direttamente e indirettamente, ai fini della campagna elettorale per le regionali; le trasmissioni televisive offrono enormi spazi a un leader casuale come Mattia Sartori (che non spaventa certo banchieri e industriali); i promotori vietano i simboli e le bandiere di partito, però poi partecipano alle assise del Pd e stringono la mano a Bonaccini; si dissociano con sdegno dalle bandiere rosse e dalle azioni dei centri sociali, ma si compiacciono dei complimenti di Mario Monti e di Romano Prodi…
Riconoscere questi aspetti non cancella però un fatto indubitabile: in quelle piazze ci sono tanti, tantissimi giovani (e non più giovani) che sono stanchi di subire passivamente la propaganda sciovinista e xenofoba; e una parte di loro non ha nessuna intenzione di votare Pd. In generale – e questo vale anche per il movimento delle donne e degli studenti – se questi movimenti, di per sé interclassisti, non si uniranno al movimento operaio, i partiti borghesi avranno gioco facile nel tentare di strumentalizzarli e sottometterli ai loro interessi. Solo se la classe operaia scenderà in campo e saprà assumere, nel suo programma, anche le rivendicazioni delle donne contro il maschilismo, quelle delle sardine contro il populismo e la xenofobia, quelle dei giovani studenti a difesa dell’ambiente, potranno crearsi le premesse per una mobilitazione più avanzata.
Ecco allora dove sta il collegamento tra gli scioperi e le sardine: dobbiamo costruire una diversa direzione del movimento operaio, in grado di rilanciare un’ampia e incisiva azione nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro, per poter costruire movimenti più radicali di quelli che ora effettivamente esistono. Fare le anime belle, rifiutarsi di partecipare a queste mobilitazioni «perché sono interclassiste» o perché sono «strumentalizzate dal Pd» non serve a nulla. Probabilmente quelli che storcono il naso di fronte a questi movimenti – o che li liquidano come risultato di un complotto del Pd e della borghesia - sono gli stessi che non stanno facendo nulla per superare la passività e la frammentazione delle attuali direzioni del movimento operaio. Noi, invece, sappiamo dove stare: siamo e saremo in piazza con le sardine, con le donne, con gli studenti del Friday For Future, per spiegare perché l’alternativa non sono né Bonaccini, né Greta Thunberg, né il femminismo piccolo-borghese dei salotti televisivi. Contemporaneamente siamo e saremo nei sindacati e nei luoghi di lavoro a dare battaglia alle direzioni burocratiche che ostacolano la discesa in campo della classe operaia: anche per questo sosteniamo attivamente la costruzione del Fronte di Lotta No Austerity, struttura di fronte unico che può unificare la classe su una piattaforma di lotta superandone l’attuale frammentazione.
Se la classe operaia scenderà in piazza, massiccia, al fianco degli studenti, delle donne e delle sardine, non abbiamo dubbi: nessuno potrà strapparle le sue gloriose bandiere. Soprattutto, si aprirà, finalmente, anche Italia, un nuovo capitolo della lotta di classe.