mercoledì 22 luglio 2020

RIGENERAZIONE URBANA A FROSINONE, LEGAMBIENTE: IGNORATE LE FINALITA’ AMBIENTALI DELLA LEGGE REGIONALE, IL COMUNE PUNTA ALLA DEREGULATION EDILIZIA



C’è modo e modo di passare dalle parole ai fatti: quello che ha scelto l’Amministrazione Ottaviani nell’attuare la legge regionale 7/2017 sulla rigenerazione urbana è ispirato al mero recepimento delle sole norme che favoriscono gli operatori privati anziché la collettività, con un via libera all’aumento delle cubature e ai cambi di destinazione d’uso improntato al lassez-faire più spinto. Insomma, le belle parole della legge, fra le cui finalità si annoverano (art. 1, comma 1) il miglioramento della qualità ambientale, la limitazione del consumo di suolo, il risparmio energetico e lo sviluppo delle fonti rinnovabili, la promozione delle tecniche di bioedilizia, lo stimolo alla mobilità sostenibile, la promozione del verde urbano, la realizzazione di interventi per il recupero delle acque piovane, stanno per tradursi in fatti di tutt’altro segno.
Le due proposte di delibera al vaglio del prossimo Consiglio Comunale, infatti, saltando a piè pari i punti qualificanti della legge che si intende attuare, vanno dritte al cuore dei veri desiderata dell’amministrazione: coltivare il consenso elettorale agevolando i privati nella realizzazione di quegli interventi di recupero del patrimonio edilizio che si configurano, nei fatti, come un regalo a chi, grazie anche ai condoni dei decenni passati, ha contribuito a far sì che la città si collocasse al terzo posto nel Lazio in quanto a superficie di suolo consumata (dati ISPRA 2018). Nello specifico, le due delibere riguardano la facoltà, concessa ai Comuni dagli artt. 4 e 5 della legge regionale, di adottare disposizioni che permettono il cambio di destinazione d’uso degli edifici e soprattutto l’ampliamento del 20% della volumetria degli immobili. Come contropartita, viene richiesto ai privati solo il minimo sindacale imposto dalla norma regionale, ovvero un non meglio specificato efficientamento energetico dell’edificio, che potrà verosimilmente tradursi anche solo in un miglioramento minimo della classe energetica, magari con il semplice passaggio dalla G alla F, senza alcun obbligo di installazione di impianti di energia rinnovabile o di creazione di cappotti termici per limitare la dispersione di calore. Solo per le demolizioni e ricostruzioni si dovrà passare alla classe A, ma anche in questo caso non si tratta di una scelta del Comune bensì di un preciso vincolo imposto dalla Regione.
Eppure la L.R. 7/2017 prevedeva altre possibilità per i Comuni, ad esempio quella, illustrata all’art. 2, di adottare programmi organici di rigenerazione urbana con chiare finalità di interesse generale, attraverso un iter caratterizzato dalla partecipazione civica che avrebbe potuto mettere al centro una nuova visione della città e perseguire gli obiettivi di una vera riqualificazione urbana, della sostenibilità ambientale, della riduzione dei consumi idrici ed energetici, della rinaturalizzazione dei suoli e della creazione di aree verdi. Ma tutto ciò evidentemente non avrebbe favorito gli interessi elettorali né le clientele su cui si radicano i consensi delle amministrazioni di vario orientamento politico che si sono succedute nei decenni a Frosinone.
A ben vedere, la scelta amministrativa che il Comune si accinge ad intraprendere non è altro che la seconda gamba su cui si regge la politica urbanistica frusinate: la prima, come abbiamo già denunciato, risiede in uno sfacciato, antistorico e anacronistico via libera alle nuove edificazioni, in una riedizione dell’epoca del mattone selvaggio di cui le gru che oggi svettano nel cielo cittadino ci consegnano un plastico ricordo. Insomma il Comune, sempre a un passo dal dissesto finanziario, non disponendo più di denaro pubblico da dilapidare a fini clientelari, sta decidendo di svendere la più preziosa delle sue risorse, il suolo, bene pubblico finito e non rinnovabile, fonte di quei servizi ecosistemici che sono alla base stessa della vita. A pochi giorni dai tragici allagamenti avvenuti a Palermo, non possiamo non ricordare che il cardine di ogni strategia per limitare i danni causati da eventi meteorici violenti – purtroppo destinati ad intensificarsi con l’aggravarsi della crisi climatica – è proprio la salvaguardia della capacità drenante di ampie porzioni di territorio, possibile solo preservando il più possibile l’integrità dei suoli.
Per queste ragioni, c’è bisogno a nostro avviso di una cesura netta rispetto a politiche urbanistiche che si ostinano a guardare ad un passato che è impossibile riesumare. Pertanto, vogliamo rivolgere un appello ai consiglieri comunali di maggioranza e di opposizione affinché il tema della rigenerazione urbana, così cruciale in una città cresciuta sotto il segno del caos edilizio, venga discusso con l’approfondimento che merita e con la lungimiranza richiesta a degli amministratori chiamati al difficile compito di traghettare Frosinone verso una sostenibilità che non sia di facciata.

Stefano Ceccarelli
Presidente
Circolo Legambiente “Il Cigno” di Frosinone APS


Recovery Fund: é tutto oro (o tutto loro) quello che luccica?

di Marco Bersani, Attac Italia



Spiace ancora una volta dover smentire la narrazione massmediatica dominante, pronta ad assegnare  il Pallone d’oro 2020 al premier Conte per l’accordo siglato in merito al Recovery Fund, dopo un aspro confronto di quattro giorni nell’Eurogruppo.
Con questo correrò il rischio di suscitare qualche irritazione nei molti che, in totale buona fede, accarezzano da tempo l’immagine di un Paese che finalmente rialza la testa e porta a casa dei risultati per migliorare la loro condizione. E di suscitare accuse di lavorare per il nemico nei pochi, in cattiva fede, per i quali è vietato disturbare il manovratore.
Ma, poiché i fatti non corrispondono al racconto che ne viene tramandato, a questi occorre attenersi e così farò.

I numeri dell’accordo
Il Recovery Fund sarà dotato di 750 miliardi di euro, 390 dei quali messi a disposizione come trasferimenti (erroneamente definiti “a fondo perduto”) e 360 come prestiti. Rispetto alla proposta iniziale, che prevedeva 500 miliardi come trasferimenti e 250 miliardi di prestiti, l’accordo ha dunque modificato la ripartizione.
Di questa somma, l’Italia porterà a casa 81,4 miliardi di trasferimenti e 127,4 di prestiti.
Sono indubbiamente cifre importanti, ma da dove arrivano?
Saranno raccolte sui mercati finanziari attraverso l’emissione di bond da parte della Commissione Europea, che metterà a garanzia il bilancio dell’Unione Europea.
Di conseguenza, il bilancio dell’Unione Europea verrà aumentato, e, poiché, il bilancio dell’Ue è formato dai finanziamenti quota parte di ogni singolo Stato, occorre tener conto della cifra che il nostro Paese dovrà versare, per permettere l’avvio del Recovery Fund.
E qui troviamo un primo dato sorprendente, perché la quota parte aggiuntiva che l’Italia dovrà mettere corrisponde a 96,3 miliardi[1]
Riassumendo: l’Italia verserà 96,3 miliardi per riceverne 81,4 come trasferimenti e 124,7 come prestiti. Quindi, se c’è qualcosa che viene dato “a fondo perduto”, sono i 14,9 miliardi che l’Italia mette in più rispetto a quelli che riceve come “trasferimento”, mentre i soldi reali che ottiene sono tutti a prestito.
A basso tasso di interesse, ma, come chiunque può constatare, Babbo Natale non esiste.

Quando arrivano i soldi
Il Recovery Fund sarà incardinato nel bilancio 2021-2027 dell’Unione Europea. La Commissione potrà quindi effettuare la raccolta sui mercati finanziari a partire dal gennaio 2021. L’accordo prevede che il 70% dei fondi siano erogati nel biennio 2021-2022 e il 30% l’anno successivo. Tornando ai conti italiani, il nostro Paese dovrebbe quindi ricevere 146 miliardi nei prossimi due anni e 63 nel 2023.
La parte dei soldi presa a prestito (che, come abbiamo visto, è l’unica che realmente arriverà all’Italia, dato il saldo negativo del dare-avere sulla parte legata ai trasferimenti) dovrà essere gradualmente rimborsata a partire dal 2027 e fino al 31 dicembre 2058.
E’ previsto dall’accordo un pre-finanziamento pari al 10% -per l’Italia 20,9 miliardi- che dev’essere utilizzato per destinazioni in linea coi programmi generali dell’Unione Europea.
Stiamo di conseguenza parlando di risorse che non saranno disponibili prima della tarda primavera 2021, tempi non certo adatti ad interventi di emergenza.

Le condizionalità dell’accordo
Il pasto non è gratis, tocca ripeterlo. E per ottenere i soldi del Recovery Fund (tutti a prestito, a questo punto credo sia chiaro) il percorso è irto di ostacoli, le famose condizionalità.
Per poter accedere ai fondi Ue l’Italia, così come gli altri Stati membri, deve predisporre un Recovery Plan, un piano triennale (2021-2023), che andrà presentato in autunno. E che, se anche verrà giudicato idoneo, sarà sottoposto a revisione nel 2022, prima della ripartizione della tranche di fondi 2023.
I piani andranno predisposti, tenendo conto che il punteggio più alto di valutazione “deve essere ottenuto per quanto riguarda i criteri della coerenza con le raccomandazioni specifiche per Paese” (punto A19 dell’Accordo).
Le raccomandazioni cui si fa riferimento sono quelle del 2019, essendo saltate, causa pandemia, quelle del 2020 e, per quanto riguarda l’Italia, sono: riforma del fisco, riforma del lavoro, riforma della giustizia, riduzione del debito cui vanno indirizzate tutte le entrate straordinarie, taglio strutturale della spesa pubblica pari a 0,6% del Pil.
Ovvero, il ritorno in grande spolvero della trappola del debito pubblico e delle politiche di austerità.
Se questa è una vittoria, meglio non pensare a quando arriverà una sconfitta.

Chi giudica e decide
Su indicazione della Commissione Europea, che avrà due mesi di tempo per valutare i piani presentati dagli Stati, sarà il Consiglio Europeo a decidere a maggioranza qualificata (55% dei Paesi pari al 65% della popolazione) se approvare il piano. Il via libera è un atto di esecuzione che il Consiglio adotta entro un mese dalla proposta. Ma bisogna soddisfare i target intermedi e finali. Perciò la Commissione chiederà al Comitato economico e finanziario se questi target vengono conseguiti. Se in questa sede, “in via eccezionale”, qualche Paese riterrà che ci siano problemi, potrà interrompere l’erogazione dei finanziamenti, chiedendo di affrontare la specifica questione in una riunione apposita del Consiglio Europeo. E’ il famoso “freno a mano” ottenuto dal ‘paradiso fiscale frugale’ dei Paesi Bassi per dare il via libera.
Un percorso sorvegliato passo dopo passo, che per un Paese come il nostro, che già oggi ha un rapporto debito/pil intorno al 150%, rischia di riservare più di una brutta sorpresa.

Prima considerazione
Se è vero che in Europa si è finalmente aperto uno scontro sul profilo dell’Unione Europea, occorre constatare come tale conflitto sia rimasto totalmente all’interno di una visione liberista della dimensione europea.
Prova ne è il fatto che nessuno abbia posto la necessità di affrontare il nodo principale: il ruolo della Banca Centrale Europea e la sua cosiddetta indipendenza (dall’interesse generale, non da quello dei mercati).
Rivendicare un carattere pubblico della Banca Centrale Europea (analogo a quello di tutte le banche centrali del mondo), avrebbe permesso a tutti gli Stati di dotarsi delle risorse necessarie, senza ulteriori gravami sul debito pubblico e soprattutto senza le famigerate condizionalità.

Seconda considerazione
Se è vero che l’Unione Europa ha evitato il tracollo arrivando a sottoscrivere, dopo quattro giorni, un accordo, occorre constatare come tale risultato ne peggiori il profilo di comunità politico-sociale e le capacità d’intervento strategico sulle grandi sfide di questo tempo
Sotto il profilo politico, basti la concessione ai cosiddetti Paesi di Visegrad (Ungheria e Polonia in primis) di svincolare gli aiuti finanziari dal rispetto dello stato di diritto.
Dal punto di vista della strategia d’intervento, basti pensare che, con la nuova ripartizione fra trasferimenti e prestiti (che abbassa notevolmente i primi e aumenta i secondi), vengono tagliati fondi cruciali ai programmi congiunti europei, a partire da quelli relativi alla transizione eco-sostenibile.
Dal punto di vista decisionale, si riafferma, di fatto, un’Unione europea come mera giustapposizione di Stati, ciascuno interessato al proprio interesse nazionale e in diretta competizione con gli altri.
Contrariamente a quanto racconta la narrazione massmediatica, non siamo di fronte a nessun cambio di paradigma nelle nostre istituzioni europee.
Perché, dopo la pandemia niente sia davvero più come prima, diviene urgente, per il prossimo autunno,  predisporre un Recovery Plan delle mobilitazioni sociali. 
[1]È scritto nero su bianco sulla Table A1 Allocation Key, allegata al “Commission Staff Working Document“, (Brussels 27.5.2020, SWD(2020) 98 final).