venerdì 23 ottobre 2020

LA SALUTE NON E’ UNA MERCE, LA SANITA’ NON E’ UNA AZIENDA

 

CAMPAGNA DICO32/COORDINAMENTO NAZIONALE PER IL DIRITTO ALLA SALUTE

 Per info e contatti : www.medicinademocratica.org; segreteria@medicinademocratica.org




In Italia la conduzione dell’emergenza pandemica ha fatto emergere gravi inadeguatezze frutto delle politiche attuate negli ultimi due decenni.

Il servizio sanitario pubblico ha dovuto reggere l’impatto dell’emergenza mostrando limiti derivanti dal definanziamento (a favore della sanità privata) e dall’indebolimento della medicina territoriale.

Le responsabilità dei governi, centrali e regionali, sono divenute palesi: le leggi di privatizzazione, sono le principali responsabili e vanno abrogate come va avversato l’approccio che le ha prodotte.

La “normalità” ante covid si è dimostrata malata e occorre una inversione di rotta.

E’ il momento di una nuova riforma della sanità fondata sull’affermazione della salute, dell’ambiente salubre e sulla riduzione delle diseguaglianze quali diritti costituzionali da attuare da parte degli enti pubblici.

 

Le nostre priorità :

 

1)      UNA VISIONE DELLA TUTELA DELLA SALUTE COLLETTIVA BASATA SULLA PREVENZIONE PRIMARIA

 

Per noi la salute non è solo uno stato di benessere psico-fisico ma il risultato del rapporto tra gli individui nel proprio contesto di vita, se quest’ultimo è malato il malessere individuale è un sintomo e occorre curare il contesto.

La salute è un bene e un diritto, l’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale e una spesa sanitaria pubblica adeguata va indirizzata verso la prevenzione primaria, basata su condizioni di vita, di lavoro e ambientali sane.

I Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) vanno rimodulati e finanziati sulla base della appropriatezza e sostenuti da prove di efficacia.

La salute della donna va promossa  a partire dal riconoscimento delle specificità, attraverso la medicina e la farmacologia di genere, il diritto all’autodeterminazione nelle scelte di vita, alla partecipazione, al lavoro vanno affermati con il rafforzamento di azioni strategiche di prevenzione.

Rimodulare in modo unitario le competenze di tutele della salute (dentro e fuori i luoghi di lavoro),  dell’ambiente, della sanità animale e delle produzioni alimentari in quanto connesse e interdipendenti. Il riconoscimento delle malattie professionali deve passare dall’INAIL alle USL/ASL; il medico competente deve essere convenzionato con il SSN pubblico. Gli infortuni dei medici di base devono essere riconosciuti dall’INAIL.

Nei luoghi di lavoro occorre adottare una nuova organizzazione fonte di benessere per i lavoratori e non di stress, rafforzare il ruolo dei Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), va affermato l’obiettivo del MAC zero (cambio delle produzioni, eliminazione dalle produzioni delle sostanze tossiche).

 

2)  IL SUPERAMENTO DI UNA CONCEZIONE PRIVASTICA DEL SERVIZIO SANITARIO

 

L’accesso al servizio sanitario deve essere universale, senza discriminazioni di accesso e finanziato dalla fiscalità generale; l’efficacia va misurata in termini di incremento della salute collettiva, anziché di volumi e tempi di prestazioni erogate.

Il sistema sanitario pubblico deve essere costituito da personale sanitario e non sanitario, stabile e numericamente congruo, con livelli retributivi consoni con posti letto ospedalieri in linea con le esigenze di prevenzione, assistenza, cura e riabilitazione che si vogliono perseguire.

Occorre intervenire nell’ambito della formazione universitaria e delle specializzazioni conseguenti evitando la precarietà dei giovani medici laureati (e in generale di tutti i Professionisti Sanitari e Sociali) e “l’imbuto” della specializzazione. Il settore della formazione e ricerca in ambito sanitario deve essere prioritariamente guidato da realtà pubbliche adeguatamente finanziate senza conflitti di interesse e, dove non possibile, da provider indipendenti.

Va superata l’impostazione aziendalistica fondata esclusivamente sulle “compatibilità” economiche”, slegata dai reali risultati di salute, basata sulla figura monocratica dei direttori generali; i lavoratori vanno liberati dalle catene del “rapporto fiduciario” che li riduce al silenzio anche in caso di gravi inadempienze dei vertici. Va azzerata la normativa che permette la libera professione intramoenia, altro fattore di diseguaglianza.

Va rimosso ogni finanziamento alla sanità privata e abolite le agevolazioni fiscali per la spesa sanitaria privata veicolata da assicurazioni e fondi sanitari; va ripresa una programmazione sanitaria partecipata a livello locale e nazionale eliminando ogni commistione pubblico-privato. Va realizzata un'industria pubblica del farmaco, dei reattivi di laboratorio e dei dispositivi biomedicali. Garantire un servizio sanitario davvero nazionale per diffusione e qualità dei servizi, rimuovendo ogni ipotesi di “regionalismo differenziato”.

 

3)  IL SUPERAMENTO DI UNA VISIONE OSPEDALOCENTRICA DEL SERVIZIO SANITARIO

 

La prevenzione deve avere come perno una medicina territoriale che includa partecipazione, riconoscimento e attenzione alle esigenze sanitarie e sociali locali, alle specificità di genere e di età come pure di riconoscimento di ogni diversità.

La medicina territoriale deve essere in coordinamento e non subordinata al settore ospedaliero. Lo strumento è quello delle “case della salute”, non semplice sommatoria di ambulatori, ma come punti di incontro delle esigenze locali (servizi sanitari, socio-sanitari e sociali). Il sistema deve essere partecipato dagli utenti e dagli enti locali e avere anche una funzione di “sentinelle” dell’ambiente e comprendere servizi di medicina del lavoro. Nei nuovi distretti socio-sanitari locali, confluiranno le Case della Salute, i Dipartimenti di Salute Mentale, eliminando ogni forma di contenzione anche in caso di Trattamenti Sanitario Obbligatori le cui modalità vanno ripensate.

Le unità sanitarie devono essere territorialmente limitate per una risposta più precisa ai problemi e per permettere una reale partecipazione della popolazione e il controllo delle attività

Vanno ripristinati i servizi che un tempo si chiamavano di medicina scolastica, rivalutandoli come Centri per la Salute nelle Scuole, quali servizi territoriali fondamentali.

Le residenze sanitarie assistenziali per gli anziani e per i disabili fisici e psichici vanno poste in carico al SSN: va riconosciuta la necessità di cura della persona anziana, cronica, non autosufficiente; devono avere requisiti e caratteristiche di valutazione e presa in carico, di cura, assistenza e riabilitazione uguali in tutte le Regioni rivedendo parametri e qualità, prevedendo Comitati di familiari che si riuniscono regolarmente; le strutture devono essere aperte al territorio.


mercoledì 21 ottobre 2020

Il Mes sarebbe un passo indietro. E nessun Paese lo ha chiesto

 Alfonso Gianni (il manifesto 21.10.2020)



 Non passa giorno che non si accentui la pressione sul governo affinché ricorra ai prestiti del Mes. La questione fino a poco fa divideva i due maggiori partiti della maggioranza ma nelle ultime ore si è trasferita, con inusitata virulenza, all’interno dello stesso Pd, una parte del quale è entrato in frontale polemica con il “suo” ministro dell’economia Gualtieri, reo di essere sceso dalle barricate pro Mes. Sul tema sarà convocata la direzione del Pd. Sarà tra gli argomenti principali del vertice di maggioranza che dovrebbe ridefinire un patto di fine legislatura e sarebbe previsto dopo gli stati generali del M5s che dovrebbero a loro volta chiarire quale è la linea vincente al loro interno. Certamente la risposta fornita nella conferenza stampa di domenica scorsa da Presidente del Consiglio è servita solo a confondere ancora più le acque.

Eppure il nodo non appare affatto così difficile da sbrogliare, se si guarda alla sostanza delle cose. Il Mes è una linea di credito precauzionale regolata dal Trattato del 2012 che lo creava come una sorta di banca e dalla normativa europea contenuta nel Two Pack del 2013. Quindi si tratta di un organismo nato in ambito  intergovernativo. Il ricorso ad esso non farebbe che aggravare l’aspetto più negativo dell’accordo del 21 luglio – i poteri del Consiglio europeo formato dai rappresentanti dei governi -  che pure dava vita ad una logica e a una strumentazione derivanti dagli organi dell’Unione. Da un punto di vista che guarda alla possibilità di far fare dei passi in avanti in una direzione federale alla Ue, il protagonismo del Mes sarebbe un netto passo indietro. Ciò che preoccupa non sono le condizionalità, che non potrebbero non esistere, ma in questo caso le finalizzazioni sarebbero positive, visto che i fondi sarebbero inidirizzati  alla sanità. Il che garantisce che al Mes possono accedere anche paesi che non vantano grande solidità nelle finanze pubbliche. Ma essendo il Mes una banca non solo agisce negli interessi dei creditori, ma vanta una condizione di creditore privilegiato. Da qui deriva la “sorveglianza rafforzata” cui il paese debitore viene sottoposto E’ vero che la dichiarazione scritta di Gentiloni e Dombrovskis sospende l’eventualità che la Commissione intervenga per chiedere al paese in questione aggiustamenti macroeconomici, ma questa, al di là del suo valore politico, non impegna per il futuro. A meno che non si cambino le norme contenute nel Regolamento 472/2013. Il che, e non credo per una svista, non è stato fatto. Tutto ciò rende più che comprensibile e logica la diffidenza verso il ricorso al Mes. Non è un caso che nessuno finora lo abbia chiesto, al di là del conteggio sui risparmi sugli interessi rispetto ad un approvvigionamento sul mercato finanziario, peraltro ulteriormente diminuiti. In ogni caso il ricorso al Mes aumenterebbe il livello di indebitamento, creando probabilmente anche problemi di natura politico-contabile, essendo già stata approvata dal Parlamento la Nadef e quindi già fissato il deficit del prossimo anno, la cui modificazione, qualunque ne sia l’entità, richiederebbe una nuova valutazione sullo scostamento di Bilancio, oppure la previsione di altri tagli o nuove entrate. E’ vero che tutto sembra cambiato in Europa. Dove si predicava l’austerità ora si invita all’indebitamento data la discesa dei tassi. Ma dopo tanti anni di ottuso rigore, sarebbe strano attendersi una fiducia spensierata nell’incremento della esposizione debitoria. E infatti Spagna e Portogallo oltre che evitare il Mes, sono intenzionati anche a rinunciare alla quota di prestiti del Recovery Fund, e a farsi bastare le sovvenzioni a fondo perduto. Se anziché il vecchio e screditato Mes, nato per altre finalità, le istituzioni europee avessero avanzato l’idea di uno strumento simile al Sure, dedicato però alla questione sanitaria, come ha proposto Francesco Saraceno, ovvero uno strumento di credito agevolato derivante dall’art. 122 del Trattato sul funzionamento della Ue, forse le cose oggi sarebbero diverse. Ieri sono stati raccolti 235 miliardi di domanda per i primi 20 miliardi del Sure social bond. Non siamo a veri e propri Eurobond, ma comunque all’emissione di titoli di debito comune, uno degli aspetti positivi del “compromesso” europeo del 21 luglio. E forse ci si potrebbe, come si dovrebbe, occupare seriamente di come spendere i soldi del Recovery la cui data di arrivo si spinge sempre più in là nel 2021. Cosa in sé negativa, ma che impone una discussione seria attorno ad alcuni temi chiave. Quali un’idea di intervento pubblico diretto nell’economia non crocerossino, ma proprio di uno Stato innovatore ed imprenditore. Guidato da una programmazione, concetto desueto quanto valido, basata su un rapporto dialettico e biunivoco con le parti sociali, partendo dalla difesa del lavoro e del reddito senza delegare la vita – è il caso di dirlo in questa tempesta pandemica – delle persone alle logiche aziendali. Privilegiando il nostro Sud, porta dell’Europa sul Mediterraneo.

lunedì 19 ottobre 2020

Il grande romanzo popolare del Capitano

 Festa del Cinema di Roma. Alex Infascelli dirige «Mi chiamo Francesco Totti», il film dedicato al fuoriclasse capitolino. Il racconto di un’icona, senza retorica, attraverso la voce del protagonista e materiali di repertorio.



Giona A.Nazzaro fonte: "il manifesto" del 18/10/2020

Non è necessario andare a recuperare qualche riflessione pasoliniana per verificare come il calcio rivesta ancora la capacità – e l’immaginazione – per federare il sentire di soggetti separati fra loro da questioni di classe, reddito e aspirazioni. Il calcio, cosa evidente anche a chi ne mastica pochissimo o affatto, è un luogo narrazione che produce non solo racconti e mitologie, ma offre anche chiavi di interpretazione delle cose del mondo. Vero anche come la comunicazione del calcio e il racconto dei suoi eventi, con i riflettori sempre puntati su protagonisti e oscillazioni del mercato sportivo, si sia andato configurando come un vero e proprio «mondo a parte».

PER CUI la sorpresa di fronte a un film come Mi chiamo Francesco Totti – nel programma della Festa del Cinema di Roma (il 19,20 e 21 ottobre nelle sale poi su Sky)- non potrebbe essere maggiore. Alex Infascelli, regista interessante, appartato e dal tocco altamente personale, mette mano a una materia, il racconto di un’icona della Capitale, del calcio nazionale e internazionale, affrontando la vicenda di un calciatore eccezionale come Francesco Totti evitando, e già questo basterebbe come risultato estetico e «politico», tutte le banalizzazioni agiografiche che sovente, per ragioni spesso «altre», inficiano il racconto di fatti sportivi, soprattutto se recenti e sotto gli occhi di tutti. Infascelli, a partire dal titolo evocativo, crea un film che è sì un incontro con un «uomo straordinario» e un atleta incomparabile, ma soprattutto riesce nell’impresa, davvero encomiabile, di creare un’opera genuinamente popolare, mai populista. Infascelli, con un notevole gusto da «chanson de geste», illustra le imprese di Totti sin da quando il calciatore bambino inseguiva i suoi sogni di gloria («A Roma ci sono tre squadre: l’A.S. Roma, la Lodigiani e la Lazio»). Collocandoli nell’alveo di un’infanzia che è soprattutto il segno precocissimo di una vocazione che non tarderà a manifestarsi in tutta la sua ricchezza, il regista coglie con notevole attenzione politica l’ambiente umano e antropologico nel quale il futuro fuoriclasse muove i primissimi passi.

SENZA INDULGERE in nessuna retorica sulla romanità, collocando le sue immagini nella voce calda e schietta, affettuosa, del Capitano, Infascelli mette a segno un’operazione rarissima e di grande sensibilità: dare letteralmente forma a un romanzo popolare in grado di offrirsi come luogo narrazione di un esserci, della sua gente, e toccare persino coloro che al calcio non dedicano quasi mai attenzione. La nozione di «campione» è così ricondotta da Infascelli, attraverso un uso attento dei materiali di repertorio e la organizzazione ritmica che ne fa il montaggio, non a un climax, cosa che esporrebbe il tutto ai rischi della retorica partigiana, ma a illustrare le stagioni di un giovane che, parafrasando Lou Reed, «cresce in pubblico». Risultato tanto più lodevole, in quanto la narrazione calcistica offre ogni settimana, a ritmo serratissimo, le gesta di campioni che si susseguono ininterrottamente. Merito ovviamente anche di Totti, ultimo esempio di eroe popolare sportivo (come forse l’avrebbe potuto immaginare Pasolini), al pari solo di Nino D’Angelo (in un campo completamente diverso), le cui gesta sono diventate sinonimo stesso di Roma. Infascelli coglie tutte queste sfumature, intrecciandole nel corpo del suo film, permettendo così a Totti di trascendere le opposte retoriche ed emergere come un uomo complesso, appassionato e, come sosterrebbe Pavese, «un uomo che è tutto nel gesto che compie».

IL FILM di Infascelli è la forma esatta di questa misura intuita da Pavese. E quando il film, grazie a un montaggio reiterato di rara commozione, cuce insieme le stagioni più belle di Totti, evidenziando le sue giocate e i suoi magnifici gol – come se Rudy Van Gelder montasse insieme tutti gli assoli di John Coltrane in un unico movimento – il film non solo esalta alcune delle prestazioni sportive più mozzafiato di sempre, ma è come se cogliesse il canto di un’anima libera che ha spiccato il volo sopra l’Olimpico. E anche chi abitualmente non è tifoso, non può che abbandonarsi alla gioia delle lacrime e della commozione. Infascelli coglie questo movimento dell’emozione non ricercando un gesto cinematografico «artistico» ma ascoltando la voce più autentica del cinema come arte popolare. Uno stacco di montaggio, un raccordo come una creazione di Totti sul campo, illuminato dalla grazia dell’invenzione e della bellezza. Francesco Totti, da oggi, è più di un nome. «Francesco Totti», da oggi, è tutta la «nobiltà del calcio».