Coordinamento per la Democrazia Costituzionale.
I quesiti dei referendum “giustizia giusta”
Quesito n. 1 Riforma del CSM.
Il quesito incide sulle modalità di presentazione dei candidati per l’elezione al Consiglio Superiore della Magistratura. La disciplina attuale prevede che i candidati in ciascun collegio debbano essere proposti da una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta. Il quesito elimina la lista, facendo si che ciascun magistrato si possa candidare senza bisogno dell’appoggio di un gruppo di magistrati che sostenga la sua candidatura. Secondo i promotori in questo modo si farebbe venire meno l’influenza delle correnti nella elezione dei membri del CSM. A ben vedere l’obiettivo che il referendum si propone (marginalizzare il peso delle aggregazioni di magistrati nella elezione dei membri del CSM) non può essere condiviso, perché l’elezione dei propri rappresentanti in un organo di autogoverno di rilievo costituzionale necessariamente comporta un confronto fra orientamenti culturali (e politici) differenti, non è una competizione fra qualità personali, che restano sconosciute se il magistrato non partecipa alla vita associativa. Per giunta si tratta di un obiettivo velleitario perché il singolo magistrato, che non sia sostenuto da gruppi organizzati, non ha nessuna possibilità di essere eletto. In realtà l’eventuale approvazione del quesito da parte degli elettori non comporta alcuna riforma del CSM, ma solo un allungamento della scheda elettorale, che conterrà più nomi. In definitiva si tratta di un quesito inutile, che propone una non riforma: esprime soltanto un segnale politico di diffidenza verso l’associazionismo ed il pluralismo culturale all’interno del corpo dei magistrati.
Quesito n. 2 Responsabilità diretta dei magistrati.
(questo quesito non è stato ammesso, ma è opportuno esaminarlo per comprendere meglio il taglio dell’iniziativa referendaria)
Il quesito incide sulla disciplina vigente in tema di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Va premesso che l’art. 2 della legge in parola prevede che: “Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali…” Secondo la disciplina attuale il cittadino che subisce un torto cagionato da dolo o colpa grave del magistrato gode di piena tutela perché può chiedere il risarcimento dei danni allo Stato. In caso di condanna, lo Stato, in persona del Presidente del Consiglio dei Ministri, ha l’obbligo di esercitare l’azione di rivalsa nei confronti del magistrato nel caso che la condotta di costui sia stata determinata da dolo o negligenza inescusabile. “Chi sbaglia paga” è lo slogan con cui Lega e Radicali promuovono il quesito sulla responsabilità civile dei magistrati perché ritengono che chi si sente vittima di una ingiustizia in sede processuale o di indagine abbia il diritto di rifarsi direttamente con il giudice. In realtà il quesito non accresce in nulla la tutela del cittadino vittima di ingiustizia ma fornisce alle parti litigiose una potente arma di condizionamento nei confronti del giudice. Bisogna comprendere che l’oggetto dell’attività giudiziaria, sia nel campo civile, che nel campo penale, è una “res litigiosa”. Nel civile il giudice deve necessariamente arbitrare degli interessi in conflitto, nel penale è in gioco il regolamento della libertà personale dell’imputato a fronte dell’interesse punitivo dello Stato. La riforma consente alle parti più forti o più prepotenti di intimidire il giudice con la minaccia e poi con la proposizione di azioni giudiziarie vendicative. Il fenomeno delle querele intimidatorie (che i giornalisti ben conoscono) dilagherebbe in campo giudiziario e si estenderebbe a macchia d’olio. L’effetto inconfessato della disciplina proposta è quello di incidere sull’indipendenza dell’azione giudiziaria e soprattutto sul requisito dell’imparzialità che presuppone che il giudice agisca sine spe ac metu. Se passasse il referendum, salterebbe la mediazione dello Stato e il cittadino potrebbe denunciare i suoi giudici anche con azioni infondate e pretestuose. Il pericolo è evidente: a essere scalfita sarebbe l’autonomia del magistrato, che saprebbe di essere esposto al rischio di denuncia e potrebbe essere condizionato nel suo lavoro. E si pensi a cosa accadrebbe nei processi con imputati facoltosi o di grande potere, in grado di esercitare una forte sudditanza nei confronti dei giudici e di potersi permettere cause infinite contro gli stessi, in caso di condanna.
Quesito n. 3. Equa Valutazione dei Magistrati.
A norma dell'articolo 105 della Costituzione: “Spettano al consiglio superiore della magistratura, secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati.” La valutazione professionale dei magistrati è una competenza che la Costituzione assegna all’organo di autogoverno, che decide anche sulla base dei pareri formulati dai Consigli giudiziari. I consigli giudiziari sono organismi territoriali formati sulla falsariga del consiglio superiore della magistratura. Essi sono composti da membri di diritto (il presidente della Corte d'appello, il procuratore generale e il presidente dell'ordine degli avvocati), da magistrati eletti dai loro colleghi e da membri laici, avvocati e un professore universitario, nominati con metodi vari e da un componente eletto dai Giudici di Pace. I Consigli formulano pareri su questioni che riguardano l’organizzazione ed il funzionamento degli Uffici giudiziari, esercitano la vigilanza sulla condotta dei magistrati in servizio e formulano le pagelle relative all’avanzamento in carriera dei magistrati. Su queste ultime due competenze hanno voce solo i componenti della magistratura. Lega e Radicali chiedono che alla valutazione dell’operato dei magistrati partecipino anche avvocati e docenti universitari, i cosiddetti laici. In realtà, già adesso, la legge prevede che gli avvocati debbano esprimere una valutazione, poiché, ai fini della formulazione del parere sulla professionalità: “il consiglio giudiziario acquisisce le motivate e dettagliate valutazioni del consiglio dell'ordine degli avvocati avente sede nel luogo dove il magistrato esercita le sue funzioni.” Di tutti i quesiti referendari proposti, il terzo è quello più inoffensivo, perché – quale che sia il parere del Consiglio giudiziario – l’ultima parola spetta al CSM, che decide. Tuttavia la disciplina di risulta si presta a delle controindicazioni: un avvocato si potrebbe trovare di fronte, in aula, il giudice del quale potrebbe poi influenzare, col suo voto, un eventuale avanzamento di carriera. Si creerebbe un cortocircuito di cui non beneficerebbero la terzietà e la serenità del magistrato.
Quesito n.4. Separazione delle carriere.
La Costituzione prevede che: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (articolo 104); il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario (articolo 107); La legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali, del pubblico ministero presso di esse (art.108). La magistratura giudicante (giudici) e quella requirente (pubblici ministeri) fanno parte dello stesso ordine, la loro carriera è gestita dallo stesso organo di autogoverno (il Consiglio Superiore della Magistratura). In questo contesto, a differenza che nel passato, il Pubblico Ministero gode delle stesse garanzie di indipendenza del giudice con il quale condivide il medesimo status. L’esigenza di ricondurre il Pubblico Ministero sotto il controllo del potere politico è una tentazione ricorrente nel mondo politico, ma si scontra con il dettato costituzionale. Per separare la carriera del Pubblico Ministero da quella dei giudici sono state avanzate numerose proposte di riforma costituzionale. Il quesito referendario si propone di realizzare lo stesso obiettivo, aggirando l’ostacolo della Costituzione. Per fare ciò deve intervenire, con il metodo del taglia e cuci, su una grande quantità di norme dell’ordinamento giudiziario. Attualmente la legge ha stabilito una netta separazione delle funzioni fra magistratura giudicante e magistratura requirente, con la conseguenza che il passaggio dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa, è soggetto a delle forti limitazioni: è consentito solo cambiando Regione, dopo cinque anni di servizio, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale e subordinatamente ad un parere di idoneità alle diverse funzioni del CSM. Il quesito proposto mira a mettere uno steccato tra le due carriere, chiudendo il Pubblico Ministero in un ghetto dal quale non potrebbe mai uscire nel corso di tutta la sua carriera professionale. Secondo i promotori il quesito è volto a creare “un sano e fisiologico antagonismo tra poteri, vero presidio di efficienza e di equilibrio del sistema democratico”. Si tratta di una motivazione demenziale che oscura il profilo reale della riforma, il cui unico effetto è quello di allontanare il Pubblico Ministero dalla cultura della giurisdizione e creare le premesse perché, in seguito, con una riforma costituzionale possa di nuovo essere ristabilita qualche forma di controllo politico sull’esercizio dell’azione penale.
Quesito n. 5. Limitazione delle misure cautelari.
I promotori del referendum, avevano intitolato la loro iniziativa: limiti agli abusi della custodia cautelare. La Corte di Cassazione ha correttamente modificato la denominazione in “limitazione delle misure cautelari poichè il quesito non interviene sugli abusi della custodia cautelare, bensì opera una riduzione del campo di applicazione della custodia cautelare e delle altre misure coercitive e interdittive. I promotori lamentano che “ogni anno migliaia di innocenti vengono privati della libertà senza che abbiano commesso alcun reato”. Si tratta di un’osservazione falsa e fuorviante. Secondo il codice di rito, due sono le condizioni imprescindibili perché possa essere emessa una misura cautelare:
a) Devono sussistere gravi indizi di colpevolezza
b) Deve sussistere un pericolo concreto ed attuale (di fuga, di inquinamento delle prove, di commissione di gravi delitti con uso delle armi, o di delitti di criminalità organizzata, ovvero di delitti della stessa specie).
Questi requisiti processuali che legittimano l’emanazione delle misure cautelari sono presidiati da un duplice controllo, quello del GIP, che può respingere la richiesta del PM se ritiene non gravi gli indizi di colpevolezza, ovvero se ritiene che, pur in presenza di gravi indizi di colpevolezza non esiste una concreta pericolosità. Il provvedimento emesso dal GIP, riguardante misure coercitive, è soggetto ad un controllo immediato da parte del Tribunale del riesame, non a caso identificato come Tribunale della Libertà. A loro volta le decisioni del Riesame sono sempre soggette al ricorso per cassazione. Per quanto, in astratto, è sempre possibile un errore giudiziario, è del tutto impossibile che “ogni anno migliaia di innocenti vengono privati della libertà senza che abbiano commesso alcun reato.” In caso passasse la modifica chiesta dal referendum, ai giudici verrebbe tolta proprio la possibilità di emettere delle misure cautelari coercitive (nonché misure cautelari interdittive) basate sul pericolo della “reiterazione del reato” (salvo rarissime eccezioni, come per mafia e terrorismo). Un colpo di spugna che, caso vuole, riguarda anche il reato di finanziamento illecito ai partiti, tanto caro ai leader politici. Occorre precisare che le misure cautelari coercitive comprendono misure detentive (custodia in carcere e arresti domiciliari) e misure non detentive, come l’allontanamento dalla casa familiare (nel caso di violenze in famiglia), o il divieto di avvicinamento nei luoghi frequentati dalla persona offesa (nel caso di stalking), oppure l’obbligo di soggiorno o il divieto di soggiorno. La questione assume notevole rilievo nei casi di delitti seriali, dove la misura cautelare (detentiva o meno) ha una sua specifica utilità per interrompere una carriera criminosa (si pensi allo spaccio di droga) o una progressione criminosa (si pensi agli atti persecutori che, se non interrotti, possono trasmodare in atti di violenza letale come il femminicidio). Abolire del tutto le misure cautelari coercitive nel caso di pericolo di reiterazione del reato, espone le vittime del reato ed i soggetti più deboli a gravi rischi e pericoli non altrimenti evitabili. E’ opportuno rilevare che il quesito referendario travolge anche la possibilità di emettere delle misure cautelari interdittive, come il divieto temporaneo di esercitare determinate attività professionali o imprenditoriali, misure dirette ad esercitare opportune forme di contrasto nei reati di carattere patrimoniale o finanziario. Non si può escludere, ma è improbabile, che i promotori del referendum si propongano di favorire la libertà di azione di spacciatori o di stalker. Il vero problema sono i reati dei colletti bianchi (corruzione, concussione, bancarotta fraudolenta, riciclaggio, inquinamento, etc.). L’effetto del quesito è di favorire la posizione dei colletti bianchi, rendendo meno incisivo nei loro confronti il controllo di legalità. Non importa se per raggiungere questo risultato bisogna ammorbidire il controllo di legalità anche nei confronti di tutti gli altri. Questo spiega la strana convergenza fra i radicali, portatori di una cultura ultragarantista (nei confronti degli imputati) e la Lega, portatrice di una cultura opposta (nei confronti dei soggetti marginali). Il risultato finale di questa riforma non sarebbe quello di evitare che migliaia di innocenti vengano privati della libertà, ma di rendere meno incisiva l’azione di contrasto alla criminalità comune ed economico finanziaria, e di restringere il perimetro del controllo di legalità a fronte de di restringere il perimetro del controllo di legalità a fronte di comportamenti devianti e pericolosi per la società.
Quesito n. 6. Abrogazione della legge Severino.
Il decreto legislativo che porta la firma dell’ex ministro della Giustizia Paola Severino prevede incandidabilità, ineleggibilità e decadenza automatica per i parlamentari, per i rappresentanti di governo, in caso di condanna con sentenza definitiva per reati non colposi a pena superiore a due anni di reclusione. Per gli amministratori regionali, per i sindaci o altri amministratori locali è prevista l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per coloro che hanno riportato condanna definitiva per reati gravi (come la partecipazione ad associazioni mafiose, o altri fatti gravi) o per reati meno gravi quando si tratta di “delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o a un pubblico servizio”. Nei casi di sentenza di condanna non definitiva per i reati che prevedono l’incandidabilità, scatta la sospensione e la decadenza di diritto per gli amministratori locali. Il decreto Severino presenta dei punti critici con riferimento alla sospensione di diritto degli amministratori locali che abbiano subito una condanna non definitiva per reati non gravi connessi ad eventuali abusi di potere. Tuttavia il quesito referendario non affronta gli eventuali punti critici ma propone l’abrogazione tout court dell’intera normativa sulla incandidabilità e decadenza dei soggetti che ricoprono funzioni elettive. In realtà si tratta di una disciplina che dà attuazione al principio costituzionale (art. 54) che esige che “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore”. Il quesito viene incontro alla diffusa insofferenza del ceto politico per il controllo di legalità ma danneggia fortemente l’interesse dei cittadini alla correttezza dell’agire pubblico.
Conclusioni
In definitiva tutti e sei i quesiti proposti, a differenza di quanto sostengono promotori, non sono destinati a realizzare alcuna riforma della giustizia. In realtà sono tutti convergenti verso l’obiettivo di indebolire l’indipendenza del giudiziario e condizionare l’imparzialità del giudice a favore dei soggetti forti (quesiti 1, 2, 3(non ammesso) e 4) riducendo anche la sfera di operatività del controllo di legalità nel settore penale (quesito 5). Infine tendono ad eliminare le conseguenze dannose del controllo di legalità nei confronti del ceto politico (quesito 6). Non si tratta nel suo complesso di una riforma della giustizia, bensì di una riforma contro la giustizia, contro l’eguaglianza e i diritti dei cittadini.