martedì 7 novembre 2023

Dino Piana, la vita in jazz

 

Nella notte fra domenica e lunedì scorso si è spento il trombonista Dino Piana, una colonna del jazz italiano. Per ricordarlo, pubblichiamo un’intervista che gli fece Enrico Rava in occasione dell’uscita del disco, che li vedeva protagonista insieme “Al gir del bughi”. L’articolo a cura di Roberto Peciola  uscì nell’aprile del 2021 su “Alias” l’inserto culturale de’” il manifesto”


INCONTRI/UNA CONVERSAZIONE TRA IL TROMBONISTA PIEMONTESE E ENRICO RAVA

«Al gir dal bughi» è un nuovo disco e l’inizio di una lunga storia. Ripensando a Mingus

Dino Piana, novantuno anni portati alla grande, con una voglia infinita di fare quello che sa fare, suonare quel trombone che lo accompagna fin dalla adolescenza. Una passione che lo ha portato a registrare ancora un disco, Al gir dal bughi, un lavoro fortemente voluto e spinto dall’amico di sempre, Enrico Rava, di «appena» dieci anni più giovane, e dal figlio Franco. Per farci raccontare l’album, ma soprattutto una vita «in jazz», ci siamo affidati a una conversazione – rigorosamente «a distanza» – proprio tra i due grandi «vecchi» del jazz nostrano, eccone un resoconto.

Enrico Rava: Cominciamo a parlare del titolo del disco, la gente si chiede cosa cavolo voglia dire Al gir dal bughi.

Dino Piana: È una storia che conosci bene, parliamo di 62 anni fa. Mi trovavo a Torino e mio fratello mi disse che aveva sentito che da qualche parte stavano suonando jazz, e che sarei dovuto andare a farmi sentire. Gli risposi che non se ne parlava, figurati, non avevo neanche la custodia per il trombone, che faccio, me lo metto sotto il braccio? Alla fine mi convinse e una domenica mattina andammo, mi tremavano le gambe. Quando siamo entrati tu mi sei venuto incontro dicendomi, «Ah, un trombone a pistone, come Bob Brookmeier!». Capirai, io non sapevo neanche chi fosse Brookmeier e sono andato in palla, poi quando mi proponesti di suonare un blues avrei voluto morire, non conoscevo nulla, non lo avevo mai suonato e ti chiesi cosa fosse il blues. Tu ti girasti verso il pianista, Maurizio Lama, con uno sguardo come a dire «eccolo qua, abbiamo il pollo!». Lama mi fece sentire qualcosa e io dissi: «Ah, ma è al gir del bughi», è il giro del boogie-boogie! Iniziammo a suonare e io feci un solo, poi due, poi tre e quando finii mi avete abbracciato. Da allora tutte le domeniche mattina venivi a prendermi a casa e conoscesti Franco che allora aveva un anno o due, ricordi che sulla culla c’era una trombetta?

E.R.: Mi fa sorridere il fatto che dopo sessant’anni lo chiami ancora boogie boogie, è boogie-woogie!

D.P.: Sì, ma noi lo chiamavamo booggie boogie…

E.R.: Sai perché ti abbracciammo? Perché noi eravamo dei maldestri dilettanti, io avevo vent’anni e avevo comprato una tromba da un paio d’anni, Maurizio suonava «abbastanza» bene il piano e tu sei arrivato senza sapere nulla, non avevi mai suonato il jazz ma facesti un solo incredibile. A farti conoscere il jazz però ci pensò Luisa, tua moglie, con la quale hai passato tutta la vita…

D.P.: Sì, allora pensavo di suonare jazz, ma era solo musica da ballo. Un giorno Luisa mi disse che se fossi andato da lei, una sera mi avrebbe fatto ascoltare una radio tedesca che trasmetteva musica per le truppe Usa in Germania. Andai, quella sera c’erano Dizzy Gillespie e Charlie Parker, era una cosa da matti… «Ma cos’è ’sta roba?», le dissi, e lei: «Questo è il jazz». Ogni volta che trasmettevano andavo da lei e così cominciai a provare quelle cose, suonavo free per conto mio. Questo fu il mio primo incontro con il vero jazz.

E.R.: Poco tempo dopo quel nostro incontro partecipasti con un gruppo che credo si chiamasse Quintetto o Sestetto di Torino, alla Coppa del Jazz, un concorso che faceva la Rai in quegli anni, e vincesti come rivelazione. Subito dopo ti volevano tutti i grandi musicisti europei…

D.P.: Non so nemmeno io come andò. Dopo la Coppa del Jazz venni contattato da Romano Mussolini che mi offriva di entrare nel gruppo che avrebbe dovuto accompagnare Chet Baker alla Bussola. Anche lì pensai di non andare, Baker era troppo per me, ma Luisa mi convinse dicendomi che era un’occasione unica, a cui non potevo rinunciare. Accettai e mi ritrovai al fianco di quello che consideravo un dio, lo amavo e lo amo tutt’ora perché… beh, lo sai perché. Feci tutta la stagione con lui e imparai moltissimo, ma all’inizio fu dura. Quando ci siamo trovati al pomeriggio per stilare una scaletta, per conoscerci, ci accordammo per partire con un blues, poi la sera, locale pieno, lui arrivò in ritardo, trafelato, prese la tromba, si girò verso di noi e disse: «Tune up». Rimasi come uno stoccafisso, non conoscevo quel brano, non lo avevo mai sentito, e decisi di non suonare… avrà fatto sei chorus uno più bello dell’altro e poi mi fa: «You don’t play?», e io «No, I don’t know!» Quella sera, fu tremenda, ma poi le cose si sono aggiustate e siamo diventati «quasi» amici, perché era amico di tutti e di nessuno, fu una grande esperienza. Da lì in poi ho suonato con moltissimi musicisti americani e non solo, Mingus, Gerry Mulligan, Thad Jones, Paco De Lucia, Maynard Ferguson, Lee Konitz, troppi per citarli tutti… Ultimamente ho fatto delle bellissime cose con Carla Bley e Kenny Wheeler, roba d’avanguardia con cui non mi ero mai confrontato.

E.R.: Ma la storia del tuo ingresso nella orchestra della Rai? Come hai fatto, senza neanche saper leggere la musica?

D.P.: Fu una cosa particolare. Gorni Kramer venne a sentire Chet al Bussolotto, alla fine del concerto mi si avvicinò e mi disse: «Bravo, suoni bene, mi piace. Io a novembre o dicembre dovrei fare una trasmissione in Rai e mi serve un trombone come te, che improvvisi. Ho un trombone bravissimo in orchestra, Mario Pezzotta, però uno come te mi piacerebbe”. Io avevo bisogno di un lavoro fisso, diventai rosso e gli dissi, con fatica: «Maestro, ma io non leggo la musica, come faccio a suonare in un’orchestra?». «Ma come non leggi la musica… Ma gli accordi che suonavi?», «Non lo so cosa suono», «Guarda, non mi importa, parlo io con Pezzotta e vedrai che ti aiuterà». Pensavo di non accettare ma anche quella volta a spronarmi fu Luisa, e così mi ritrovai a studiare con il maestro Pezzotta che all’inizio era un po’ perplesso ma pensava di riuscire a farmi suonare «a prima vista» se gli fossi stato vicino, ma non è mai successo!

Interviene Franco Piana: Ma poi con Mingus…

D.P.: Con Mingus è un’altra storia, Enrico, vuoi che te la racconti?

E.R.: E certo, siamo qua per questo!

D.P.: Ricordo che ricevetti una telefonata in cui mi dissero che c’era da fare una cosa con il più grande contrabbassista del mondo. Io per scherzo dissi, «Chi, Charlie Mingus?» «Sì, proprio lui!» «Ah, ok, non vengo!», figurati sapevo che era uno molto esigente e con un carattere particolare, e se un musicista non gli andava a genio lo mandava a quel paese. E lì di nuovo subentrò Luisa a spingermi ad andare, e io non volevo, conoscevo i dischi di Mingus e sapevo che il suo trombonista era fenomenale, e io cosa potevo andare a fare con il mio strumento a pistone, e invece… Arrivò con un cappello nero e il sigaro, metteva soggezione. Cominciamo a registrare e durante il brano mi fa cenno di andare, presi la plancia al volo e mi lasciò spazio; alla fine mi fece i complimenti, fu un’altra grande soddisfazione.

E.R.: Poiché siamo partiti da Al gir dal bughi, che è l’inizio della tua storia, dimmi qualcosa di questo disco, sei contento?

D.P.: Molto, perché non credevo di fare ancora un disco così, col mio nome, voi mi avete spinto a farlo e sono molto contento perché non è un disco combinato, Ci siamo ritrovati a registrare senza aver preparato nulla, siamo andati a ruota libera, col cuore. Ecco, è un disco fatto col cuore, un disco di jazz, se vuoi tradizionale, ma con tanta anima. Grazie a te Enrico e a Franco che mi tiene sempre sulla corda. Io suono tutti i giorni, se non suono sto male, è importante per me.

E.R.: Anch’io! Suono tutti i giorni, sono felice se sento che il labbro va, scontento se non va, mi sento in colpa se sto un giorno senza suonare, e non ci crede nessuno. Ma come? Mi dicono, tu alla tua età… Sì, lo faccio perché è quello che mi tiene in vita…

D.P.: Esatto, lo facciamo per noi stessi. Mica penso di mettermi a fare concerti a 91 anni – «li faremo», interviene Rava -, vabbè, speriamo. Io ho bisogno di farlo, di sentire il mio suono, perché viene da dentro, dall’anima. A volte suono anche brani vecchi, cose che mi ricordano Luisa, vado col pensiero e torno in quella sala da ballo, per esempio.

E.R.: Dino, è stato un piacere, spero che tu abbia detto tutto ciò che volevi, ma se vuoi dire qualcos’altro…

D.P.: No, voglio ringraziarti, è stata una bella cosa, grazie.

E.R.: Sono io che ringrazio te, ma tanto ci sentiamo presto.


lunedì 6 novembre 2023

Lettera agli ebrei italiani

 

Franco Lattes Fortini  (dal quotidiano il Manifesto del 05/11/2023)



Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida.

Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo e – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele.

In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza-lavoro palestinese, settanta o centomila uomini – corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, i figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare.

Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più.

Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta me ricordare.

 QUELL’ASSEDIO PUÒ vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte dell’opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande.

 Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.

 GLI EBREI DELLA Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità.

 Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.

 L’USO CHE QUESTA ha fatto della diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.

 Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana e ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla.

Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli.

 Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani?

 Coloro che ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa – credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno.

Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida.

Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.

 E SE ORA MI SI CHIEDESSE con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno da sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico, non in quel che con esso hanno ricevuto in destino.

 Mai come su questo punto – che rifiuta ogni «voce del sangue» e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; sì che partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o da quel che pare esserne manifestazione corrente.

 IN MODO AFFATTO diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene.

 Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli Americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente della nostra intelligenza, delle nostre parole e volontà.

 Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo Libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi.

 È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante o al senso di una cadenza di Brahms?

 LA DISTINZIONE fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri.

 Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.

 OGNI CASA CHE gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti.

 Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere.

 Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria.

 Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo «che danna un popolo intero intorno ad un patibolo»: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilonia.

 LA NOSTRA VITA non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune.

 Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.

 E ANCHE in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io.

 Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi.

 Parlino, dunque.

 

* «Il manifesto» ha pubblicato questo testo la prima volta il 24/5/1989 e una seconda volta il 18 gennaio 2009. I problemi e le domande che pone restano ancora oggi aperti e immutati. Semmai «solo» aggravati.