lunedì 10 gennaio 2011

Singer: la storia di un'estenuante occupazione

Troviamo per tutto il periodo in cui si è lavorato, citati aneddoti, episodi; gli operai ricostruiscono una storia che hanno vissuto, fatta di scontri con i capi, di scioperi per i ritmi, contro i fascisti. Le donne ricordano le lotte reparto per reparto sui problemi della nocività, quando il blocco di un solo reparto riusciva ad imporre lo spostamento di un’operaia incinta ad una mansione più leggera. Dal momento della chiusura questa storia non si trova più, non si riesce a ricostruirla, episodi ed aneddoti accaduti durante l’assemblea permanente , al di là dei fatti ufficiali, non si ricordano. Diventa prioritario nei racconti, rispetto alla vita di lotta, il rapporto con il territorio : il difficile rapporti con il paese di Leinì, l’ostilità dei commercianti, i rapporti con i familiari, col mercato del lavoro, con la Politica. Finisce il coinvolgimento diretto degli operai nella vita della fabbrica, sembra  che quanto è successo  dall’agosto’75  non sia più storia loro, vissuta in prima persona, ma la storia di un avvenimento politico: “Il caso Singer” , di cui altri erano i soggetti principali: le avanguardie politiche e il Consiglio di Fabbrica, in tutto 200-300 persone, la sinistra di fabbrica. Inizia con la chiusura della fabbrica quella disgregazione di cui si è parlato a proposito della forma “operaio-massa”, per cui chi può, chi ha già un altro lavoro e ha la possibilità di un posto sicuro, tipo Fiat, sene va. Entro il gennaio ’76 già se ne sono andati circa 300 operai . Dentro la fabbrica il clima generale e il rilassamento, di attesa sostanzialmente passiva, di scadenza in scadenza. Racconta un’operaia :”Per un anno e più sono andata alla Singer, notte e giorno si può dire, portavo anche mia figlia perché mi sembrava giusto difendere il mio posto di lavoro. Ad un certo punto mi sono scocciata perché vedevo tante cose storte, il sindacato diceva una cosa poi arrivavano quelli dei partiti e ne dicevano un’altra, ognuno tirava l’acqua al suo mulino ed a noi ci hanno sempre lasciati soli.”  Paradossalmente, si può forse dire che proprio la dimensione di “grande fabbrica”  che la Singer aveva assunto negli anni ’70 e che aveva permesso agli operai di “contare sulle proprie forze” adesso diventa una palla al piede. Comincia tra assemblee aperte, discorsi dei politici, la lunga attesa degli operai. La scelta dell’assemblea permanente comportò una situazione quantomeno ambigua per quanto riguarda il controllo della fabbrica. Gli operai “presidiano” , resta però attivo tutto l’apparato di controllo dell’azienda, guardie giurate e via dicendo. Intanto una quota di operai  è adibita alla manutenzione ed al completamento dei semilavorati. Già questo è fonte di contraddizioni. E non solo. In quasi tutte le interviste viene  messa in rilievo come elemento centrale la divisione tra gli operai tra chi occupava e chi no, tra chi passava le giornate  in fabbrica e chi, grazie al secondo lavoro, spesso preesistente alla chiusura, aveva la possibilità di sostituire integralmente il reddito venuto a mancare. Ci dice un’operaia Il rapporto  in fabbrica è abbastanza cordiale con quelli che vediamo sempre. E’ logico che quando vediamo qualcuno che viene e non si è mai visto da due anni a ‘sta parte un po’ di risentimento  ce lo abbiamo. Certo ognuno ha i suoi motivi. Molti fanno lavoro nero ma è colpa di chi li tiene in queste condizioni. E’ anche un po’ colpa degli operai che non sono preparati però. Se eravamo tutti niti qualcosa succedeva prima. Se siamo una minoranza di operai in fabbrica facciamo il gioco di quelli che ci tengono in queste condizioni qua”. Aggiunge un altro operaio: In molti in fabbrica non vengono perché ci sono quelli che stanno bene e se ne fregano di venire, e ci sono tanti che non vogliono venire proprio anche se non hanno i soldi, vanno a fare qualche ora di lavoro nero e siamo sempre i soliti a stare nella mensa a giocare a carte”. Sul lavoro nero della Singer si dilunga un recente documento steso da un gruppo di compagni operai occupanti ed i dati che fornisce  sono indubbiamente illuminanti : già precedentemente, quando il lavoro era normale, tanti operai uscivano dalla fabbrica e andavano a farsi due o tre ore in più di lavoro fuori per aiutarsi , per farcela a mantenere la famiglia , o si mettevano in  mutua per guadagnare intere giornate di lavoro extra”. Con l’inizio dell’assemblea permanente, il fenomeno si è ovviamente intensificato, tanti che alcuni gruppi di operai hanno cercato di organizzare una “ronda operaia” che intervenisse nelle boite della zona, dove si sapeva che il lavoro nero era pratica comune.  A giudizio degli stessi estensori del documento però l’iniziativa ha rischiato di approfondire ulteriormente la spaccatura tra gli operai . Impressionante comunque il quadro che emerge: gli operai della Singer trovano lavoro come autisti di camion, manovali per i traslochi, venditori ambulanti sul mercato del paese. In alcuni casi il datore di “lavoro nero” è addirittura l’Amministrazione comunale di Volpiano, che assume “singerini” in cassa integrazione come muratori e carpentieri da adibire al restauro dei nuovi locali del municipio e delle scuole medie (nel 1976). Molte donne facevano lavoro a domicilio montando penne biro per un’azienda di S.Benigno, attualmente chiusa, altre  lavorano in un’altra boita  che fabbrica biro, in Via Verdi, 14 (a Leinì. A Volpiano è la ditta Zucchelli che dà a lavoratori Singer materiale a domicilio per la produzione di apparecchiature elettroniche”. In un altro caso à la Casa di Cura Camoletto (parzialmente proprietà del parco di Volpiano) ad utilizzare operaie cassintegrate  come donne delle pulizie. Alcuni operai, evidentemente in buoni rapporti con l’amministrazione comunale di Leinì sono stati assunti come bidelli supplenti nella scuola media. Molti hanno cercato di arrangiarsi a Torino finendo col fare i manovali, i barbieri, i mediatori nella compra-vendita di auto usate, gli straccivendoli, gli aiuto meccanici e addirittura i distributori di depliants pubblicitari a domicilio o i venditori di profumi ecc. Altri ancora confezionano fiori di carta oppure montano nei portachiavi le chiavi delle automobili Fiat (lavoro ottenuto attraverso l’amicizia con capi e capetti dell’azienda).  E’ importante mettere in rilievo come qui si misuri fino in fondo la dispersione degli operai: come d’altra parte la varietà dei mestieri stia a testimoniare l’assoluta mancanza di continuità tra lavoro attuale e lavoro precedente, caratteristica intrinseca dell’operaio-massa; come infine molteplici fossero ( e tuttora siano) le possibilità offerte dal variegato mercato del lavoro dell’area torinese, e non certo in settori tutti ,arginali. Accanto alla vendita a domicilio è presente infatti il montaggio di componenti elettroniche e compare pure la pubblica amministrazione . E’ facile immaginare quanto tutto questo abbia diviso gli operai. Le contraddizione inoltre erano particolarmente forti tra le donne, in particolare tra quelle più vincolate alla famiglia e che quindi per se interessate e coinvolte non potevano materialmente partecipare all’assemblea permanente e quelle che invece riuscivano ad esserci anche se a prezzo di contraddizioni personali spesso acute. Appare chiaro comunque che la Singer “presidiata” non diventa un centro di orgaizzazione e propulsione di iniziative politiche.  Non è lì che si prendono le decisioni circa il futuro della fabbrica, che si articolano i tempi della lotta, che si individuano gli obbiettivi su cui puntare. Al massimo la fabbrica, è leggibile come la trincea su cui  si resiste, dove si sta almeno finché ciascuno se la sente. Rimanere per mesi a bagnomaria nella Singer presidiata comincia ben presto ad indurre una serie di modificazioni nel comportamento degli operai. Le mille differenze che in precedenza  erano schiacciate e compresse dalla omogenea condizione di lavoro nella produzione iniziano progressivamente a venire alla luce. Sono fattori materiali e fattori ideologici ad agire parallelemente come vettori della disgregazione. Paradossalmente ada andarsene tra i primi sono settori della struttura di comando e dell’apparato tecnico (capi e dirigenti, impiegati, tecnici)  - favoriti dalle dinamiche del loro specifico mercato del lavoro- e contemporaneamente gruppi di lavoratori su posizioni radicali, favorevoli all’occupazione. Questi ultimi una volta vista svanire la possibilità di una lotta dura, anticipano un giudizio nettamente negativo sulle prospettive e preferiscono “abbandonare la nave”. Inizia quasi subito ad aprirsi la divaricazione tra durezza politica e flessibilità materialmente fondata, tra chi occupa la fabbrica – caratterizzandosi sempre più come avanguardia politica-  e chi invece ripiega sul lavoro nero. Analogamente  vengono alla luce differenze tra chi può contare su livelli sicuri di salario familiare e chi invece dipende in tutto e per tutto dal reddito garantito (o meglio non garantito)  dalla cassa integrazione.  Il lavoro nero tende così a diventare una delle maggiori fonti di contraddizione all’interno della classe, non solo sul piano materiale  ma anche sul terreno ideologico. Ancora una volta gli operai dimostrano di aver perso ogni capacità di leggere collettivamente il proprio comportamento . Tutti condannano il lavoro nero come pratica egoista e individualista, tutti però lo accettano se e quando è motivato da necessità economiche. Allo stesso modo nel corso di quattro mesi si brucia nella mente degli operai ogni possibile fiducia nella Politica: i discorsi dei “rappresentanti in missione” spediti dalla Singer, dai partiti vengono sempre più percepiti come aria fritta, come puro momento di controllo, come di fatto indistinguibili gli uni dagli altri, se non da parte dei raffinati retori che affollano l’empireo istituzionale. L’idea di essere soli, sul territorio come di fronte agli imprescindibili meccanismi della Politica, di fronte ai misteri ed alle congiure  che si svolgono al tavolo della trattativa con velati e nebbiosi acquirenti come di fronte all’aprirsi e chiudersi capriccioso e senza senso di rubinetti della Cassa Integrazione. Inizia qui, negli ultimi mesi del ’75 quel lento processo di presa di coscienza che sfocerà negli episodi di lotta dura dei primi mesi del ’76. Ma con ogni probabilità l’occasione buona era già stata persa e l’unica soluzione possibile restava la scelta individuale , sia che questa fosse la caparbia volontà di resistere, sia che fosse la fuga verso altre possibilità di lavoro salariato. Non a caso il periodo di cui stiamo parlando può considerarsi chiuso con l’intervento della GEPI e la costituzione, di lì a poco, della Sei-Geri. Saltata l’ipotesi della nazionalizzazione, sfumata (almeno a tempi brevi) quella dell’acquirente privato che garantisce l’unità e la permanenza di 2200 posti di lavoro iniziali, prende corpo la realtà del congelamento teso ad autoridurre – stancandoli – gli operai presenti. Il piano avrà come sappiamo pieni successo.

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