giovedì 3 febbraio 2011

Dopo la Tunisia, la guerra civile in Egitto

di Riccardo Bocchese -Lega Internazionale dei lavoratori - Lit



Dopo la Tunisia sono i giovani e i lavoratori egiziani a ribellarsi, a scendere in piazza e dentro agli immensi cortei appaiono, sventolando, anche le bandiere rosse con falce e martello.
Iniziata con la “giornata della collera” del 25 gennaio, maturata e indetta dopo che un uomo (evocando la Tunisia) si era appiccato il fuoco lo scorso 17 gennaio, seguito da altri due il giorno successivo e da un quarto il giorno 19, la rivoluzione egiziana, dopo quattro giorni di guerriglia in tutte le maggiori città del paese, conta centinaia di morti, un migliaio di feriti e oltre mille arrestati.
Nelle scorse settimane la preoccupazione principale di tutti gli analisti borghesi  è stata quella del pericolo che l’esempio della Tunisia potesse arrivare in Egitto, paese che insieme a Israele e Arabia Saudita forma una sorta di triangolo che dovrebbe avere la funzione di garantire il controllo dell’imperialismo in tutto il medio oriente. Tale preoccupazione si è  avverata.
I cambiamenti si susseguono a velocità vertiginosa: imprenditori e «personalità influenti» vicine al regime egiziano lasciano il Paese con aerei privati. Il presidente egiziano Hosni Mubarak, in un intervento trasmesso in diretta tv, annuncia di aver ordinato "al governo di dimettersi" e che un nuovo esecutivo sarà varato sabato. La sera di sabato 29 gennaio, invece, arriva la notizia che moglie e figli di Mubarak sono scappati volando a Londra.

L’ombra degli interessi economici occidentali
Mubarak, come Ben Ali in Tunisia, è stato un fedele servitore degli interessi economici occidentali. Da un cablogramma pubblicato da Wikileaks  nel marzo 2009, emerge che Washington fornisce a Il Cairo 1,3 miliardi di dollari annuali per consentire all’Egitto l’acquisto di armi ed equipaggiamento militare Usa. Il prezzo equo per il mantenimento della pace con Israele, si legge nel dispaccio. Nonostante l'alleanza con Mubarak gli Stati Uniti hanno finanziato a più riprese il movimento di opposizione democratica in Egitto. Un altro cablogramma dell’ambasciata Usa a Il Cairo rivela che “Pur appoggiando il governo alleato del presidente Mubarak, gli Usa sostengono dal 2008 un cambio di regime in senso democratico”. L'agenzia Usa per lo sviluppo internazionale (Usaid), secondo i 'cable', avrebbe previsto di finanziare con 66,5 milioni di dollari per il 2008 e 75 milioni per il 2009 i programmi egiziani per la democrazia e il buon governo, secondo una nota dell'ambasciata Usa al Cairo del dicembre 2007. Diventa fondamentale per il movimento in piazza riuscire ad emanciparsi, oltre che dal governo fantoccio, anche da chi lo finanzia.
Internet e i social network
L’Egitto conta i quasi 80 milioni di abitanti ed il 40% della popolazione vive largamente al di sotto dei limiti di povertà (appena 2.400 dollari l’anno pro-capite) . Il 70 per cento della popolazione è sotto i 30 anni. La crescita economica (il Pil è visto in rialzo del 5,4%) tocca solo le classi più vicine al presidente, lasciando le masse popolari in condizioni di povertà. Nei mesi di novembre e dicembre i rincari dei generi alimentari sono stati del 17,1 e del 17,2% e la disoccupazione galoppa come l'inflazione: la frustrazione giovanile e l’assenza di prospettive è  generalizzata. La diffusione della collera e della protesta è partita anche sui social network, dove si è raccolta l'adesione di quasi 100 mila simpatizzanti. Facebook e Twitter, a un certo punto oscurati, hanno informato i partecipanti sui luoghi veri della protesta e la gente si è, quindi, riversata nelle piazze del Cairo. Infine le fiamme dello scontento sono divampate in diverse città del Paese. Mubarak ha provato a staccare la spina della rivolta staccando la spina a cellulari e internet ma inutilmente, la rivoluzione era ormai scoppiata.
Pane e lavoro 
Con slogan urlati con rabbia e  proteste scritte su migliaia di cartelloni i dimostranti hanno chiarito i motivi della collera: "Giornata di rivolta contro la tortura, contro la povertà, contro la corruzione e la disoccupazione". Soprattutto giornata di collera contro l' "eterno presidente", Hosni Mubarak, 82 anni, da quasi 30 al potere attraverso cinque controverse tornate elettorali e che a settembre intendeva nuovamente presentarsi alle elezioni, o candidare il  figlio Gamal.
Leggendo la stampa occidentale, l’uomo su cui sta puntando l’imperialismo atterrito è El Baradei, ex alto papavero dell’Onu. Potrebbe svolgere un ruolo già sperimentato in altre occasioni: proporsi come l’alternativa affinché nulla realmente cambi. Non sarà una soluzione di facciata come quella rappresentata da El Baradei a risolvere i problemi del popolo egiziano.

La rivoluzione non è sufficiente, serve il partito rivoluzionario
I bisogni di pane, pace e lavoro  che i popoli di diversi Paesi, dalla Grecia alla Tunisia, dall’ Albania all’Egitto, stanno pretendendo attraverso rivolte e rivoluzioni, possono trovare risposta  solo con l'estensione della rivoluzione, nella cacciata di tutti i governi dichiarati o camuffati  dell’imperialismo, e nella creazione di un vero governo a favore del popolo, un governo operaio e contadino che espropri senza indennizzo sia le industrie dei capitalisti indigeni e stranieri, sia gli enormi latifondi che costringono alla fame milioni di persone.
Quello che sta succedendo nel mondo svela con chiarezza che il capitalismo non ha nulla da offrire alla stragrande maggioranza dell’umanità se non povertà, disoccupazione, fame e guerre.
La costruzione di un partito comunista rivoluzionario in Egitto, come nel resto del mondo, diventa, ogni ora che passa, sempre più necessaria affinché la rivoluzione non cada nelle mani della reazione.




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