lunedì 7 marzo 2011

Rivolta globale contro il neoliberismo

di Valerio Evangelisti 



Sono state largamente ignorate, in Italia, le proteste esplose nel Wisconsin e nell’Ohio, dopo la decisione di due governatori reazionari di falcidiare i pubblici impiegati (dagli insegnanti agli infermieri) e di limitare i loro diritti sindacali. Nel Wisconsin, a fronte di provvedimenti che avrebbero condotto al licenziamento di migliaia di lavoratori, e lasciato il singolo senza uno straccio di contratto collettivo solo e inerme davanti al padrone, una folla ha occupato il Campidoglio di Madison, capitale dello Stato, defenestrando di fatto le autorità elette. Uno dei leader storici della sinistra americana, il reverendo Jesse Jackson, ha infiammato con i suoi discorsi decine di migliaia di persone. In Ohio i sindacati hanno radunato folle equivalenti (per tenersi informati, leggere The Nation o Mother Jones, organi storici della sinistra Usa).
Qui si era distratti da ciò che sta accadendo nell’area mediterranea, con le rivolte ancora inconcluse di Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Algeria, Yemen, Oman ecc. C’è chi le legge come insurrezioni generazionali, chi le lega a Twitter e a Facebook, chi le vede come pure insorgenze democratiche. Dall’ “altra parte”, quella ostile ai moti, a destra c’è chi le interpreta alla luce dell’islamismo radicale; a “sinistra” chi vi scorge tracce di rivoluzioni “arancioni” manovrate dalla CIA, da Obama, da occulti centri di potere (si citano Castro e Chávez, senza considerare che i loro paesi assediati cercano alleati dovunque possono).
Con rarissime eccezioni, nessuno riesce a formulare un’analisi di classe. L’unica che potrebbe tenere insieme, in un medesimo quadro interpretativo, le rivolte del Missouri e dell’Ohio con quelle dell’Africa del Nord; e inoltre unirvi la protesta di massa greca, la ribellione – studentesca ma non solo – in Francia, Italia, Gran Bretagna. E mille altri episodi. Siamo in presenza di un nuovo 1967-68. Una ribellione mondiale contro le imposizioni capitalistiche. Il rischio è che, questa volta, nessuno ci faccia caso. Si sono estinte, o godono di minore fortuna, le grandi analisi. Si ripiega dunque su quelle sempliciste: dal puro democraticismo liberale (la rivolta è contro regimi oppressivi) ai deliri detti “geopolitici” cari sia alla sinistra perbene di Limes che ai rossobruni (strano mix politico tra fascisti e comunisti ultra ortodossi).
Eppure la verità è sotto gli occhi di tutti. Si è affermata, a furia di vittorie non solo teoriche, ma anche militari, una dottrina economica universale, il monetarismo. Colloca in posizione centrale il debito statale, che Keynes giudicava secondario rispetto alla produzione concreta e all’effettiva occupazione. Per rimediare al debito, e alla massa di interessi che genera costantemente, servono risparmi eternamente crescenti. Tagliare qui, tagliare là. Soprattutto nel welfare, che genera inflazione e il debito lo fa aumentare.
Prime vittime: i soggetti più deboli, i giovani e le donne (e i dipendenti pubblici, di norma docili ma troppo compatti). Il terzo soggetto debole, i vecchi: li si trattiene al lavoro per compensare la manodopera espulsa o esclusa. Tutto ciò comporterebbe un rischio nel caso che la forza-lavoro reale o potenziale sia organizzata. Per “fortuna” il potere ha il coltello dalla parte del manico. Sceglie gli interlocutori collettivi a seconda della docilità, esclude gli altri. Cancella, forte del suo dominio anche politico, ogni tipo di contrattazione generale. Vuole avere di fronte un lavoratore capace appena di vergare la sua firma sotto un contratto di arruolamento. Pieno di clausole tutte punitive, ma solo per il firmatario.
Il tutto in nome dell’adesione universale a una teoria economica che è anzitutto ideologica. Definire bisogni e ripartizioni di risorse attiene all’economia, designare beneficiari è compito della politica. Il monetarismo fece la sua scelta, trasformò l’economia politica (scienza in sé approssimativa) in ideologia. In economia al servizio della politica. E’ dall’alto che si sceglie chi castigare e chi premiare. Vittime sono le classi subalterne, da scompaginare e ricomporre (1). Sulla base di una teoria niente affatto scientifica, bensì ispirata a una visione gerarchica della società che farebbe rimpiangere l’antica aristocrazia.
Mettiamo dunque le mani su ogni diritto acquisito. L’istruzione, la cultura, il lavoro assicurato, l’ipotesi di una società grosso modo egualitaria, una qualche pensione facilmente calcolabile. Che non ne resti traccia.
Questo accade nel Wisconsin e accade in Italia. Ma che c’entra l’Africa del Nord? Chiaramente le forme dell’insubordinazione assumono aspetti aderenti alle caratteristiche locali, e tuttavia la matrice unificante è ben visibile, per chi la cerchi con un minimo di perspicacia.
Nel Nord Africa regimi tirannici hanno resistito finché non si sono piegati al liberismo, investiti dal vento occidentale. Da quel momento hanno spalancato le porte al capitale straniero, lasciato la forza lavoro in balia di se stessa (nell’immaginario alimentato ad arte appaiono ancora società semi-rurali, mentre il tasso di industrializzazione è altissimo), favorito processi di privatizzazione e di compartimentazione sociale.
Prendiamo il caso della Libia, tanto caro, per ragioni apparentemente opposte, sia alla democrazia borghese (anti Gheddafi) che alla sinistra che ha smarrito la bussola (pro Gheddafi). Se proprio vogliamo personalizzare, Gheddafi è colui che, per fare uscire la Libia dalla scomoda condizione di “Stato canaglia”, passò all’Inghilterra l’elenco dei militanti dell’IRA che si erano addestrati nel suo territorio; che lasciò, dopo il 2001 e soprattutto dal 2003, libero accesso alle risorse del suo paese a multinazionali e a consorzi di rapina bancaria; che si accordò con l’Italia per fare crepare nel deserto, o tenere provvisoriamente in vita, in sudice galere, i migranti dell’Africa continentale che provavano a raggiungere le coste europee. Valentino Parlato dice ora che il Libretto verde di Gheddafi “va letto”. Giusta esortazione: lo legga lui per primo. Poi dica cosa pensa di ciò che Gheddafi afferma delle donne – in pratica puri contenitori di figli futuri – o del cinema, strumento di corruzione in quanto fa vedere cose non vere (meglio il circo, dice il rais, pur con riserva). Parlato è uno dei tanti esempi di chi blatera di ciò che non conosce.
Ma personalizzare è la via peggiore. La Libia non differisce dalla Tunisia, dall’Egitto ecc. perché è la classe più colpita e penalizzata che si leva in piedi. Non islamisti oltranzisti, non nostalgici di regimi precedenti, non esponenti di minoranze tribali (queste componenti ci sono, ma non riflettono l’intero movimento). Si tratta invece di proletari, in maggioranza giovani o giovanissimi, che non riescono a scorgere un futuro possibile, nell’ambito del quadro economico neoliberista dominante. Il fatto che il regime elargisca elemosine, sotto forma di beni di sussistenza a prezzo politico, non li fa uscire dal binario morto in cui sono parcheggiati.
Vale ad Atene, a Parigi, a Roma, a Lisbona, a Tunisi o nel Wisconsin. Fare caso alle bandiere che agitano non serve a nulla: cercano il primo straccio che capita in mano, purché differente dal vessillo ufficiale. Arrivati a metà del guado, attendono una parola coerente per compiere il passo successivo. Non a caso, Stati Uniti, Unione Europea e Israele sono prodighi di consigli interessati. Arrivano a ventilare, almeno per la Libia, l’ennesimo “intervento umanitario”, per impadronirsi delle risorse altrui. Mandano spie e navi da guerra. Tentano un colpo di mano coloniale al minor prezzo possibile.
E’ difficile capire, al momento, come finirà questa lotta. Nascono forme transitorie di governo, oggetto di altre insurrezioni. Il pagliaccio che si è impadronito dello Stato italiano, dopo avere offerto a Gheddafi 500 hostess e 200 fotomodelle per una lezione di Corano, ora chiede che si faccia da parte. Teme la ripetizione di ciò che si è visto. Centinaia di migliaia di persone, in piazza e nelle strade, sono capaci di fare cadere un regime. Funziona, gente, funziona.

(1) Noterella per capirci. Un operaio disoccupato non è meno “operaio” di quello che lavora in fabbrica. Uno studente senza prospettive non è meno proletario del giovane di quartiere. Un addetto al “lavoro immateriale” (ricerca, cultura, ecc.) opera in un settore industriale divenuto portante in varie zone del mondo. Il capitale rimodella di continuo le classi subalterne, a seconda delle necessità. L’essenziale è che diano plusvalore, diretto o indiretto, e non si riconoscano in un’unica compagine portatrice di rivendicazioni.

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