sabato 2 aprile 2011

L'inesorabile avanzata delle rivoluzioni arabe

Riccardo Bocchese - Lega Internazionale dei Lavoratori (Lit)



Dopo Tunisia, Egitto, Libia, la rivoluzione corre veloce lungo tutta l’Africa settentrionale e si propaga nel Medio Oriente fino alla Siria, coinvolgendo milioni di persone, diventando inarrestabile. La preoccupazione fra i potenti del mondo è forte e i tentativi per occultare questa preoccupazione sono ogni giorno più vani. Le rivolte non si arrestano, nonostante la repressione spesso brutale. In estrema sintesi riportiamo alcuni fatti di queste ultime settimane che stanno portando ad un brusco e repentino cambiamento della storia. In queste ore, mentre scriviamo, è il momento della Siria, dove le manifestazioni di piazza costringono il governo alle dimissioni in blocco.


Arabia Saudita
Il re Abdullah bin Abdul-Aziz, il 23 febbraio, annuncia un pacchetto di sussidi economici per i “sudditi”, superiore a 35 miliardi di dollari. Quanto sta accadendo nello Yemen e in Bahrein è fonte di grandi preoccupazioni per i palazzi del potere che temono, infatti, ripercussioni gravi se il re del Bahrein, dovesse essere rovesciato. E’ temuta, inoltre, la sollevazione della minoranza sciita che abita le regioni orientali dell'Arabia Saudita, in cui si trovano la maggior parte dei pozzi petroliferi. Il giorno 4 marzo il regime ribadisce che sono proibite le manifestazioni di protesta. Nonostante questo, nelle prime settimane di marzo, si diffondono alcune proteste contro l'intervento dei militari sauditi in Bahrein. Le richieste sono di riforme politiche, aumento dei posti di lavoro e migliori condizioni economiche.


Yemen
La rivolta nello Yemen è stata duramente repressa dalle forze di polizia: 52 i manifestanti uccisi. La protesta ha scelto l'università di Sanaa, dove migliaia di manifestanti sono accampati dal 21 febbraio per chiedere le immediate dimissioni del presidente Ali Abdullah Saleh, in carica da oltre 32 anni. L'esercito yemenita in questi giorni ha sparato in aria alcuni colpi d’avvertimento per impedire ai sostenitori del regime d’Ali Abdullah Saleh di caricare i manifestanti - si parla di decine di migliaia di persone in piazza - che invocano le sue dimissioni. Sono, infatti, molti gli ufficiali che sono passati dalla parte dei manifestanti.  Anche schierando truppe a difesa della folla radunata a Sanaa che protesta contro il regime. Di fatto Saleh è sempre più solo e l’opposizione ha spiegato che aspetterà fino a venerdì 1 aprile per marciare sul palazzo presidenziale. Le dimissioni sono ormai inevitabili dopo il rifiuto dei manifestanti anche all'ultimo tentativo dei mediazione: offerta d’elezioni anticipate entro tre mesi, cambiamento dello statuto e formazione di un governo d’unità nazionale con l'opposizione.


Oman
Il 26 febbraio la protesta arriva nell’Oman, lo Stato governato dal 1970 dal sultano Qaboos bin Said al Said. I dimostranti chiedono migliori salari, più lavoro, una distribuzione equa dei proventi del petrolio, meno corruzione e le dimissioni del governo. Domenica 27 febbraio avviene lo scontro con le forze di sicurezza. Nel corso dei disordini ci sono due morti e numerosi feriti. Nel tentativo di calmare la protesta, il sultano, che detiene un potere pressoché assoluto nel Paese, annuncia la creazione di 50 mila nuovi posti di lavoro statali e un sussidio mensile per i disoccupati di 150 rial (poco meno di 400 dollari) e sostituisce alcuni ministri. Nonostante questi annunci nei giorni successivi gli scontri continuano.


Iraq
Venerdì 25 febbraio, nel corso del cosiddetto "Giorno della Rabbia", migliaia di persone in molte città del Paese scendono in strada e attaccano alcuni palazzi del potere. Le richieste sono anche qui: più lavoro, migliori servizi come ad esempio L’erogazione dell’acqua e dell'elettricità, pensioni più alte. Sono criticate, inoltre, la corruzione dei politici e delle autorità in genere. Nello scontro ci sono circa quindici morti. Il 16 e 17 marzo gruppi d’iracheni sciiti protestano contro l'intervento dei militari sauditi in Bahrein.



Bahrein
Il Bahrein ospita la Quinta Flotta della Marina militare americana. Le proteste hanno inizio a metà febbraio contro il re Hamad bin Isa al-Khalifa. La dinastia regnante è sannita mentre circa il 70 per cento della popolazione autoctona del Paese è sciita, sottorappresentata politicamente e da sempre penalizzata in ogni ambito della società a vantaggio della minoranza sunnita. Nella terza settimana di febbraio la brutale repressione delle proteste di piazza causa sette morti. Una folla impressionante scende in piazza. Il 14 marzo arrivano in Bahrein circa mille militari sauditi e 500 poliziotti degli Emirati per dare manforte al re. Il 15 il sovrano dichiara tre mesi di stato d’emergenza. Alcuni leader dell'opposizione sono arrestati. Il 18 marzo è demolito simbolicamente dall'esercito il monumento di Piazza della Perla, cuore della protesta.

Siria

In queste ore, serata del 29 marzo 2011, mentre scriviamo, il governo siriano si è dimesso in blocco Formalmente la Siria è una repubblica retta dal gruppo etnico-religioso degli alauiti, al cui vertice è dal 1970 la famiglia Asad, titolare della Presidenza della Repubblica in forma ormai ereditaria. Di fatto dal colpo di Stato del 1996 è in vigore la legge marziale, che sospende la maggior parte delle garanzie costituzionali e aumenta i poteri del presidente, legge marziale ufficialmente motivata dallo stato di guerra e dalla minaccia del terrorismo. Le proteste sono iniziate una settimana fa nella città agricola di Dara’a, vicino al confine con la Giordania, a causa dell’arresto d’alcuni studenti delle scuole superiori che avevano disegnato sui muri graffiti antigovernativi. Tali dimostrazioni sono rapidamente aumentate, con migliaia di persone che hanno aderito alle proteste, ispirate dall’ondata di rivoluzioni che hanno scosso il mondo arabo, chiedendo le libertà politiche e la fine dello stato d’emergenza e della corruzione. Il governo ha risposto uccidendo decine di dimostranti e ferendone molti altri. Raccapriccianti video della repressione, diffusi via Internet nei giorni scorsi, hanno fatto aumentare lo sdegno e la furia della popolazione siriana da un capo all’altro del Paese.
Nel pomeriggio di giovedì 24 marzo l’ufficio del presidente Bashar al-Assad ha annunciato concessioni senza precedenti alle richieste popolari: aumenti di stipendio fino al 30% per i dipendenti statali e la liberazione di tutti gli attivisti arrestati nelle scorse settimane, la promessa di nuovi posti di lavoro, la libertà di stampa, il permesso di formare partiti d’opposizione e la revoca delle leggi d’emergenza in vigore da 48 anni. Le promesse non hanno placato le rivendicazioni dei manifestanti e alle promesse, com’era prevedibile, sono seguiti i fatti con gli spari sulla folla che manifestava. A Tafas, poco lontano da Dera´a, i dimostranti hanno dato fuoco al palazzo del Baath, il partito al potere in Siria da mezzo secolo. Il bilancio degli scontri è pesante: almeno un centinaio le vittime. In questo momento l’obiettivo dei manifestanti, dopo le dimissioni del governo, è la cacciata del presidente Bashar al-Assad.
A fuoco i palazzi del potere
La lotta di classe è tornata e il mondo di un pugno di miliardari che vivono sulle spalle di intere popolazioni e della stragrande maggioranza dell’umanità comincia a sgretolarsi, esattamente come si sgretolano, bruciando, i palazzi del partito Baath in Siria.
Le guerre imperialiste, camuffate da aiuti umanitari e dichiarate sull’onda dello sdegno popolare contro i tiranni, saranno riconosciute dalle popolazioni in rivolta per quello che sono: il tentativo di soffocare, con i bombardamenti, ancora una volta, ogni speranza di una reale alternativa di sistema.
E’ necessario che le masse popolari e la classe operaia europea, sulla cui vita si sta abbattendo la scure della crisi capitalistica, solidarizzi con le rivoluzioni del mondo arabo e allo stesso tempo combatta contro i propri padroni e i propri governi, avvoltoi nei confronti dei Paesi dove ci sono le materie prime da sfruttare, avvoltoi nei confronti dei lavoratori nativi ed immigrati in Occidente. Il nemico è, in Europa come in Africa, lo stesso: il sistema capitalistico che offre solo miseria e distruzione dell’ambiente.
Affinché le rivoluzioni arabe possano risultare vincenti e non soccombere alla compatibilità con il sistema degli sfruttatori, è necessario che il proletariato di tutto il mondo si organizzi in un partito internazionale che sappia coordinare e offrire una prospettiva vincente a queste lotte. 

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