giovedì 30 giugno 2011

Comincia una rivoluzione anticapitalista?

di Atilio Boron, da: atilioboron.com, 20.6.2011




In un memorabile passaggio del Manifesto Comunista Marx ed Engels sostengono che, con la sua ascesa, la borghesia strappò impietosamente il velo ideologico che impediva ad uomini e donne di percepire la vera natura delle loro relazioni sociali “per non lasciar esistere altro legame che il freddo interesse, il ‘pagamento in contanti’”. Il capitalismo, dicevano, “ha annegato la sacra estasi del fervore religioso, l’entusiasmo cavalleresco e il sentimentalismo del piccolo borghese nelle acque gelate del calcolo egoista … In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche ha instaurato uno sfruttamento aperto, sfacciato, diretto e brutale”. E finiscono questa frase dicendo che in questo mondo costruito dalla borghesia “tutto ciò che era solido si dissolve nell’aria; tutto il sacro è profanato e gli uomini, infine, si vedono obbligati a confrontarsi, sobriamente, con le loro condizioni di esistenza reali e le loro relazioni reciproche”.
Ci sono varie considerazioni da fare inerenti a queste parole. In primo luogo esprimere l’ammirazione che ancor oggi risveglia quella straordinaria capacità dei fondatori del materialismo storico di ritrarre, in pochi tratti, le conseguenze profonde che l’ascesa della borghesia ha avuto su uomini e donne di quel tempo. Secondo, per dire che lo stesso Marx avrebbe rivisto quella tesi quando - nel primo capitolo della sua maggiore opera, Il Capitale - avrebbe fissato i lineamenti generali della sua teoria del feticismo della merce. Revisione che non significava una correzione relativa al passaggio storico dal feudalesimo al capitalismo, ma riguardava il carattere aperto e trasparente dello sfruttamento in seno alla società capitalista. Nella nuova formulazione di Marx lo sfruttamento diventa invisibile, si nasconde sotto le pieghe del mercato e viene dissimulato dalla falsa equità della compravendita della forza lavoro. In questa finzione l’operaio sprovvisto di coscienza socialista che lo inizi ai segreti del plusvalore può persino arrivare a congratularsi ingannevolmente per la “buona” remunerazione ricevuta dal suo padrone.
Terzo, e a questo vogliamo principalmente riferirci, per dire che, se si tratta della vita politica, quelle parole del Manifesto sono di una forza profetica incomparabile. La nuova crisi generale del capitalismo ha sommerso le illusioni promosse dai mentori e dai beneficiari della democrazia liberale “nelle acque gelate del calcolo egoista”. Come diceva uno striscione innalzato nella Plaza del Sol di Madrid “questa non è una crisi, è una truffa”. E a questa dolorosa scoperta ne seguiva un’altra: la truffa si realizzava in grande scala non solo sul terreno economico. Non minore era la frode messa in piedi in ambito politico nell’aver indotto la maggioranza della popolazione a credere che la plutocrazia sordida e senza scrupoli, sotto la cui frusta si svolgeva la loro vita, fosse una democrazia. Per questo adesso le denunce e i reclami che chiedono “una democrazia reale ora”, una “democrazia vera” al posto della pseudo - democrazia, il cui interesse escludente è la preservazione della ricchezza dei ricchi e del potere dei potenti.
La crisi ha avuto l’effetto di rendere coscienti i popoli del mondo sviluppato che - tanto loro quanto noi nel Sud globale - siamo vittime di un sistema che, spogliatosi delle vesti che ieri dissimulavano la sua vera natura, sottomette gli uni e gli altri ad “uno sfruttamento aperto, sfacciato, diretto e brutale”. E che quello che chiamano democrazia in realtà è la dittatura dell’oligarchia finanziaria che, come ricordava il Che nella Conferenze di Punta del Este, è incompatibile con la democrazia.
In questo quadro, quando “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, il grido disperato della donna ritratta giorni scorsi nello splendido racconto di Pedregal Casanova (1) rivela la drammaticità della crisi: “ una donna giovane (nel vagone di un treno nelle vicinanze di Madrid) che un attimo prima sarebbe stata invisibile, in piedi, si fece scappare, piangendo, alcune parole: - Vi prego …. vi prego…. aiutatemi. Sono una maestra …. Non avevo mai pensato di poter rimanere per strada. Sono rimasta senza lavoro… Mi hanno mandato via dal lavoro – diceva a voce bassa – mi hanno licenziato – alzando un poco il tono – hanno chiuso varie aule e sono qui, qui – singhiozzava stringendosi le mani – sono sola coi miei due bambini…. Prima di dormire un’altra volta con miei due bambini in un bancomat ho deciso di chiedere aiuto”. Questa eroina (e vittima) anonima, gettata violentemente nelle acque gelate della “razionalità costi-benefici del capitalismo” rappresenta col suo grido le centinaia di milioni che, con le loro sofferenze, rendono possibile l’opulenza dei plutocrati che dominano sotto la loro maschera “democratica”.
Giorni fa il Financial Times di Londra ha reso pubblico un rapporto sulle remunerazioni che, in questo contesto di crisi, hanno ricevuto i massimi dirigenti delle più grandi imprese. La nota diceva che “per quanto riguarda i banchieri l’era del contenimento (salariale) è finita”. Nel 2010, mentre il mondo continuava la sua caduta libera verso la disoccupazione di massa, i sequestri ipotecari e l’impoverimento generalizzato della popolazione, “la retribuzione media dei massimi responsabili delle 15 maggiori banche europee e statunitensi è aumentata di un 36% fino (a raggiungere la media annuale di) 9,7 milioni di dollari”.
Il plotone dei farabutti è guidato dal presidente della JP Morgan Chase, Jamie Dimo che, mentre milioni di statunitensi rimangono senza lavoro, si vedono sequestrare le loro case e tagliare (quando non gliele espropriano) le loro liquidazioni, si è intascato 20,7 milioni di dollari, quasi 2 milioni di dollari al mese; lo segue un tale John Stumpf, presidente della Wells Fargo, con 17,5 milioni di dollari. Un altro dei componenti di questa banda, Lloyd Blankfein, presidente di Goldman Sachs, uomo pio se ne esistono, disse una volta che i banchieri facevano “il lavoro di dio”. Per i suo sacro zelo ha ricevuto 14,1 milione di dollari. Nello stato spagnolo, scosso fino alle fondamenta dall’ondata di manifestazioni degli “indignati”, il presidente del BBVA, Francisco Gonzàlez, si accontenta di guadagnare circa 8.000.000 di dollari all’anno mentre il suo collega del Banco Santander, il più importante di Spagna, è stato più ambizioso e si è tranquillizzato vedendo ricompensare i suoi sforzi verso i suoi risparmiatori con tredici milioni di dollari. Non parliamo, naturalmente, dei guadagni intascati dal suo capo, il padrone del Banco Santander, don Emilio Botìn-Sanz de Sautuola y Garcìa de Los Rios, marito di O’Shea, come recitano le sue biografie più note che – previdente - ha preso la precauzione di depositare i risparmi di tutta una vita di lavoro e sacrificio in quei tenebrosi santuari del delitto che sono le banche svizzere.
Potremmo continuare a citare contraddizioni di questo tipo per pagine e pagine, ma sarebbe inutile. Più o meno dettagliatamente tutti conoscono i tremendi contrasti del capitalismo nella sua crisi attuale,quando l’opulenza e l’accelerato arricchimento dei ricchi convivono con l’impoverimento delle grandi maggioranze sociali.
Davanti a questa situazione bisogna farsi domande sul destino di queste orgogliose e arroganti pseudo - democrazie violentemente demistificate e smascherate al calore della crisi. E anche sugli stati, che hanno messo a nudo la loro vera essenza, diventati – come diceva il vecchio Hegel – “società civili mascherate da stato”, cioè apparati istituzionali che, invece di rappresentare la sfera della giustizia e dell’etica universale sono scesi nell’inferno dell’egoismo universale e della preminenza degli interessi privati sopra l’interesse pubblico. La delegittimazione delle pseudo - democrazie del capitalismo avanzato è una notizia molto buona, perché mette fina ad una menzogna che non era solo pietosa ma infame, messa al servizio del rafforzamento delle oligarchie e dell’oppressione dei popoli.
Dati questi antecedenti, non è di troppo domandarsi che cosa sta realmente succedendo in Europa, nel Nord dell’Africa e in Medio Oriente: sono rivolte popolari, chiamate a spegnersi col passare dei giorni o sono qualcosa d’altro, rivoluzioni?
Non è mai facile dire quando comincia una rivoluzione. Lenin disse una volta che questo succede quando quelli in basso non vogliono e quelli in alto non possono continuare a vivere come prima. Quello che sappiamo è che le rivoluzioni sono processi e non atti; processi che hanno un inizio che, al principio, non sembra colpire i fondamenti dell’ordine sociale.
Proteste isolate, rivolte contro i prezzi degli alimentari, contro gli “eccessi dei cattivi governanti”, contro la disoccupazione o l’improvviso peggioramento delle condizioni di vita, questioni tutte che non mettono in discussione i fondamenti della società. Si racconta che Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI di Francia, scrisse nel suo diario la notte del 14 luglio 1479: “niente di importante, solo qualche agitazione in una panetteria di fronte alla Bastiglia”. E nella Russia zarista il sacerdote ortodosso Georgi Gapòn, che aveva organizzato un’associazione per evangelizzare gli operai guidò una manifestazione pacifica, crocefisso in testa, a San Pietroburgo per consegnare una petizione allo zar. La risposta fu la feroce mattanza che avrebbe scatenato la rivoluzione del 1905, preludio necessario di quella dell’Ottobre del 1917. Come abbiamo già visto altrove, la dialettica della storia - la lotta di classe e lo scontro con l’imperialismo – di solito cambia proteste e richieste, all’inizio assimilabili dal sistema, in fragorosi processi rivoluzionari.
Sarà questo quello che sta germinando in questi giorni? E’ difficile dirlo, ma ci sono segni inequivocabili che i potenti dispositivi smobilizzatori e conformisti del feticismo della merce hanno smesso di funzionare. Il capitalismo e la democrazia liberale sono una gigantesca truffa, e questa convinzione si è fatta dolorosamente carne nei popoli di Grecia, Spagna, Islanda e comincia a diffondersi in altre regioni del mondo sviluppato, oltre che nel Nord dell’Africa e in Medio Oriente. Questa certezza l’avevamo già in America Latina, ma ora prende nuovo respiro perché non si può dire che le proteste di questa parte del mondo – la prima a ribellarsi contro la tirannia del capitale nella sua fase attuale – erano il prodotto del nostro ritardo o della smisurata avidità delle nostre classi dominanti; ora quasi tutto il mondo capitalista è in rivolta perché anche lì si sta applicando la velenosa medicina del FMI, della Banca Mondiale e della Banca Centrale Europea.
E’ troppo presto per sapere se queste proteste avranno la virtù di scatenare la rivoluzione anticapitalista di cui l’umanità ha assolutamente bisogno per sopravvivere. Ma per lo meno sappiamo che d’ora in avanti la storia sarà diversa: che i condannati della terra non vogliono continuare a vivere come prima e che i ricchi cominciano a percepire che non potranno continuare a dominare come prima. Sono condizioni necessarie – anche se non sufficienti – per una rivoluzione, il che non è poco. Più presto che tardi la storia farà conoscere il suo verdetto.

(*) Politologo argentino

(1) Scrittore e giornalista spagnolo

(traduzione di Daniela Trollio

Centro di Iniziativa Proletaria “G.Tagarelli”

Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni)

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