domenica 28 agosto 2011

La burocrazia Cgil costretta a proclamare lo sciopero generale

Fabiana Stefanoni - Partito di Alternativa Comunista 


Dopo aver lasciato, per un’intera estate, alla presidente di Confindustria Emma Marcegaglia il ruolo di portavoce unico delle cosiddette “parti sociali” (espressione con cui ci si riferisce a Confindustria e sindacati, portatori di un presunto interesse comune di padroni e operai), dopo aver siglato il 27 giugno il putrido accordo tra le direzioni di Cgil, Cisl, Uil e Confindustria , la Camusso ha infine proclamato per il 6 settembre uno sciopero generale di otto ore.
La notizia non dovrebbe destare stupore: in tutta Europa – dalla Spagna al Portogallo, dalla Grecia alla Francia – da due anni si susseguono scioperi generali contro le misure adottate dai governi borghesi (di centrodestra e centrosinistra) per scaricare la crisi sulle spalle dei lavoratori, delle giovani generazioni, dei precari, degli immigrati. Eppure, la proclamazione dello sciopero generale da parte della Cgil è, in effetti, una novità: per quasi tre anni, fino allo scorso 6 maggio, la principale confederazione sindacale italiana si è rifiutata di indire uno sciopero generale. Ora, a distanza di tre mesi, è la volta di un nuovo sciopero generale. In realtà, è uno sciopero che per la burocrazia Cgil rappresenta al contempo l’ammissione di una sconfitta (l’accordo del 28 giugno si è rivelato un boomerang per il sindacato, aprendo la strada alle manovre di Sacconi, Tremonti e Berlusconi che hanno colto la palla al balzo per ridurre ulteriormente il ruolo della Cgil nella contrattazione) e il tentativo di rientrare nel gioco. 
 
L’accordo del 28 giugno e il ruolo della burocrazia Cgil
L’accordo del 28 giugno non è, come cercano di far credere i dirigenti della sinistra Cgil (a partire dai vertici della Fiom Landini, Airaudo, Cremaschi), un incidente di percorso. L’immagine della Marcegaglia, della Camusso, di Angeletti e Bonanni che si stringono le mani come i quattro moschettieri condensa il senso stesso dell’agire della burocrazia Cgil: lo scopo era e rimane quello di tornare al tavolo della concertazione, per svolgere un ruolo prezioso per il padronato italiano, quello di becchino delle lotte. La Marcegaglia e i settori maggioritari del padronato italiano hanno ben compreso l’importanza del coinvolgere la burocrazia Cgil nel massacro in corso: un patto con la più grande confederazione sindacale, in tempi di prepotente ascesa delle lotte in tutta Europa, può garantire al padronato ancora qualche speranza di arginare l’esplosione della mobilitazione di massa nel nostro Paese. Non ci stupiamo, quindi, che la stessa Marcegaglia – nominata portavoce unico del patto infame tra Cgil, Cisl, Uil e Confindustria – abbia pochi giorni fa chiesto proprio di “non isolare la Cgil” e dichiari anche oggi, all’indomani dell’indizione dello sciopero, di tenere molto a “mantenere rapporti forti, solidi e duraturi con tutti i sindacati che hanno firmato l’accordo del 28 giugno” (si veda l’intervista del 24 giugno su la Repubblica).
Ma il governo Berlusconi, ormai invischiato nelle proprie contraddizioni e avviato a larghi passi verso il declino, gioca una partita a sé: la decisione di far saltare l’accordo tra sindacati e Confindustria forzando sul contratto nazionale dimostra che esiste uno scollamento tra la maggioranza della grande borghesia industriale, di cui la Marcegaglia è portavoce, e alcuni settori del mondo della finanza e delle banche, su cui Tremonti e Berlusconi oggi ripongono le loro ultime speranze. E’, quindi, nella competizione tra settori del padronato che va inquadrato il ruolo della burocrazia Cgil: gli accordi del 28 giugno hanno rappresentato un patto tra sindacati e quei settori (maggioritari) della grande borghesia che non si riconoscono più in Berlusconi e che puntano a un cambio di governo (preferibilmente un governo tecnico per evitare le elezioni, altrimenti un governo di centrosinistra).
Senza questa premessa, difficilmente si comprenderebbe che differenza passi tra l’accordo del 28 giugno (che prevedeva lo smantellamento del contratto nazionale e la limitazione del diritto di sciopero previa l’approvazione tramite referendum truffaldini) e la proposta di Sacconi (che prevede la stessa cosa, senza referendum). In realtà, la burocrazia Cgil ha letto tra le righe del decreto ciò che a essa interessa: che questo governo non ha interesse a tornare alla concertazione e preferisce forzare la mano. Il motivo per cui la Camusso, dopo aver affondato la testa nel fango a fine giugno, ha deciso di rialzarla chiamando i lavoratori allo sciopero generale, può essere così efficacemente riassunto: dimostrare al governo che in questa fase gli conviene riassumere la Cgil nel gioco concertativo.
 
La piattaforma e le modalità di indizione dello sciopero
La piattaforma dello sciopero generale Cgil è una conferma di quanto diciamo. E’ una piattaforma che ricalca, grossomodo, la cosiddetta “contromanovra” del Pd (la cui maggioranza dirigente, se escludiamo la componente ex-Margherita, sosterrà, non senza qualche timore di esplosione sociale, lo sciopero). La Cgil chiede lo stralcio di alcuni punti della manovra, ma allo stesso tempo propone una ricetta “per uscire dalla crisi” che non mette minimamente in discussione gli interessi di fondo e i privilegi della grande borghesia italiana. Tanto per fare qualche esempio: si accetta il pagamento del debito come necessità ineludibile, chiedendo solo l’allungamento di due anni della decorrenza dei vincoli di bilancio; si chiede l’emissione immediata di Eurobond, come se questo offrisse qualche vantaggio ai lavoratori; si rivendica il federalismo; si insiste sul ruolo fondamentale dei fondi pensioni, definiti addirittura come una risorsa strategica (forse perché l’apparato Cgil ha molti interessi economici nella gestione degli stessi?); si approva il taglio alle spese dei ministeri; si chiedono maggiori incentivi pubblici per le imprese; addirittura, si chiede un potenziamento dell’apprendistato (cioè di contratti da fame per i giovani lavoratori) con incentivi alle industrie che ne fanno uso. Se escludiamo qualche rivendicazione di facciata a difesa dei cosiddetti “beni comuni” e la richiesta di una tassazione delle “grandi ricchezze” e dei “grandi immobili”, la piattaforma della Cgil ben poco toglie alla classe padronale.
Un discorso simile va fatto, ancora una volta, sulle modalità di indizione dello sciopero. Come dimostrano le lotte che stanno solcando l’Europa in questi mesi, anche uno sciopero su piattaforma concertativa, come lo sciopero del 6 settembre, può diventare l’occasione di un’esplosione sociale. Mai come ora, l’indizione di una grande manifestazione a Roma avrebbe permesso di assediare i palazzi del potere borghese, mettendo in seria difficoltà il governo. Ma non è questo che vuole la burocrazia Cgil, che fa la voce grossa solo per reclamare un po’ di attenzioni e tornare a ricevere morbide carezze da governo e padronato: per questo, ancora una volta, le manifestazioni saranno territoriali, divise provincia per provincia, sempre per non disturbare troppo.
 
Il sindacalismo di base: un primo, insufficiente, passo avanti
Le organizzazioni del sindacalismo di base (che inizialmente si erano limitati a proclamare scioperi inutili di due ore nel pubblico impiego e di quattro ore nei trasporti, tra l’altro in date diverse: è il caso di Usb) hanno già deciso di indire un loro sciopero lo stesso giorno dello sciopero generale della Camusso. Si tratta di una scelta, finalmente, in controtendenza rispetto all’usuale propensione settaria e autoproclamatoria delle direzioni dei sindacati di base. Fino ad oggi, ad esempio, la direzione di Usb ha sempre rivendicato con fermezza l’impossibilità di convergere sugli scioperi Cgil e persino, talvolta, degli altri sindacati di base, al punto da accanirsi contro la minoranza interna (Unire le lotte – Area Classista Usb, che ha dato battaglia contro il settarismo nella questione degli scioperi) fino ad espellere con motivi pretestuosi la sottoscritta (coordinatrice dell’area) proprio all’indomani dell’adesione dell’area a uno sciopero di altri sindacati.
Ma, anche in questo caso, c’è il rischio che non si riesca ad organizzare una risposta all’altezza dell’attacco in corso: i sindacati di base che fino ad oggi hanno proclamato lo sciopero (Usb, Cub, Slai Cobas, Si.Cobas, Usi, Snater, ecc.) hanno deciso, a loro volta, di organizzare manifestazioni territoriali, per di più separate da quelle della Cgil: un modo per parlare a pochi intimi anziché intercettare le masse lavoratrici. Hanno inoltre presentato piattaforme rivendicative che, benché siano più avanzate di quella della Cgil, paiono essenzialmente rivolgersi contro la speculazione, la finanza e l’evasione fiscale, non cogliendo la necessità di sferrare l’attacco al capitalismo nel suo complesso.
Ciò che manca, sul fronte sindacale a sinistra della Camusso, è una piattaforma transitoria, che sia basata sulla parola d’ordine dell’esproprio (sotto controllo operaio) della grande industria. Più in generale, le cosiddette sinistre sindacali annaspano in piattaforme riformiste in tempi in cui spazi di riformismo non esistono più. Si propone una politica esitante, centrata su un generico antiliberismo, sulla sola lotta alla “speculazione” e all’“evasione fiscale”, proprio nel momento in cui non bisogna esitare, ma andare all’attacco del capitalismo in tutte le sue espressioni: l’iniziativa che l’area di Cremaschi in Cgil ha lanciato per inizio ottobre insieme a dirigenti di alcuni sindacati di base e alle organizzazioni politiche riformiste e centriste (settori di Rifondazione, Sinistra Critica, Pcl e altri piccoli gruppi stalinisti come la Rete dei comunisti e i Carc) rappresenta il più emblematico condensato di questa politica (come dimostra, del resto, il ruolo esercitato anche dalla stessa area cremaschiana nel sostegno agli ammortizzatori sociali, usati dal padronato come il principale strumento di contenimento del conflitto sociale da quando è esplosa la crisi economica nel 2007).
 
Partecipare allo sciopero generale: ma per trasformarlo in qualcosa di diverso
Come ci hanno insegnato le rivoluzioni arabe, in un contesto economico e sociale segnato dall’acuta crisi del capitalismo basta una scintilla per dare il via a movimenti rivoluzionari in grado di rovesciare persino regimi secolari. Ora il vento rivoluzionario sta attraversando l’Europa: dalla Spagna al Portogallo, dalla Grecia all’Inghilterra, gli eventi degli ultimi mesi dimostrano che la crisi del sistema economico, come sempre nella storia, ridà fiato alle lotte di massa. L’Italia è il fanalino di coda, anche grazie al fatto che il più grande sindacato di casa nostra, la Cgil, ha finora solo finto di chiamare i lavoratori alla lotta. Oggi, allora, è necessario aderire allo sciopero generale: ma per farne l'inizio di una stagione di lotte di massa anche nel nostro Paese. Perché ciò avvenga occorre trasformare quello sciopero in una mobilitazione ad oltranza con la costruzione di comitati di lotta in ogni città e luogo di lavoro, in un percorso che sfoci in un grande sciopero prolungato fino a piegare governo e padronato. Per questo, Alternativa Comunista sarà in piazza il 6 settembre, con una piattaforma anticapitalista e socialista. 

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