Da dodici anni il 25 novembre si celebra in tutto il mondo. Ma in Italia la violenza di genere è in aumento e non viene contrastato in modo efficace: ora addirittura abolito il ministero delle Pari Opportunità
Il 13 luglio di quest’anno il Tribunale di Belluno ha pronunciato una sentenza di condanna a due anni con la sospensione condizionale della pena, riconoscendo le attuanti a un uomo che aveva compiuto uno stupro minacciando la vittima con un’ascia. Al Pm, che aveva chiesto 7 anni per l’imputato, il giudice ha obiettato che: “La donna, del resto, era consapevole del debole che il... nutriva per lei; è la stessa ad aver riferito in aula che il… già da tempo, si era mostrato galante nei suoi confronti. Pertanto, sotto il profilo della concreta offesa arrecata, si deve desumere che verosimilmente vi fu all’inizio dell’incontro una accettazione da parte della donna della possibilità che la situazione con il... potesse andare oltre”. Parole che oggi fanno sorgere una domanda soltanto: a cosa è servito celebrare ogni anno, dal 1999 in poi, la data del 25 novembre come Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne con cui le Nazioni Unite invitano i governi a combattere il fenomeno?
La violenza tocca, in diversi modi e in diverse fasi della vita, ogni donna. Si va dalla violenza fisica a quella sessuale, psicologica, economica, non solo da parte di uomini ma anche di autorità, istituzioni, a scuola, al lavoro. Un elemento trasversale che ha alla base un fattore: la discriminazione, che attecchisce dove non ci sia nessun bilanciamento di potere tra uomini e donne, ovvero ovunque. È per questo che nel mondo una donna su tre vive una forma di violenza, che la prima causa di morte o invalidità per donne tra i 16 e i 44 anni sono le violenze subite, che nel mondo 140 milioni di donne hanno subito qualche forma di violenza, che ogni anno vengono stuprate 150 milioni di bambine, che in Italia ci sono quasi 7 milioni di donne che tra i 16 e i 70 anni hanno subito nella vita almeno un tipo di violenza (e il 78,7% di loro più di una volta) e che i feminicidi accertati negli ultimi cinque anni nel nostro paese sono 651, con un picco di 127 nel 2010 e 92 nei primi nove mesi di quest’anno.
Numeri da capogiro di fronte ai quali l’Italia offre, alle donne che fuggono da un incubo, solo 500 posti letto invece dei 5.700 richiesti dal Consiglio d’Europa, e dove il neo presidente del consiglio Mario Monti ha delegato il ministero delle Pari Opportunità alla ministra del Welfare Elsa Fornero, che pur essendo una donna avrà già un bel da fare per quel che riguarda le questioni del Lavoro. “La preoccupazione che il ministero delle Pari Opportunità non sia più autonomo c’è” – dice l’avvocata Titti Carrano, presidente dell’associazione D.i.Re che gestisce parte dei centri antiviolenza in Italia e che ha chiesto a gran voce la firma della Convenzione Europea per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne firmata già da 16 paesi europei – “anche perché bisogna riconoscere che l’ultimo atto del precedente ministero è stato quello di fare i bandi per il finanziamento di 10 milioni di euro stanziati per il rafforzamento dei centri antiviolenza esistenti e la nascita di nuovi. Per noi l’augurio è che la ministra Fornero prosegua su questa linea, che venga riconosciuto il lavoro dei centri antiviolenza e il loro valore a livello politico e sociale. Naturalmente servono misure efficaci anche da parte degli enti locali, che devono assicurare un finanziamento costante per l’attività di sostegno alle donne”.
Quello che sta succedendo per esempio a Napoli ha dell’incredibile perché se in Italia ci si lamenta sempre che i soldi non ci sono, questa volta i soldi – europei – ci sono ma rischiano di tornare indietro per la negligenza della Regione Campania, che su 13 progetti già approvati per il piano strategico delle Pari Opportunità a Napoli, ha sbloccato l’erogazione solo per 4 lasciando fuori i rimanenti 9, tra cui appunto quelli dei Centri antiviolenza, che pur essendo stati approvati rischiano ora di non essere attuati. “Il presidente della Regione, Caldoro, non ci ha neanche ricevute” – dice Clara Pappalardo della Rete Antiviolenza di Napoli – “e si tratta di quasi 10 milioni di euro che devono solo essere erogati e dei quali noi, per il Centro antiviolenza e la Casa rifugio, dobbiamo avere un milione che ci serve per i prossimi tre anni di vita. Qui nella provincia di Napoli sono morte tre donne a seguito di violenza in un solo mese: come facciamo a intervenire a sostegno delle donne se dobbiamo chiudere perché la Regione non sblocca i soldi già stanziati? L’unico che ci ha ricevute e ci ha ascoltate è stato il sindaco De Magistris che non solo si è impegnato a recuperare questi fondi, ma ha garantito che nella seduta del 25 novembre, che sarà monotematica sulla violenza, porterà il caso al Consiglio comunale”.
Le donne italiane che subiscono violenza sono aumentate ma sono soprattutto quelle in casa a correre i rischi maggiori: quest’anno a Palermo e provincia su 562 donne che si sono rivolte al centro “Le onde onlus”, la maggior parte erano madri con un’età compresa tra 31 e 40 anni, che nel 94% dei casi subiva violenze all’interno della famiglia; mentre da gennaio ad agosto 2011 in Trentino, secondo l’Osservatorio provinciale, su 213 casi di violenza 114 erano da parte di mariti, 33 da ex-partner e 33 da conviventi. In Italia il 96% dei feminicidi avviene da parte di familiari o ex partner.
Un fenomeno fatto di isolamento forzato, minacce, accuse ingiustificate, giudizi degradanti, che creano un ambiente intriso di paura, chiuso nel silenzio delle mura domestiche, che dà alla donna la convinzione che la sua situazione sia senza speranza, donne che quando riescono a denunciare il loro torturatore, si trovano costrette anche a giustificarsi con il rischio di diventare complici o artefici del loro triste destino, per incompetenza di operatori di giustizia e psicologi. “Una donna che subisce violenza familiare pensa sempre alla sopravvivenza sua e soprattutto dei bambini, e tenta di evitare le violenze più gravi, sopportando il logorio di continue minacce contro di lei, i suoi figli e i suoi cari – spiega Elvira Reale che dirige il Centro clinico sul maltrattamento delle donne presso la U.O. di Psicologia Clinica di Napoli – e come ogni tortura anche questa produce una modifica dell’assetto di personalità che arriva a cambiare il modo di essere: un lavaggio del cervello pari a quello fatto sui prigionieri di guerra”.
Elvira Reale nel suo ultimo libro, “Maltrattamento e violenza sulle donne” (Franco Angeli, 2011), basato sull’esperienza dello sportello antiviolenza del pronto soccorso dell’ospedale San Paolo di Napoli, ha elaborato un sistema di valutazione in cui dimostra come le dinamiche che si sviluppano nelle violenze in famiglia siano simili ai metodi di tortura in cui la vittima non riesce a svincolarsi dal suo torturatore: “Gli studi sulle tattiche di lavaggio del cervello utilizzate nella guerra in Corea sui prigionieri americani, dimostrano parallelismi inquietanti con la violenza domestica”. Capire che il percorso di una donna che subisce violenza non è lineare, e quindi che una donna maltrattata può rimanere anni in quella condizione, è fondamentale soprattutto per psicologi e operatori di giustizia. Ancora oggi le consulenze di psicologi e medici richieste dai giudici sono ammantate da pregiudizi e la cosa grave è che questi operatori non si pongono mai il problema che se la vittima dipende dall’abusante, allontanarsene per lei significa subire una minaccia economica, emotiva e fisica, una ragione sufficiente che porta la vittima a percepire la violenza in maniera filtrata e attutita, semplicemente per poter sopravvivere. “Quello che deve essere chiaro anche alle istituzioni – conclude Reale – è che i comportamenti violenti non si spezzano se non con la via giudiziaria: sono reati e vanno trattati come tali. Tutto il resto deve venire dopo, anche un’eventuale ripresa di contatti negoziata su basi diverse: gli uomini devono essere puniti per quello che hanno fatto, assumersi le loro responsabilità, e poi eventualmente accedere a percorsi di recupero. Non c’è niente da fare, è così”.
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