La tempesta della BCE spazza via le alleanze “democratiche”. E ora?
Bastonare il cane che affoga…
In queste settimane abbiamo potuto constatare con attenzione l’evoluzione del dibattito congressuale di Rifondazione Comunista e del PdCI.
Gli esiti di questi congressi ci hanno visto parte “interessata”, perché siamo fermamente convinti che per poter ricomporre la diaspora verso la ricostruzione di un partito comunista degno di questo nome oggi nessuno è autosufficiente e ogni energia disponibile è importante. D’altra parte ci siamo sempre distinti per non cercare di perseguire questo obiettivo con nuove “microscissioni” e crediamo fermamente che vada ricucito innanzitutto il dibattito e la strategia politica tra i comunisti ovunque oggi organizzativamente collocati. Pensiamo, infatti, che ci siano oggi troppi partiti comunisti e non troppo pochi da pensare di risolvere il problema con la costruzione dell’ennesimo.
Per quanto riguarda il congresso di Rifondazione abbiamo sostenuto apertamente l’ipotesi politica, tra quelle che si sono confrontate, più in sintonia coi temi che poniamo da mesi al centro del dibattito nel movimento comunista: la terza mozione. Questa area di dibattito politico, senza i mezzi organizzativi delle correnti storiche e in maniera totalmente autoconvocata, ha raggiunto un risultato più che dignitoso e soprattutto ha dimostrato che esiste ancora lo spazio anche in quel partito per sostenere un processo di riaggregazione dei comunisti fuori dalle alleanze governiste col centrosinistra e fuori dalle compatibilità imposte dal capitalismo.
Con moltissime di queste compagne e compagni abbiamo lanciato a Livorno, all’inizio di questo anno, un laboratorio politico unitario che dovrà occuparsi di collegare questo spazio anche all’esterno del PRC e di rafforzarlo ulteriormente all’interno.
La posizione che si è affermata al congresso tuttavia merita qualche riflessione.
Nel PRC vi è da Chianciano un’ampia ma composita maggioranza (formata dalla convergenza di almeno 4 anime differenti) che ha presentato al congresso di Napoli una mozione incentrata sulla “alleanza democratica” con il PD; l’unica cosa sulla quale, probabilmente, questo gruppo dirigente è oggi unito sia al suo interno che col gruppo dirigente del PdCI.
Individuando come contraddizione principale il pericolo del “fascismo” berlusconiano, si trattava di sacrificare ancora una volta l’autonomia e mettere in piedi, per la terza volta dopo il fallimento della partecipazione ai due governi Prodi e in condizioni oggettive ancora più difficili, una sorta di nuovo CLN.
Negli anni passati, questa linea politica – presentata come obbligata per parlare alle larghe masse lavoratrici, assecondando la propensione al “voto utile” in un contesto bloccato dal sistema politico bipolare – aveva già portato i comunisti sotto il 2%. E questo, a nostro avviso, anche perché i comunisti in parlamento si erano dimostrati incapaci di incidere sulle scelte concrete dei governi di centrosinistra e di offrire uno sbocco credibile alle istanze del vecchio e del nuovo mondo del lavoro, non ottenendo per esso nessun risultato concreto e nessun avanzamento nei rapporti di forza nei confronti del padronato. Anzi non riuscendo a impedire neanche una delle controriforme che le classi dominanti hanno fatto passare in questi anni, oltre che per mano di Berlusconi, anche grazie ai governi di centrosinistra (guerre, precarietà, scippo del TFR, leggi discriminatorie nei confronti degli immigrati, smantellamento dell’istruzione pubblica, privatizzazioni).
Al di là di alcune autocritiche dell’attuale segretario del PRC su quell’esperienza politica, cosa sicuramente da rimarcare, con il rilancio di una “alleanza democratica” col PD sembra mancare la capacità di trarre le conseguenze dagli insegnamenti di questo recente passato e di sviluppare un’adeguata analisi della fase e dei suoi drammatici rapporti di forza.
Ecco però che arriva in soccorso del PRC la dura realtà: nemmeno il tempo di aprire il dibattito congressuale e la mozione Ferrero-Grassi diventava obsoleta, perché il colpo di Stato della Commissione europea e della Bce, con la sponda del presidente della Repubblica Napolitano, dopo aver creato uno stato d’eccezione finanziario e aver messo a rischio i risparmi e i mutui di milioni e milioni di cittadini, abbatteva il Cavaliere per insediare Mario Monti. Questo con l’obiettivo esplicito di attuare quei provvedimenti neoliberisti (in primis la controriforma delle pensioni e a breve la libertà di licenziamento) che né Berlusconi, né qualsiasi altro governo “politico” avrebbe probabilmente potuto realizzare in Italia. Quei provvedimenti, cioè, volti a tamponare temporaneamente la crisi di accumulazione del capitale tramite un ulteriore trasferimento di reddito dalle classi subalterne a quelle dominanti.
In un sol colpo il capitalismo finanziario ha demolito le architravi politiche della strategia principale che i gruppi dirigenti di PRC e PdCI avevano pensato per rilanciare il ruolo dei comunisti, oggi purtroppo molto marginale. Svanito Berlusconi e la conseguente prospettiva del governo di centrosinistra e, soprattutto, svanita la prospettiva di salvare la democrazia mediante l’alleanza con un partito, il PD, che invece sta contribuendo pesantemente a metterla in soffitta.
In realtà, che la prospettiva fosse questa, e che l’anomalia Berlusconi fosse ormai inservibile, era piuttosto chiaro già dopo il fallimento della spallata al governo del 14 dicembre 2010. Al di là della fragile tenuta temporanea del ducetto di Arcore mediante la compravendita di parlamentari, i segnali erano chiari. I cosiddetti “poteri forti” stavano pensando da tempo a un cambio di strategia utilizzando come scusa gli scandali personali del decadente presidente del Consiglio. Confindustria lo aveva cominciato a scaricare, la trojka UE-BCE-FMI lo teneva nel mirino da tempo, il Vaticano non lo sosteneva più. Questo, insieme alle difficoltà economiche e alla crescita di malessere sociale nel paese, ha provocato uno sgretolamento del suo blocco di riferimento evidenziato prima dall’abbandono dei fascio-futuristi di Fini e poi con la ripresa delle bizze e dei distinguo della Lega.
Ciò nonostante, la grande maggioranza dei dirigenti di PRC e PdCI consideravano che mantenere un rapporto di comunicazione con il PD, e realizzare con questo partito un’alleanza elettorale per tornare in parlamento, fosse un obiettivo talmente vitale da non favorire un’attenta e spassionata analisi di quanto stava avvenendo sul piano politico-economico.
Il giubilo nazionale seguito alla caduta del governo Berlusconi, da questo punto di vista, si è rivelato effimero: con buona pace dell’anti-berlusconismo volgare, al pericoloso quanto goffo parvenu che non sapeva tenere in mano coltello e forchetta sarebbero subito succeduti i ben più raffinati squali della finanza e delle banche, con il solo scopo di incrementare la redistribuzione della ricchezza verso l’alto e di condurre con maggiore efficacia il conflitto di classe della borghesia proprietaria, dedita alla faticosa incombenza del taglio delle cedole, contro il lavoro dipendente e parasubordinato. In questo mutato contesto, il PRC ha riaggiustato la linea in corsa, dichiarando la propria opposizione al governo Monti ed esprimendo un certo disappunto verso il PD che ha fatto saltare l’ipotesi di nuove elezioni e di possibili alleanze elettorali a sinistra.
Le ipotesi di “Costituente dei beni comuni” e il sostegno, fortemente voluto soprattutto dalla base, al movimento “No Debito” lanciato da Cremaschi possono essere una buona piattaforma di rilancio se non le si relegano nell’alveo delle eccentricità alle quali Rifondazione ci ha abituato dai tempi di Bertinotti senza che avessero conseguenze pratiche.
Quello che in realtà conterà sarà la nuova collocazione politica del partito. Prevarrà lo spostamento deciso verso l’ipotesi di costruzione di un polo alternativo all’intero sistema bipolare con altre forze comuniste ed anticapitaliste? Oppure prevarrà una linea di galleggiamento nell’attesa della fine della nuova “anomalia” Monti per poi riproporsi alleati al PD?
Una collocazione, ovviamente, che andrà verificata alla prova dei fatti anche perché la geografia politica e sociale nel paese potrebbe mutare profondamente dopo mesi di dittatura finanziaria e massacro sociale. Certo che le prime dichiarazione di alcuni dei massimi dirigenti del PRC, che già formulano la necessità di tenere comunque la “porta socchiusa” al PD, per il futuro non fanno ben sperare. Ma staremo a vedere.
Ma la fortuna tempistica toccata in sorte al PRC non ha favorito invece il PdCI che al momento delle dimissioni di Berlusconi il suo congresso lo aveva appena chiuso da qualche giorno. Non è sufficiente abbracciare il feticcio dell’unità dei comunisti. Anche qui, il vero argomento del congresso è stato, e per gli stessi motivi del PRC, la disperata ricerca dell’alleanza con il PD.
Un obiettivo perseguito con ossessività e a dispetto della funzione politica sistemica e dell’orizzonte strategico del gruppo dirigente di questo partito. E perseguito anche a rischio di vanificare quanto di indubbiamente buono sul piano della politica culturale e della politica estera il PdCI – caso unico in Italia, bisogna ammetterlo – è stato in grado di fare in questi anni di difficile resistenza.
La sostanza politica che ha lasciato più di una perplessità è quella delle dichiarazioni pubbliche di “affidabilità” e di disponibilità a sostenere un eventuale governo di centrosinistra per l’intero mandato, anche mettendo in conto che questo eventuale esecutivo di centrosinistra avrebbe preso provvedimenti di natura antipopolare. E tutto questo – vista l’improbabilità di una reale svolta a sinistra del paese – come amara medicina in nome della salvezza della democrazia dal pericolo rappresentato da Berlusconi e dalle destre.
Sembra che il PdCI, a differenza del PRC, stenti ancora a modificare la propria linea politica rispetto alla questione delle alleanze persino di fronte alle rotture più evidenti e al “vulnus” di democrazia provocato dal golpe della BCE con l’instaurazione del governo Monti sostenuto con convinzione anche dal PD di Bersani.
Quello che stupisce di più è che non si sia opposta a questa linea politica, che tiene aperta la porta nei confronti del PD anche a dispetto dei santi, chi è entrato nel PdCI dopo aver condotto all’interno del PRC una battaglia collocata a sinistra, una battaglia che – come sarebbe possibile dimostrare testi alla mano – aveva contestato con durezza il “governismo” e l’“opportunismo” di destra dell’allora gruppo dirigente bertinottiano.
Ecco allora che al CLN antiberlusconiano si sostituisce d’un tratto l’evocazione di un “ampio arco di forze di sinistra, democratiche e sindacali in grado di resistere all’attacco antisociale, rilanciando un’alternativa al polo neodemocristiano che rischia di trovare la propria incubazione nel governo Monti”. Una sorta di CLN antibocconiano, si direbbe, visto che – come viene ammesso – la nascita del nuovo governo “ha già fatto virare la barra politica generale a destra”.
Quindi fino a ieri eravamo di fronte a una sorta di fascismo postmoderno guidato da Berlusconi, la cui pericolosità eversiva ci poneva di fronte alla necessità di allearci “anche con il diavolo”, rappresentato da un PD social-liberista e filo-confindustriale. E oggi si dichiara che Berlusconi è stato messo nel cassetto da un esecutivo che congela la democrazia e sposta l’asse politico ancora più a destra con il sostegno deciso anche del PD!
Ma se questo spostamento a destra è reale, (e lo è), non si capisce quindi perché ci si vuole allora contrapporre alla “parola d’ordine – qui ed ora – troppo rigida, adialettica, che non tiene conto delle contraddizioni reali e positive già emerse all’interno del centro sinistra”, e cioè a chi vorrebbe lavorare per la costruzione di un polo dei comunisti e della sinistra anticapitalista che sia autonomo dal PD e indisponibile ad alleanze fatte a prescindere dai contenuti e da un programma minimo di classe.
Il PD costituisce un puntello fondamentale del governo Monti. Il governo Monti, anzi, non sarebbe mai nato senza la presenza di questo partito e senza il ruolo di direttore d’orchestra di un suo esponente storico: il Presidente della Repubblica Napolitano. Così come sarebbe in difficoltà a sinistra già con questa prima manovra finanziaria che ha spinto a una (seppur ancora timida) reazione di protesta la Cgil e persino Di Pietro, prontamente rimbrottato e minacciato da Bersani.
Il PD, al di là di alcune dichiarazioni di facciata, approverà la manovra economica e si renderà responsabile di una serie di provvedimenti antipopolari quali mai si sono visti nel nostro paese.
Questo fatto, di conseguenza, costituisce oggettivamente una rottura che renderà impraticabile ogni ipotesi frontista, perché è difficile immaginare che si possa realizzare un’alleanza “democratica” proprio con chi ha consentito che il golpe neoliberista avesse luogo.
Non siamo così ingenui da non capire che in questa avventura il PD, che aveva di fronte a sé la prospettiva di una probabile vittoria elettorale, è stato trascinato obtorto collo. O meglio: che vi è stato trascinato dallo scontro tra settori della borghesia travolta dalla crisi e dal conseguente duro conflitto che al suo interno si sta svolgendo. E comprendiamo bene che per questo partito l’esperienza Monti potrebbe essere un suicidio.
Quella parte del PD che guarda ancora al sindacato e al mondo del lavoro, e che è stata messa sotto scacco da Napolitano e dalla tendenza liberal (ma anche dalla corrente di D’Alema), pensa di reggere il colpo facendo un po’ di equilibrismo per un anno e mezzo e di rimediare alla situazione dopo le prossime elezioni. Ma questo ragionamento si potrebbe rivelare una pia illusione visto che questo governo rischia di essere “costituente” di una nuova fase della politica e che probabilmente è impensabile pensare che se ne uscirà con la medesima geografia politica con cui vi siamo entrati.
Anche il modo in cui guardano al mondo del lavoro i vari “laburisti” del PD alla Fassina e Marino (sostenitori della concertazione, della flexsecurity e della controriforma dello Statuto dei Lavoratori) è ovviamente diametralmente opposto a quello con cui dovrebbero guardarlo i comunisti. Ma soprattutto abbiamo già visto all’opera questo modo di ragionare: prima il risanamento, poi lo sviluppo e la redistribuzione; per ora “ingoiamo il rospo”, poi raddrizzeremo la barca. E’ un sillogismo che non funziona, perché nella situazione data di una profonda crisi di sovrapproduzuione non esistono margini di riformismo che un partito possa praticare con palliativi e concessioni agli strati sociali meno abbienti. E questo non perché siamo in presenza di una situazione pre-rivoluzionaria ma, al contrario, perché il capitale non ha oggi il “surplus” da redistribuire ed è anzi in preda a una feroce guerra internazionale tra potenze e frazioni della borghesia per accaparrarsi fette dei profitti una a danno delle altre. Questa crisi profondissima obbliga il capitalismo a sviluppare la competizione abbassando sempre più il costo del lavoro.
Questa constatazione valeva già prima del governo Monti e inficiava sin dall’inizio l’ipotesi alleantista e concertativa mostrandola per quella che è: una finzione strumentale. Nessun governo di ricostruzione democratica o di inversione di tendenza sarebbe stato possibile, anche in caso di elezioni. Tutt’al più, sarebbe nato un governo di “liberismo temperato” e di “riduzione del danno”, nel quale nessun comunista avrebbe potuto sperare in alcun modo di utilizzare una pattuglia parlamentare per rilanciare un partito comunista in Italia. Al contrario, sarebbero stati stritolati, dopo essere stati costretti a votare i peggiori provvedimenti, a partire dai crediti di guerra, esattamente come è già avvenuto nel recente passato. E questo avrebbe creato ancora più sconcerto e scollamento nei confronti dei propri naturali referenti di classe, alimentando ulteriormente la frammentazione nel movimento comunista, allontanando di fatto ancora di più qualsiasi possibilità di riconquista del ruolo e dell’internità dei comunisti nel conflitto politico e sociale del paese.
A questa considerazione più strutturale bisogna aggiungerne un’altra di natura più immediatamente politica. Finita l’ubriacatura generale per l’avvenuta “salvezza” del paese, è probabile che il PD potrebbe soffrire la contraddizione tra le istanze della propria base sociale, ancora radicata nel lavoro dipendente, e l’appoggio alle misure neoliberiste del governo. E’ possibile che questo partito ne esca ancora più mutato in senso liberale di quanto non sia adesso, e che la partita interna si risolva a favore dei liberaldemocratici piuttosto che dei cosiddetti “laburisti”, anche per una parziale modifica dell’elettorato di riferimento. E’ anche possibile che questo partito non regga e si spezzi in due tronconi. Ma è in ogni caso estremamente probabile che il PD dovrà scontare una crisi e un calo di consenso. Anzi, diciamo pure che ciò è auspicabile dal punto di vista dei comunisti che dovrebbero avere l’obiettivo di porsi al centro dell’opposizione di classe a questo esecutivo e alle sue politiche di massacro sociale.
Di conseguenza, come dicevamo, la geografia politica che ci troveremo di fronte tra un anno e mezzo potrebbe essere profondamente mutata, sempre “se” si tornerà subito a un periodo di normalità “democratica” in cui il sistema di sfruttamento capitalistico si faccia garantire da un comitato d’affari per lo meno costituzionalmente eletto.
Un’eventuale nuova coalizione di centrosinistra alle prossime elezioni politiche pertanto non è nemmeno scontata, col PD che potrebbe allearsi con il Terzo Polo e con l’incognita che il suo approccio servile nei confronti della trojka UE-BCE-FMI non riesca persino a resuscitare Berlusconi. Proprio a queste prospettive guarda non a caso Di Pietro, che comincia a pensare di dover contendere al PD l’elettorato di sinistra contestando apertamente la complicità con Monti nel massacro sociale imminente. Con lo stesso approccio, ma avendo nel mirino il PdL, c’è l’atteggiamento della Lega che si sta dando un profilo di opposizione social-territoriale in chiave regressiva e secessionista. Comunque vada il dato è che siamo di fronte a probabili scomposizioni e ricomposizioni del quadro politico, con una forte spinta alla convergenza verso il centro. In queste condizioni, si aprirà inevitabilmente un ulteriore spazio a sinistra che potrebbe essere conteso tra l’ipotesi di un polo anticapitalista alternativo all’intero quadro bipolare, se come speriamo questo vedrà la luce, e un nuovo rigurgito di antipolitica (che potrebbe occupare l’IDV oppure il movimento neopopulista 5 Stelle). Sempre che non si vada incontro ad avventure autoritarie ancora più pericolose o a rischi di secessione e persino di guerra civile.
Dopo il 2008 troppi comunisti sembrano aver rimosso la loro sconfitta. E sembrano aver cercato di congelare il tempo, come nobili decaduti che non si rassegnano alle improvvise ristrettezze, nell’attesa di rientrare in quel club esclusivo della politica dal quale erano stati ingiustamente, a loro avviso, emarginati. Per questo, tutti i loro sforzi sono stati tesi a garantire tale rientro tramite una politica di alleanze, o meglio di cooptazione. Ed è così che sono stati persi anni preziosi, anni che invece sarebbe stato meglio utilizzare per modificare la linea e l’organizzazione politica adeguandola alla fase in corso. E’ necessario smetterla con l’illusione di scorciatoie che sembrano facili ma che sono impraticabili. Bisogna sottrarsi al ricatto del bipolarismo (e all’illusione di scardinarlo dall’interno) e praticare l’autonomia, il conflitto, l’opposizione più determinata, bastonando a dovere il cane che sta affogando…e cioè il PD.
Preso atto che i comunisti oggi sono sparsi in molte organizzazioni differenti, e che tantissimi sono ormai quelli “senza tessera” disillusi dai percorsi politici che abbiamo attraversato, pensiamo sia sempre più urgente un confronto e un’iniziativa tra tutte le compagne ed i compagni, indipendentemente dalla loro attuale collocazione organizzativa, per dare urgentemente un segnale di “unità utile” alla prospettiva di ricostruzione di un Partito Comunista degno di questo nome e all’altezza dello scontro di classe oggi. E non perché questa scelta assicuri di per sé un successo immediato e improvvisamente attiri le masse rivoluzionarie. Ma perché di fronte ad una crisi di questa portata, che ha travolto la socialdemocrazia e persino il liberalismo democratico, non c’è altra strada che quella - lunga e complicata – di offrire alle classi subalterne vecchie e nuove un riferimento nettamente alternativo.
Questo riferimento si costruisce attorno a un programma minimo di classe che sappia prefigurare un blocco sociale antagonista agli interessi del capitalismo in crisi. Ricostruendo in tal modo un profilo di coerenza e di credibilità che consenta di recuperare consenso. E accumulando forze tali da poter riconquistare autonomamente una visibilità e un ruolo politico oltre che istituzionale e, al momento giusto, incidere nella realtà politica. Solo a quel punto la discussione su quale politica di alleanze e su quale programma politico avrebbe un minimo di praticabilità.
Nessun facile ottimismo propagandistico e nessuna fraseologia rivoluzionaria, dunque. Ma anni e anni – e forse decenni e decenni – di duro lavoro politico e sociale, probabilmente nel discredito generale, senza onori ma con molti oneri. Tuttavia, se questa strada è difficile e con poche probabilità di successo, l’altra, quella consueta della cooptazione dall’alto, conduce al fallimento assicurato.
Comunisti Uniti
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