lunedì 6 febbraio 2012

Il posto fisso delle burocrazie sindacali

Fabiana Stefanoni


Che Mario Monti non avesse alcun’intenzione di dare una prospettiva di lavoro alle nuove generazioni lo avevamo capito da tempo. Le recenti esternazioni sulla “monotonia” del posto fisso sono una fedele fotografia delle politiche economiche e sociali del suo governo: massacrare i lavoratori per preservare gli investimenti dei capitalisti. Ciò che più colpisce delle interviste che il premier rilascia nei salotti televisivi sono i suoi “entusiasmi” per l’abbassamento dello “spread” all’indomani del varo delle ultime manovre finanziarie: in tanti (soprattutto quei lavoratori che si sono visti improvvisamente innalzare fino a quasi settant’anni l’età pensionabile), oltre a non capire esattamente cosa diamine sia questo “spread”, cominciano a rendersi conto che i sacrifici dei lavoratori servono solo per tutelare gli investimenti in borsa della grande industria e delle grandi banche.

Monti: il ligio esecutore dei dettami della troika
Al di là degli specchietti per le allodole, utili per far credere che ci sia qualche discontinuità tra l’attuale esecutivo e il precedente – si pensi ai simbolici blitz della guardia di finanza a Cortina e nei ristoranti milanesi, oppure alla riduzione infinitesimale degli stipendi dei parlamentari – Monti, fin da subito, ha fornito prova di essere un ligio esecutore dei diktat della troika (vale a dire della triade costituita dalla Banca centrale europea, dal Fondo monetario internazionale e dalla Commissione europea). Non solo non sono state messe in discussione le leggi e le misure di Berlusconi – dalla legge di stabilità ai tagli miliardari alla scuola pubblica, dalle privatizzazioni selvagge ai decreti sulla sicurezza – ma, soprattutto, sono arrivate nuove batoste per la classe lavoratrice. A dicembre una manovra finanziaria da trenta miliardi ha peggiorato drasticamente le condizioni di vita delle masse popolari: innalzamento dell’età pensionabile, blocco dell’indicizzazione delle pensioni, imposte sulla casa, aumento dell'Iva, tasse sui carburanti, aumento dell’addizionale regionale, ecc.
A gennaio, i decreti sulle liberalizzazioni hanno colpito soprattutto la piccola borghesia, molti settori della quale hanno conosciuto in questi anni un forte processo di proletarizzazione. In Sicilia e in altre regioni del Sud d’Italia la protesta, con i blocchi delle strade, ha trascinato con sé anche strati di proletariato; lasciando tuttavia spazio all’infiltrazione di elementi fascisti (si pensi ai legami tra alcuni dirigenti del movimento dei Forconi e Forza Nuova). Si tratta di settori che i comunisti devono essere in grado di intercettare, nella consapevolezza che solo se egemonizzati dalle organizzazioni del movimento operaio questi movimenti potranno assumere un carattere progressivo.
Lo stesso decreto sulle liberalizzazioni ha avuto pesanti ripercussioni anche sui lavoratori salariati dei trasporti. Il decreto ha cancellato, nel silenzio pressoché totale delle burocrazie sindacali, l’obbligo del contratto nazionale per il trasporto ferroviario e per il trasporto locale: l’ennesima bastonata per i lavoratori dei trasporti, che in questi mesi hanno visto smantellati i diritti acquisiti in decenni di lotte (smantellamento che va di pari passo con quello del servizio ferroviario: paralizzato in queste ore da qualche centimetro di neve).
 
Smantellamento dell’articolo 18: il ruolo delle burocrazie sindacali
Se i giovani, ma anche i meno giovani, possono scordarsi per sempre un “noioso” posto fisso, il posto delle burocrazie sindacali di Cgil, Cisl e Uil è invece sempre lo stesso: quello al tavolo della concertazione. Proprio in questi giorni sono in corso incontri tra i rappresentanti degli apparati sindacali di Cgil, Cisl e Uil (ormai vere e proprie aziende a tutela dei propri affari), Confindustria e la ministra Fornero. Cgil, Cisl e Uil annunciano di essere disposti a “ragionare” insieme con la Marcegaglia per presentare al governo una proposta comune sui contratti.
E’ la riproposizione del film già visto l’anno scorso a fine giugno, quando Camusso, Epifani e Angeletti hanno lasciato alla Marcegaglia, cioè alla rappresentante dei capitalisti italiani, il ruolo di portavoce unico delle cosiddette “parti sociali” (termine col quale si vuol far credere che esistano interessi comuni di lavoratori e padroni). Allora era ancora il tempo del governo Berlusconi. Oggi a governare c’è Monti e le cose non sono cambiate: l’intento delle burocrazie sindacali è quello di arrivare a un accordo con la Fornero su un probabile “contratto unico d’inserimento” che preveda lo smantellamento dell’articolo 18, con la possibilità per le aziende di licenziare chiunque “per motivi economici”. 
Per capire quanto la Cgil sia determinata a contrastare con la mobilitazione la messa in discussione dell’articolo 18, basta leggere le ultime dichiarazioni della Camusso. Mentre la Fornero affermava di voler confrontarsi coi sindacati ma di essere determinata a “procedere comunque con la revisione dell’articolo 18”, la Camusso, fingendo di non sentire la seconda parte della frase, cioè la parte più importante, ha così commentato: “dobbiamo apprezzare, pur usando condizionali obbligatori, l'intento del governo di voler lavorare per fare un accordo”. Noi pensiamo che non ci sia proprio nulla da apprezzare: se sarà smantellato l’articolo 18, i lavoratori soggiaceranno ad una condizione di ricatto permanente, che renderà ancora più difficile persino la sindacalizzazione sui luoghi di lavoro. Tanto più in una situazione caratterizzata da disoccupazione di massa, privare i lavoratori di quest’elementare tutela rischia di trasformare anche il diritto di sciopero in carta straccia.
 
Quale risposta sindacale?
Se volessimo provare a descrivere con una sola immagine il quadro politico e sindacale dell’ultimo anno, potremmo rappresentarlo con lo scontro tra un esercito dotato d’armi sofisticatissime (quello dei capitalisti e dei loro governi) e un esercito mandato allo sbaraglio a mani nude (quello dei lavoratori e dei loro sindacati). Quello che è mancato, di fronte ai pesantissimi attacchi del governo, di Confindustria e della Fiat è stata una risposta forte, che mirasse ad unificare le tante lotte in corso e a trasformarle in un’azione di sciopero prolungato contro governo e padronato. Mentre Cisl e Uil hanno fatto per anni da stampella al governo Berlusconi, la Cgil si è limitata a scioperi generali di poche ore, trasformati in innocue (e per nulla combattive) passeggiate, senza mettere veramente in difficoltà né il precedente governo né l’attuale. Oggi, mentre Monti rincara persino la dose rispetto al suo predecessore, l’unica cosa che è cambiata è che anche la Cgil si prepara a fare quello che fino a poco tempo fa facevano solo Cisl e Uil: la stampella di un governo delle banche e dei padroni.
Nemmeno il sindacato dei metalmeccanici, la Fiom, nonostante l’opposizione verbale di Landini agli accordi vantaggiosi per il padrone, ha saputo mettere in campo l’azione di sciopero prolungato che sarebbe stata necessaria per respingere l’attacco di Marchionne agli operai del gruppo Fiat. L’imposizione del modello Pomigliano a tutte le aziende del gruppo (dopo l’uscita di Marchionne da Confindustria) ha trovato una resistenza forte solo nello sciopero prolungato degli operai della Ferrari di Maranello. La direzione di Landini, al di là della combattività di molti delegati e operai Fiom, non ha  voluto rilanciare, a partire dallo straordinario risultato del No a Pomigliano e Mirafiori, un’azione di lotta prolungata. Peraltro, le titubanze della direzione Fiom stanno conducendo non solo gli operai della Fiat, ma anche la stessa Fiom, in un vicolo cieco: l’esito inevitabile di questa politica temporeggiatrice è stata la capitolazione di Landini alla possibilità di firmare il nuovo contratto in Fiat.
La storia ci ha insegnato che in congiunture come questa – quando cioè il nemico di classe intende riprendersi, armato fino ai denti, persino le briciole che in passato ha concesso ai lavoratori – una politica esitante, la frammentazione delle lotte, l’incapacità di mettere in campo un’azione di lotta prolungata e incisiva portano solo sconfitte per i lavoratori. E, ogni volta che si subisce una sconfitta, bisogna organizzare una lotta ancora più dura per riguadagnare terreno.
 
La necessità di un sindacato di classe
Ciò che manca in Italia è un sindacato di massa e di classe che sappia difendere gli interessi dei lavoratori attraverso l’organizzazione e l’unificazione delle lotte.
Il sindacalismo non concertativo si trova in una situazione di grossa difficoltà e vive un momento di frammentazione e debolezza. Le nuove generazioni di lavoratori precari, anche e soprattutto per il ricatto cui sono sottoposte, sono scarsamente sindacalizzate. A questo dato oggettivo si aggiunge la miopia di gruppi dirigenti che spesso antepongono la difesa delle proprie rendite di posizione allo sviluppo di un’azione unitaria e incisiva, come è il caso (il più clamoroso) di Usb: un piccolo sindacato che ha un apparato molto burocratizzato e privo di democrazia interna (chi scrive ne sa qualcosa essendo stata espulsa con motivi pretestuosi), disposto a tutto - anche ad apporre la firma a contratti a perdere o a sospendere uno sciopero – pur di preservare i propri microprivilegi. Gli altri sindacati di base (come la Cub o le varie sigle dei Cobas), benché più combattivi o dotati di qualche spazio maggiore di democrazia interna, scontano per ora, esattamente come Usb, uno scarso radicamento nei luoghi di lavoro.
Eppure, nella fase che si apre, con la probabile ascesa delle lotte anche nel nostro Paese – sull’onda del contagio che viene dagli altri Paesi d’Europa, dalla Grecia alla Russia alla Romania – nuovi scenari possono emergere anche in ambito sindacale. E’ lecito prevedere che si avranno fenomeni di rottura di settori di attivisti con gli apparati dei sindacati concertativi. Rotture che, auspichiamo, potranno inaugurare una nuova stagione per il sindacalismo conflittuale e favorire anche in Italia la costruzione di quella direzione sindacale di classe e di massa di cui c’è urgente bisogno. 

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