L'aggressione di massa ai tifosi inglesi in un pub romano è una spedizione punitiva premeditata e organizzata, quindi un gesto politico. Il problema è: di che politica si tratta?
Molti anni fa, dopo una rissa fra tifosi laziali e livornesi, andammo con Sandro Curzi, Silvio Di Francia e altri a cercare di convincere il patron della Lazio, Claudio Lotito, a prendere posizione contro il fascismo che dilaga nelle curve (non solo) laziali. Non capì nemmeno di che parlavamo; noi parlavamo di rifiuto del fascismo, lui continuava a insistere, come tutte le autorità calcistiche e istituzionali, che «la politica» nello stadio non ci doveva entrare.
E invece proprio l'assenza della "politica" lascia il campo a pratiche che esprimono allo stato puro la forma dominante della politica in questi tempi di eclissi della politica: la politica dell'identità. Più la politica "vera" si svuota di contenuti, fra pensiero unico, leaderismi, primarie ad personam, delega dei governabili ai governanti, più quello che conta è solo lo schieramento, l'appartenenza. E allora: quando l'Osservatorio del Viminale ripete il luogo comune secondo cui questi episodi «non hanno niente a che vedere con lo sport» dovremo pure chiederci con che cosa c'entrano, e come mai si addensano comunque attorno agli stadi.
Allo stadio si canta: «Noi siamo i bianco-blu, la Lazio amiamo, la Roma odiamo». Ma se uno gli domanda perché, non te lo sanno dire perché non c'è nessun perché, emozioni senza contenuti. Infatti il tifo ha lo stesso statuto linguistico dei nomi propri: significa solo se stesso. Come "Giuseppe" significa solo "una persona che si chiama Giuseppe", così "tifoso laziale" (o "juventino") significa solo una persona che fa il tifo per la Lazio (o per la Juventus). Non c'è nessuna ragione per fare il tifo per una squadra o per un'altra: è il grado zero dell' appartenza spesso casuale e intercambiabile (e quando qualche ragione c'è, è identitaria anch'essa. Tifi Fiorentina perché sei di Firenze, tifi Lazio - come me - perché mio padre ci giocava: identità al quadrato). Non sono più le antiche scazzottate fra il romanista e il laziale al derby per un rigore o un fuorigioco, ma semplice aggressione dell'altro perché non è "noi". Che poi la politica dell'aggressione identitaria sia più consona alla destra che alla democrazia è solo un corollario di questo stato di cose (guarda caso, il Tottenham è vicino al mondo ebraico): come scriveva qualche giorno fa Marco Lodoli, la forza bruta e l'aggressione a priori diventano il modo primario di affermare la propria esistenza, una forma di comunicazione sempre più diffusa in tutti i rapporti interpersonali. Lo stadio, insomma, parla di tutti.
Infine. Il commento più frequente sulla radio laziali è: non ci crediamo, non possiamo essere stati noi. Ora, l'incredulità è il primo stadio della reazione a un trauma, come quando uno viene a sapere di avere una malattia gravissima (e non riguarda solo i tifosi di calcio: vi ricordate quando cantavamo «Impossibile, un compagno non può averlo fatto», e invece i "compagni" lo facevano eccome). Certo, non sono violenti e fascisti solo i tifosi laziali, è una malattia ormai generalizzata, tanto che pare che i primi arrestati siano ultra romanisti (in questo caso, non sarebbe la prima azione combinata dei fascisti di entrambe le parti, come è già successo in passato attorno all'Olimpico e a Brescia). Però alla Lazio abbiamo una storia lunga di razzismo e fascismo che non possiamo diluire in un così fan tutti che azzera ogni cosa. Solo quando si prende atto che la malattia esiste si può cominciare la cura. Invece di esorcizzarla, direi a quei tifosi increduli e alla società che li rappresenta: guardiamoci dentro. Magari daremo una mano anche a tutti gli altri infettati.
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