venerdì 28 dicembre 2012

28 dicembre del 1943 - I servi traditori aSSaSSini fascisti fucilano tutti i sette eroici fratelli Cervi a Reggio Emilia :


Ettore Cervi di anni 22, Ovidio Cervi di anni 25, Agostino Cervi di anni 21, Ferdinando Cervi di anni 32, Aldo Cervi di anni 34, Antenore Cervi di anni 39, Gelindo Cervi di anni 42.


SIAMO QUELLI DELL' "ITALIA DEI FRATELLI CERVI" 
L'italia dei Fratelli Cervi di Giustiniano Rossi :

L’Italia dei fratelli Cervi è, nel 1943 come oggi, quella che combatte il fascismo sempre e comunque senza compromessi, che sia in camicia nera o verde o addirittura in doppiopetto, è quella che lotta contro i padroni avendo chiaro il concetto che le forze produttive sono i lavoratori, non le imprese e i loro azionisti che intascano la differenza fra il valore del lavoro e la sua remunerazione (plusvalore ?), quella che lotta contro la Chiesa avendo chiara la differenza fra l’istituzione e i singoli preti (della formazione partigiana organizzata dai fratelli Cervi faceva parte un sacerdote, don Pasquino Borghi, che verrà catturato e fucilato), quella che lotta contro la miseria e non contro i poveri, contro l’ignoranza e non contro gli ignoranti. L’Italia dei fratelli Cervi è quella che, nel 1943 come oggi, sa tracciare una netta linea di separazione fra i 270 000 partigiani, uomini e donne, che dettero vita alla Resistenza scegliendo la via dell’onore e quanti, scegliendo più o meno volontariamente la via del disonore, aderirono allo stato fantoccio dei Tedeschi, bruciando, saccheggiando, torturando, uccidendo per conto dei vecchi e dei nuovi padroni i resistenti ed il popolo che li sosteneva, nell’inutile tentativo di paralizzarne l’iniziativa con l’arma del terrore.

Forse la maniera migliore di riflettere sull’attuale situazione della memoria storica nel nostro paese, dove, non da oggi, fascismo e antifascismo vengono confusi in un’oscena mistura fatta di revisionismo storico e di altrettanto storico opportunismo è, anzitutto, quella di ricordare l’epigrafe pubblicata sulla rivista « Il Ponte » all’indomani delle elezioni politiche del 7 giugno 1953:

‘‘Non rammaricatevi\ dai vostri cimiteri di montagna\ se giù al piano\ nell’aula dove fu giurata la Costituzione\ murata col vostro sangue\ sono tornate da remote caligini\ i fantasmi della vergogna\ troppo presto li avevamo dimenticati\ è bene che siano esposti\ in vista su questo palco\ perché tutto il popolo\ riconosca i loro volti\ e si ricordi\ che tutto questo fu vero\ chiederanno la parola\ avremo tanto da imparare\ manganelli pugnali patiboli\ vent’anni di rapine due anni di carneficine\ i briganti sugli scanni i giusti alla tortura\ Trieste venduta al tedesco\ l’Italia ridotta un rogo\ questo si chiama governare\ per far grande la Patria\ aprrenderemo da fonte diretta\ la storia vista dalla parte dei carnefici\ parleranno i diplomatici dell’Asse\ i fieri ministri di Salò\ apriranno\ i loro archivi segreti\ di ogni impiccato sapremo la sepoltura\ di ogni incendio si ritroverà il protocollo\ Civitella Sant’anna Boves Marzabotto\ tutte in regola\ sapremo finalmente\ quanto costò l’assassinio\ di Carlo e Nello Rosselli\ ma forse a questo punto\ preferiranno rinunciare alla parola\ peccato\ questi grandi uomini di Stato\ avrebbero tanto da raccontare’’.

La memoria dell’Italia dei fratelli Cervi non è soltanto una memoria storica, che peraltro lo Stato italiano ha sempre impedito, costringendo generazioni di studenti a fermarsi, nello studio della storia del nostro paese, ai fatti precedenti i due conflitti mondiali del secolo scorso. È una memoria militante. È la memoria di un’Italia che non ha dimenticato che il 28 dicembre 1943 venivano fucilati dai nazifascisti, a Reggio Emilia, Agostino, Aldo, Antenore, Ettore, Ferdinando, Gelindo e Ovidio, i sette contadini di Campegine (RE) figli di Alcide Cervi che, guidati dal padre, avevano organizzato dopo l’8 settembre 1943, con il concorso di altri contadini della zona, una formazione partigiana con la famiglia Sarzi, che gestiva una compagnia di teatro viaggiante, e con alcuni disertori ed ex prigionieri alleati di cui avevano aiutato la fuga dal campo di Fossoli. Alcide Cervi era nato nel 1875: suo padre, Gelindo che era finito in prigione nel lontano 1869 per aver preso parte ai moti contro la tassa sul macinato - tappa importante nella storia della lotta di classe dell’Italia unita - costati, nella sola Campegine, 7 morti e 12 feriti tra i dimostranti, oltre a 60 arresti, gli aveva trasmesso gli ideali di libertà e di giustizia sociale che lo sostennero quando dovette subire perquisizioni e persecuzioni durante la dittatura di Mussolini.

Con la moglie, Genoveffa Cocconi, Alcide aveva allevato nove figli: sette maschi e due femmine. Era lei che leggeva loro la sera nell’aia, mentre mangiavano pane e verza, i Promessi Sposi e la Divina Commedia: una realtà lontana dall’immagine del mondo contadino, arretrato e ignorante, accreditata, ancora oggi, dalla cultura borghese. Nella sala del Consiglio comunale di Campegine, sotto il busto di Genoveffa Cocconi, morta di dolore nell’ottobre del 1944 dopo che i fascisti le avevano nuovamente incendiato la casa ricostruita ingoiando il dolore per la morte dei suoi sette figli, è scritto: ‘‘Quando la sera tornavano dai campi sette figli e otto con il padre, il suo sorriso attendeva sull’uscio per annunciare che il desco era pronto, ma quando in un unico sparo caddero in sette dinnanzi a quel muro, la madre disse: non vi rimprovero o figli d’avermi dato tanto dolore, l’avete fatto per un’idea perché mai più nel mondo altre madri debban soffrire la stessa mia pena, ma che ci faccio qui sulla soglia se più la sera non tornerete, il padre è forte e rincuora i nipoti dopo un raccolto ne viene un altro, ma io sono soltanto una mamma o figli cari vengo con voi’’.

Il figlio maggiore, Aldo, durante il servizio militare fa propaganda antifascista fra i suoi commilitoni. Risultato: qualche anno di carcere militare a Gaeta ed altrettanto tempo per acquisire nell’altra università, quella senza vacanze del carcere, gli elementi di cultura politica necessari per organizzare, una volta libero, la lotta partigiana nel suo territorio. Aldo apre una biblioteca a Campegine, non lontano da Gattatico, dove si trovano i Campi Rossi – il toponimo carico di significato che designa il podere coltivato dalla famiglia Cervi - diffonde libri, organizza riunioni, distribuisce volantini e giornali clandestini e moltiplica i contatti con le famiglie contadine della zona fino a creare una vera e propria rete di resistenza antifascista. Quando, il 25 luglio 1943, il governo fascista cade, la popolazione di Gattatico trova nella famiglia Cervi il suo naturale punto di riferimento, e l’8 settembre i Campi Rossi diventano il centro della Resistenza nella zona; Aldo raggiunge i partigiani in montagna ed i suoi fratelli collaborano con i Gap in pianura.

La mattina del 25 novembre 1943, centocinquanta camicie nere danno fuoco al fienile e circondano la casa dei Cervi: Alcide e i suoi figli s’arrendono solo dopo aver finito le munizioni. Arrestati, interrogati e torturati, Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore Cervi resistono alle minacce ed alle blandizie: verranno prelevati dal carcere insieme a Quarto Cimurri e fucilati il 28 dicembre 1943 al Poligono di Tiro di Reggio Emilia. Alcide resta nel carcere, ignaro della sorte dei figli, da dove evaderà il 7 gennaio 1944, approfittando di un bombardamento; appresa la terribile verità, ricostruisce con l’aiuto della moglie, di quattro nuore e di 11 nipoti la casa, che i fascisti incendieranno una seconda volta nell’ottobre 1944, e continua la lotta partigiana. Oltre dieci anni dopo, la terribile vicenda della famiglia Cervi, esemplare per descrivere cosa fu in realtà la Resistenza italiana, ispirava al poeta Salvatore Quasimodo i seguenti versi :

‘‘In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo
di sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure
di pietra e di colore, d’antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d’amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive, su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento dal navigante
dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre
[ardente.
Anche qui dividono i sogni la natura,
vestono la morte, e ridono, i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d’amore e solitudine, nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.
Nel mio cuore finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d’amore,
e anche questa è una lettera d’amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi,
non alle sette stelle dell’Orsa; ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.
Non sapevano soldati, filosofi, poeti,
di questo umanesimo di razza contadina.
L’amore, la morte, in una fossa di nebbia appena
[fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchine di sangue.

Da ‘‘Ai fratelli Cervi, alla loro Italia’’ ne ‘‘Il falso e vero verde’’ 1956

I valori dell’umanesimo contadino, difesi dalla famiglia Cervi pagando un prezzo tanto elevato, sono quelli, eterni, che dividono, oggi come ieri, la tolleranza dall’intolleranza, la civiltà dalla barbarie. Nel 1968 – proprio in quell’anno in cui una nuova generazione si faceva carico della realizzazione dei valori che erano stati quelli della Resistenza - Gianni Puccini firmava la regia del film « I sette fratelli Cervi » con il concorso - fra gli altri – di Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciolla, Carla Gravina e Serge Reggiani. L’aiuto regista era Gianni Amelio, allora ancora pressoché sconosciuto, alla sceneggiatura aveva collaborato l’indimenticabile Cesare Zavattini. Gianni Puccini morì poco dopo la fine delle riprese ma il suo film, lungamente boicottato dalla censura preventiva, insieme alla magistrale interpretazione di Gian Maria Volonté, è restato nella memoria di quanti disprezzavano e disprezzano ogni retorica commemorativa.

Ci sforziamo anche noi di ripetere con Alcide: "i nostri morti ispirino i vivi", di pensare che dopo i figli ci sono sempre i nipoti per ricominciare tutto da capo un’altra volta, senza cedere allo scoraggiamento. Certo, da allora, il partito comunista italiano – la forza politica che, con il movimento Giustizia e Libertà, era il cuore e la testa della Resistenza - ha perso per strada l’aggettivo che tanto chiaramente lo identificava, ripiegando su una coppia di aggettivi, ’’democratico“ e di ‘‘sinistra“ apparentemente meno impegnativi in tempi di abiure altrettanto facili come i dogmatismi e i settarismi di un tempo. Siamo arrivati alla rinuncia al termine di ‘‘sinistra“: il partito si contenta ormai dell’aggettivo « democratico » per definire la sua identità o per sfumarla in un cartello eterogeneo di alleanze interne ed esterne che rinnegano origini che neppure querce frondose e profumati olivi sono riusciti a proteggere.

Fin dove si spingerà sulla via dell’opportunismo un partito democratico che, quando era anche di ‘‘sinistra“ s’è unito al coro di quanti volevano ad ogni costo il rientro in Italia dei resti della canaglia di Savoia ed alle ispirate parole di coloro che equiparavano ed equiparano i sette fratelli Cervi e gli oltre 100 000 caduti della guerra partigiana ai tristi figuri della repubblica di Salò? Difficile dirlo: nel frattempo l’Italia dei fratelli Cervi è impegnata, oggi come negli anni Venti ed in altre fasi della sua storia, in un processo di rinnovamento e di ricostruzione della sinistra, quella che non ha paura dei simboli né degli aggettivi perché affida la sua identità alla continuità della lotta a fianco di lavoratori, donne, giovani, minoranze sessuali, nazionalità oppresse, di quanti nella scala di valori delle classi dominanti sono considerati gli ultimi.

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