giovedì 18 aprile 2013

Nord Africa e Medio Oriente, due anni dopo


La rivoluzione non si ferma

di Ronald León Núñez
La regione strategica del Nord Africa e Medio Oriente è scossa da una massiccia ondata di rivoluzioni popolari che hanno trasformato la mappa politica di tutta l’area.
Questo ciclo di rivoluzioni, che proprio John Kerry, nuovo cancelliere degli Stati Uniti, definì come “il maggiore sconvolgimento dalla caduta dell’Impero Ottomano”, rappresenta la più completa e indiscutibile prova del totale fallimento della campagna ideologica dell’imperialismo che pretese di seppellire e dichiarare “la fine della storia e della rivoluzione”.
Così stanno le cose. In modo imponente e terrificante per le classi possidenti. Ancora una volta i popoli oppressi rovesciano governi e regimi decennali facendo rivoluzioni che hanno avuto inizio con una scintilla che ha fatto incendiare pascoli che da molto tempo erano secchi.
Il 17 settembre del 2010, un giovane tunisino, Mohamed Bouazizi, raggiunse il limite quando la polizia lo schiaffeggiò per la strada e gli confiscò il carretto col quale vendeva la frutta. Prese la decisione di bruciarsi vivo, come disperato atto di protesta contro la situazione economica e l’oppressione della dittatura di Ben Ali.
Questa scintilla diede avvio all’incendio rivoluzionario in Tunisia e in tutta la regione. Fu il detonatore di un processo sociale e politico profondo, incubato per decenni, prima di esplodere in una vigorosa esplosione. Questo ha confermato quella legge che, tempo addietro, Trotsky definì così: “Ogni rivoluzione è impossibile fino a quando non diventa inevitabile”.
I dittatori di Tunisia, Egitto, Libia e Yemen sono stati rovesciati dall’azione delle masse. Una lunga e sanguinosa guerra civile continua ad essere in corso in Siria senza nessun segno di rapida risoluzione e c’è un ravvivarsi della lotta palestinese.
Sono molti i fatti e complesse le contraddizioni. Il momento storico che viviamo rende necessario fare un bilancio, anche se provvisorio, con l’obiettivo di fare il punto delle lezioni e tracciare le prospettive del processo generale.
Ci sono molti interrogativi tra i rivoluzionari e gli attivisti onesti: qual è il carattere del processo? sono rivoluzioni o no e di che tipo? Le masse hanno avanzato o sono retrocesse? Qual è la politica centrale dell’imperialismo? Che tipo di direzione hanno le masse attualmente e qual è il loro ruolo? Quale dev’essere l’ubicazione, il programma e la politica dei rivoluzionari?
Le rivoluzioni sono rivoluzioni
C’è qualcuno che dice, anche tra quelli che si dicono trotskisti, che quello che succede nel mondo arabo non ha niente a che vedere con una rivoluzione. I leader del castro-chavismo, poi, affermano che è “una controrivoluzione” e appoggiano i dittatori sanguinari, contestati dalle masse.
Ci sono altri, con argomenti più “di sinistra”, che arrivano alla stessa conclusione dei capi “bolivariani”. Questi analisti si sforzano di dimostrare “teoricamente” che quello che è successo non è niente di più di una semplice “ondata di proteste e ribellioni”, perché i fatti non soddisfano le condizioni dei loro rigidi schemi. A questi ultimi, Trotsky risponderebbe:
“La caratteristica più indiscutibile di una rivoluzione è l’intervento diretto delle masse negli eventi storici. In tempi normali, lo Stato, sia esso monarchico o democratico, è al di sopra della nazione; la storia è fatta da specialisti di questa materia: re, ministri, burocrati, parlamentari, giornalisti. Ma in quei momenti cruciali in cui il vecchio ordine diviene non più sopportabile per le masse, queste rompono le barriere che le separano dalla scena politica, spazzano via i loro rappresentanti tradizionali e, con il loro intervento, creano il punto di partenza per il nuovo regime. Lasciamo ai moralisti giudicare se questo è un bene o un male. A noi basta prendere i fatti così come sono dati dal loro sviluppo oggettivo. La storia di una rivoluzione è per noi, prima di tutto, la storia dell’ingresso violento delle masse nel determinare il proprio destino”.
Si deve chiedere a questi analisti: che stanno facendo, quindi, le masse egiziane, siriane, tunisine o libiche – con tutte le loro contraddizioni e limitazioni – se non “intervenire direttamente negli eventi storici” e nel “determinare il proprio destino”? Come non chiamare “rivoluzioni” questi poderosi processi oggettivi che rovesciano dittatori e tutti i tipi di “rappresentanti tradizionali” e si ergono come “punto di partenza” per nuove avanzate?
Ci sono anche quelli che, correttamente, dicono che siamo di fronte a rivoluzioni e appoggiano la lotta delle masse contro le dittature,  come nel caso del Mes, corrente interna del Psol brasiliano. Però questa constatazione appare limitata, perché viene inquadrata, senza ammetterlo, in un errore strategico globale: la concezione stalinista della “rivoluzione a tappe”, infatti scrivono: “Essendo rivoluzioni democratiche, quelli che avanzano già come obiettivo la bandiera del socialismo stanno assolutamente decontestualizzando. Non c’è oggi come oggi la possibilità di creare un’alternativa di massa sotto questa parola d'ordine. C’è solo la possibilità di distruzione dei vecchi regimi e di conquistare l’indipendenza di fronte all’imperialismo”.
Come i partiti europei detti “anticapitalisti”, il Mes appoggia le rivoluzioni arabe solamente nell’ambito del rovesciamento delle dittature e della conquista della “democrazia radicale” perché, per loro, il processo non supererà una “rivoluzione democratica” che necessariamente deve fermarsi alla caduta dei regimi dittatoriali. Per loro, la prospettiva socialista, la presa del potere da parte della classe operaia e dei popoli oppressi per avanzare dai compiti democratici ai compiti anticapitalisti semplicemente non si pone nella realtà.
Posti questi problemi, la posizione della Lega Internazionale dei Lavoratori (Lit-Quarta Internazionale), fin dal principio, è stata che in questa regione stanno avvenendo delle rivoluzioni e queste rivoluzioni hanno un contenuto e un corso obiettivamente socialista, anche se sono cominciate essenzialmente per problemi democratici e il carattere socialista continua ad essere incosciente.
Sono socialiste perché affrontano governi e regimi che sostengono Stati borghesi e pro-imperialisti. In altre parole, la lotta delle masse si confronta oggettivamente col capitalismo e l’imperialismo. Se questo carattere anticapitalista e socialista è per ora incosciente, ciò è dovuto alla mancanza di una direzione rivoluzionaria e internazionalista.
Per tutto questo, appoggiamo incondizionatamente queste rivoluzioni – chiunque le diriga – e siamo in prima linea nella lotta per la caduta dei dittatori e la conquista di ampie libertà democratiche per le masse popolari. Affrontiamo questa lotta con la strategia che l’azione rivoluzionaria delle masse non si fermi a questo “punto di partenza” (la caduta delle dittature) e continui ad avanzare fino al socialismo in ogni Paese e in tutta la regione, come parte della rivoluzione socialista mondiale.
Inverno arabo?
A due anni dal loro inizio, non sono pochi quelli che affermano che l’onda rivoluzionaria è retrocessa o si è “sviata”. Ci sono vari argomenti, da destra a “sinistra”, che concludono che la “primavera” ha lasciato il passo all’“inverno”: che cominciò “pacifica” e sfociò in guerra civile in Libia o Siria; che sono stati i settori islamisti che hanno aumentato la loro influenza o che già governano in Egitto e Tunisia,  perché l’imperialismo e le direzioni borghesi “sequestrano” le “ribellioni”.
La rivoluzione è avanzata o ha retrocesso? Il punto centrale è rispondere a queste domande: l’imperialismo e le borghesie della regione sono riusciti a sconfiggere il processo rivoluzionario e hanno stabilizzato la regione? Sono più forti o più deboli rispetto a prima dell’inizio dell’ondata rivoluzionaria?
Per noi, né la rivoluzione è stata sconfitta, né l’imperialismo è riuscito a stabilizzare la regione, nonostante i suoi sforzi e tutto l’aiuto che le direzioni borghesi – i Fratelli musulmani e altri in Libia e in Siria – gli hanno dato.
Al contrario, con le sue contraddizioni e le differenze nel ritmo e nella profondità politico-militare, le rivoluzioni continuano ad avanzare e ad assestare colpi alla dominazione capitalista e imperialista. Passiamo in rassegna, anche se in forma sommaria, i processi più importanti della regione (Siria, Egitto e Libia).
Siria: una sanguinosa guerra civile in corso
Attualmente, il punto più alto del processo rivoluzionario si trova in Siria, dove il popolo ha preso le armi per rovesciare la sanguinaria dittatura di Bashar al Assad, parte di un regime che si mantiene da quarant’anni.
L’Onu parla di 70.000 morti. Più di 800.000 persone hanno lasciato il Paese in fuga dai massacri del regime e ora sopravvivono in pessime condizioni in “campi profughi” in Libano, Turchia e Giordania.
Dopo mesi di intensi combattimenti, di avanzate e ripiegamenti, i ribelli raggruppati nell’Esercito libero della Siria (Els) hanno liberato e controllano ampie zone nelle vicinanze di Aleppo (centro economico del Paese) e Idlib, nel nordest; diverse popolazioni in torno a Homs; parte della valle di Al Qalamoun (vicino alla frontiera con il Libano), e frange di terra alla frontiera con Israele e la Giordania nel sud.
Quando stavamo terminando questo articolo, truppe ribelli realizzavano attacchi in diversi punti di Damasco, bastione del regime e dei vertici militari. Per mesi, i combattimenti erano limitati alla periferia della città, situazione che forzò il regime a bombardare quartieri della propria capitale. Ora gli scontri armati si danno con maggiore intensità e frequenza nelle zone centrali. L’ultima volta che i ribelli erano stati in grado di attaccare il cuore del regime è stato l’attentato dello scorso luglio (in cui morirono diversi alti comandanti militari e lo stesso cugino di Assad).
Questi progressi militari dei ribelli si combinano con una situazione economica ogni giorno più insostenibile per Al Assad, aggravata con un contrappasso quasi dantesco dalla distruzione massiccia provocata dai suoi stessi bombardieri e aggravata dalle sanzioni internazionali che pesano sul regime.
Ciò nonostante, è un fatto che Al Assad mantiene la superiorità militare, specialmente quella aerea e dei mezzi blindati. Inoltre, può ancora contare sull’appoggio militare ed economico di Iran, Russia, Hezbollah e dei governi castro-chavisti, come il Venezuela di Hugo Chavez, che continua a rifornire di combustibile gli aerei che massacrano il popolo siriano. Nonostante l’eroismo e degli innegabili risultati dei ribelli, tutti questi elementi impediscono un progresso decisivo della rivoluzione e configurano una situazione in cui la fine della guerra si presenta lontana e incerta.
Noi della Lit appoggiamo incondizionatamente la lotta armata del popolo siriano, chiunque la diriga politicamente, perché il suo trionfo sarà quello di tutti i popoli del mondo e genererà migliori condizioni perché avanzi la rivoluzione in tutta la regione. Partendo da tale posizione, invitiamo tutti i lavoratori e il popolo siriano a non fidarsi dell’imperialismo e delle direzioni borghesi, e a costruire i loro propri strumenti politici perché la rivoluzione non si fermi alla caduta di Al Assad e avanzi fino alla soluzione dei bisogni più profondi delle masse, cioè fino alla presa del potere da parte della classe operaia e del proletariato.
Egitto: “Il popolo vuole la caduta del regime”
In questo Paese, il più popoloso e importante del mondo arabo, il secondo anniversario della rivoluzione ha trovato nuovamente decine di migliaia di manifestanti nelle strade delle principali città.
La rivoluzione non si è mai fermata. Migliaia di lavoratori e di giovani esigono dal governo dei Fratelli musulmani, presieduto da Mohammed Morsi, il compimento delle domande democratiche ed economiche insoddisfatte che hanno rovesciato Mubarak nel febbraio 2011. Gli slogan più cantati nelle mobilitazioni sono gli stessi da due anni: “Pane, libertà e giustizia sociale” e “Il popolo vuole la caduta del regime!”. Il governo di Morsi, insieme con i vertici militari, risponde con una repressione brutale e un indurimento anche maggiore del regime.
Per capire meglio la situazione, è necessario soffermarsi sulla questione del regime politico.
La rivoluzione, senza dubbio, ha conquistato una prima e importantissima vittoria rovesciando l’odiato dittatore Mubarak. Tuttavia, nonostante la forte mobilitazione popolare e a causa del tradimento delle direzioni tradizionali con molto seguito popolare, soprattutto i Fratelli musulmani, il rovesciamento di Mubarak non ha significato la caduta del regime. Questo si è mantenuto poggiando sulla preminenza e sugli enormi privilegi economici delle alte cariche dell’esercito.
Garantiti ora dal governo di Morsi, i generali egiziani continuano a controllare circa il 40% dell’economia, gestendo senza alcun controllo il proprio bilancio e nominando il Ministro della Difesa. Continuano ad essere, inoltre, il secondo esercito, dopo Israele, che riceve più aiuti militari dagli Usa (1.400 milioni di dollari all’anno).
I militari continuano a tenere le redini del potere economico e politico in Egitto. In primo luogo attraverso la Giunta militare guidata dal maresciallo Tantawi. Poi, con il patto controrivoluzionario tra i Fratelli musulmani e l’alto comando militare, con il quale si è insediato Morsi in cambio del mantenimento degli interessi e dei privilegi dell’esercito. Per tutto questo, possiamo affermare che il regime, senza Mubarak, si mantiene e si sostenta con questo patto.
La sua essenza (bonapartista, repressore e sottomesso all’imperialismo) si mantiene intatta, il regime è stato riformato e non distrutto (cosa invece successa nel caso della Libia). Ovviamente, la situazione generale è molto diversa a quella dell’era di Mubarak. A causa dell’impatto della rivoluzione, il regime ha dovuto adattarsi al processo rivoluzionario in corso e “cambiare qualcosa per non cambiare niente”. Ora ci sono molti nuovi partiti, e altri che erano quasi proibiti – come gli stessi Fratelli musulmani – svolgono un ruolo da protagonisti. Ci sono nuove organizzazioni, sindacati e un clima di mobilitazione permanente, e per il regime non è più facile come prima utilizzare la repressione aperta.
Egitto: la Lit corregge la sua caratterizzazione iniziale sulla caduta del regime
Una visione superficiale può dare l’impressione errata che il regime è cambiato. Anche la Lit ha sostenuto per molti mesi che la caduta di Mubarak rappresentava anche la caduta del regime. Così sostenemmo nel nostro X Congresso mondiale (2011). Dopo aver studiato meglio la realtà e aver discusso i nuovi avvenimenti, correggiamo questa nostra definizione errata. Possiamo vedere che i cambiamenti, al di là dell’essere un prodotto diretto della rivoluzione, non sono qualitativi, né configurano un nuovo regime, ma sono riforme (più o meno profonde) dello stesso regime che si basa sulle forze armate come istituzione fondamentale.
Niente è definito. Le masse popolari sfruttate che hanno rovesciato Mubarak non sono soddisfatte e vogliono di più. Applicando nella pratica il criterio che ogni conquista deve essere il punto di partenza per una conquista superiore, le masse egiziane incrementano la loro mobilitazione.
La differenza è che ora queste mobilitazioni si scontrano necessariamente con il governo di Morsi, non con Mubarak o la Giunta militare di Tantawi. Questo fa si che l’esperienza sia chiara e concreta. In ogni lotta, in ogni ondata di mobilitazioni, in ogni repressione o dichiarazione di stato di emergenza, sempre più si rivela alle masse il vero volto dei Fratelli musulmani e il loro ruolo di garanti del mantenimento del regime e di strumento dell’imperialismo per sconfiggere la rivoluzione.
Libia: avanza la ricostruzione dello Stato borghese
La rivoluzione libica è stata la più profonda di tutte nella regione. Le masse, con la loro mobilitazione rivoluzionaria e la lotta armata, demolirono il regime dittatoriale e pro imperialista di Gheddafi e poi linciarono il dittatore.
Il popolo armato ottenne una grande vittoria, ed è stato protagonista di una rivoluzione politica democratica vittoriosa, liquidando un regime politico totalitario in un Paese capitalista. Il caso libico è stato chiaramente quello di una rivoluzione “socialista incosciente” molto profonda, perché le masse, con la loro azione rivoluzionaria, distrussero niente di meno che il pilastro fondamentale del regime e dello stesso Stato borghese: le forze armate.
La forza del processo obbligò l’imperialismo a intervenire, soprattutto quando videro che era necessario sbarazzarsi di Gheddafi (che appoggiarono fino all’ultimo minuto), che era incapace di sconfiggere questa rivoluzione.
In questo contesto, l’Unione europea e l’imperialismo europeo, attraverso l’Onu e la Nato, iniziarono un intervento militare per rovesciare Gheddafi (per limitazioni politiche dell’imperialismo si limitarono ad attacchi aerei). Così riuscirono a riposizionarsi e a trovarsi in una posizione migliore per cercare di sconfiggere la rivoluzione.
Allo stesso tempo l’imperialismo incoraggiò e rafforzò una alternativa di potere attraverso il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) e perseguendo l’obiettivo di ricostruire appena possibile nuove forze armate e lo Stato borghese propriamente detto.
In questo senso, a causa della mancanza di una direzione rivoluzionaria, è un fatto che l’imperialismo e i nuovi governanti libici riuscirono ad avanzare in tre ambiti: 1) cooptarono molti leader delle milizie e li incorporarono nel governo; 2) incorporarono molti miliziani nelle nuove forze armate e nello Stato che provano a ricostruire. La consegna dell’aeroporto di Tripoli (di importanza strategica e anche un simbolo della forza delle milizie popolari) e altri fatti simili in cui le milizie hanno consegnato le loro armi al nuovo governo sono stati avanzamenti importanti per la controrivoluzione; 3) si sono svolte delle elezioni legislative con una partecipazione popolare molto buona e l’appoggio di molti miliziani.
Le elezioni legislative segnano un fatto importante nella liquidazione della rivoluzione. Si tennero il 7 di luglio e furono le prime dal 1964. Sono stati eletti 200 deputati che compongono il Congresso nazionale libico (Cnl). La partecipazione è stata del 62%. Il Cnt e l’imperialismo, utilizzando le aspettative popolari per esercitare i diritti democratici, come il voto (proibito per anni dalla dittatura), riuscirono a canalizzare nelle elezioni una parte importante del desiderio popolare di cambiamento.
Quanto sono andati avanti l’imperialismo e il Cnt nella liquidazione e nel disarmo delle milizie popolari che rovesciarono Gheddafi? Anche questo processo sta avanzando. L’assenza di una direzione rivoluzionaria che orienti l’azione del proletariato perché la sua rivoluzione avanzi fino alla presa del potere politico e all’instaurazione di un governo operaio, contadino e popolare, determina che centinaia di milizie, oltre che dividersi e cominciare a difendere interessi settoriali e zone di influenza, cominciano a svuotarsi di ampi settori di masse. Stancate da una guerra civile che è costata 50.000 morti e dai sacrifici materiali causati dalla paralisi dell’economia, cercano di riprendere le loro vite di prima della rivoluzione e mostrano di avere molte speranze nelle elezioni e in tutta la propaganda dell’imperialismo e delle autorità libiche sul fatto che l’obiettivo “nazionale” ora è “ricostruire le istituzioni e il Paese”.
Naturalmente, questo non significa che le milizie sono scomparse dalla scena politica. Ne esistono ancora molte che continuano a combattere contro settori che si dichiarano gheddafisti e controllano centinai di prigionieri collaboratori del vecchio regime. Ma la dinamica non tende a farle riorganizzare democraticamente e a farle lottare per nuovi obiettivi rivoluzionari, ma a farle dissolvere o a incorporarle nelle nuove forze armate borghesi.
Questa situazione politica si dà in un quadro in cui l’attività economica libica (quasi paralizzata durante la guerra civile) si sta riprendendo molto rapidamente, a partire dalla ripresa della produzione e dall’innalzamento dei prezzi del petrolio. Il Pil è cresciuto fortemente nel 2012: un innalzamento del 121,9% rispetto a una contrazione del 59,7% nel 2011. L’estrazione del petrolio riprende il livello precedente alla guerra civile (1,6 milioni di barile al giorno), e varie multinazionali hanno ripreso le loro operazioni in Libia. Questa è una boccata d’ossigeno importante per le autorità libiche: gli idrocarburi rappresentano il 70% del Pil, più del 95% delle esportazioni e delle entrate del governo.
Il movimento operaio
Il movimento operaio, di importanza strategica per l’avanzamento delle rivoluzioni, gioca un ruolo diseguale nella regione. Dà segnali di riorganizzazione in Egitto e Tunisia, però è quasi assente in Libia e Siria.
In Egitto, la classe operaia ha svolto un ruolo importante nel periodo precedente e durante il rovesciamento di Mubarak. Nel 2012 ci fu una serie di scioperi operai, tra cui si è distinta l’impresa tessile statale Mahalla, con più di 24.000 lavoratori e un’importanza nazionale. Lo sciopero chiedeva un aumento dei salari, maggiori benefici pensionistici e l’esigenza della destituzione dei funzionari provenienti dal deposto governo di Mubarak. Lo sciopero si estese ad altre regioni.
Un processo simile si è svolto anche in Tunisia: durante il 2012 ci sono state diverse lotte radicalizzate in varie città, con blocchi stradali e scioperi in fabbriche metallurgiche ed elettroniche. Il 2013 è iniziato con un forte sciopero generale contro il governo islamista del partito Ennhada, che quasi ha paralizzato il Paese (l'asesione è stata di 1,5 milioni di lavoratori). Lo sciopero era stato convocato dall’Unione generale dei lavoratori tunisini (Ugtt), cha ha mezzo milione di affiliati ed è la centrale sindacale più grande del Nord Africa.
In questo senso, è fondamentale una politica per riorganizzare il movimento operaio di questi Paesi sulla base di un programma chiaro di indipendenza di classe con il quale portare a termine sia le lotte economiche che quelle di carattere democratico, cominciando dal pieno diritto di organizzazione sindacale e politica e di sciopero. Questa battaglia è e sarà una lotta contro le direzioni burocratiche e borghesi (religiose o meno) che fanno di tutto per dividere e frenare il movimento operaio e delle masse.
La politica dell’imperialismo
Per sconfiggere le rivoluzioni, l’imperialismo si avvale di diverse tattiche, che variano a seconda della situazione in ciascun Paese. Di fronte alla mobilitazione delle masse, la sua prima reazione è stata invariabilmente sostenere il più possibile i dittatori o le monarchie succubi. Solo quando questo appoggio divenne insostenibile (ravvivava l’incendio invece di spegnerlo), Washington cominciò a sostenere l’uscita di scena di alcuni dei suoi vecchi alleati. Dopo averli appoggiati fino al limite, Obama dovette esigere l’uscita di scena di Mubarak, Gheddafi e, ora, di Al Assad.
Nei calcoli dell’imperialismo “è meglio perdere un anello che le dita”. È un riposizionamento tattico, che non ha niente a che vedere con un appoggio alle rivendicazioni economiche o democratiche delle masse arabe. Ritirando l’appoggio ai dittatori, l’imperialismo cerca di presentarsi come il campione della “democrazia” e dei “diritti umani”, sempre in funzione di ricollocarsi in vantaggio per raggiungere il suo obiettivo strategico: sconfiggere una rivoluzione dai contorni regionali.
Non si può accusare certo l'imperialismo di “inflessibilità tattica”: critica i “crimini contro i diritti umani” e piagnucola per la “democrazia” però non ebbe dubbi nell’appoggiare la sanguinosa repressione – attraverso le truppe saudite – delle mobilitazioni rivoluzionarie in Bahrein, e continua ad appoggiare la monarchia tirannica di questo Paese, Arabia Saudita o Giordania. Sfrutta le aspirazioni democratiche dei popoli che si liberano dalle dittature e stimola processi elettorali (legislativi, costituzionali o referendari), come ha fatto in Egitto, Libia e Tunisia. In Egitto, ha appoggiato la Giunta militare che è succeduta a Mubarak fino a quando riuscì ad ottenere l’accordo totale dei Fratelli musulmani per il rispetto dei pilastri del regime. Ora, al di là della sua predica contro il “pericolo fondamentalista”, appoggia i Fratelli musulmani e li utilizza come strumento prezioso per confondere e contenere la lotta rivoluzionaria in diversi Paesi. Là dove il popolo prese le armi, vorrebbe intervenire con le sue truppe e tutto il suo potere militare per reprimere, però non ci sono le condizioni politiche per farlo, fondamentalmente a causa della sua storica sconfitta in Iraq e Afghanistan, il cui impatto negativo rimane.
In Libia, si è limitato, l'imperialismo, a un intervento aereo e in Siria è chiaro che la sua linea non è quella dell’intervento militare. Lo stesso Obama è stato molto chiaro: “In una situazione come quella della Siria, mi chiedo: potrebbe innescare una violenza anche peggiore, inclusa la possibilità dell’uso di armi chimiche?”. John Kerry, nuovo segretario di Stato, ha affermato che la strategia in Libia “ci ha fatto raggiungere il nostro obiettivo senza impiegare un solo soldato sul campo”. Ha aggiunto: “Tutti sappiamo che la diplomazia statunitense non consiste solo in “droni” e dispiegamento di truppe”.
Questo criterio è condiviso anche dai leader europei. Il ministro della Difesa tedesco, Thomas de Maizière, ha spiegato che un intervento militare gli sembra “legittimo”, però appunto che “sarebbero servite tra i 100.00 e i 200.000 effettivi per aspirare ad avere qualche successo” contro l’esercito di Al Assad. Questo, aggiungiamo noi, avrebbe delle conseguenze imprevedibili per l’imperialismo. Per questo non è oggi la sua prima opzione.
Al di là dei successi relativi, sono ancora lontani dal raggiungere i loro desideri di sconfiggere la rivoluzione e stabilizzare la regione. L’imperialismo e i suoi burattini, le borghesie arabe, devono affrontare l’azione delle masse che, oltre che sfidare le dittature, hanno una coscienza e un odio antimperialista che non si è attenuato nonostante tutti i cambi di tattica di Obama. Questo fatto si è espresso nella ondata di proteste radicalizzate contro le ambasciate e i simboli imperialisti in quasi tutti i Paesi arabi e musulmani lo scorso settembre.
Prospettive
Queste rivoluzioni sono un processo unico e internazionale. È sbagliato, e serve solamente alla controrivoluzione, analizzare il processo in forma frammentata, come se quello che accade in Egitto e Tunisia fosse differente  da quello che accade in Libia e Siria. Questa è l’intenzione, in primo luogo, della stampa capitalista di tutto il mondo, e anche dello stalinismo e della corrente castro-chavista.
Ciò li porta ad affermare che era giusto appoggiare la lotta del popolo egiziano e tunisino contro i loro dittatori, ma che è “controrivoluzionario” e “funzionale all’imperialismo” appoggiare la lotta dei libici e dei siriani contro Gheddafi o Al Assad, perché si tratta di “leader antimperialisti e antisionisti”: affermazione che costituisce una grande menzogna e una scusa per appoggiare dei dittatori genocidi. Così, non solo sono complici di questi dittatori sporchi di sangue, ma anche capitolano all’imperialismo, lasciandogli campo libero per presentarsi cinicamente come “difensore delle libertà democratiche”.
Nella stessa posizione cadono le sette che condizionano il loro appoggio alle rivoluzioni libica e siriana ad una serie di punti: il ruolo dirigente della classe operaia organizzata e di un partito rivoluzionario. Dato che questi elementi per ora non ci sono, per questi settari la rivoluzione diventa "controrivoluzione" (a causa delle direzioni borghesi delle masse e all’intervento – armato o meno – dell’imperialismo) e denunciano le masse come agenti dell’imperialismo (“truppe terrestri della Nato”). Obiettivamente, si collocano nel campo militare delle dittature, contro le masse. Tale è la posizione vergognosa di varie organizzazioni, anche “trotskiste”, come l’organizzazione internazionale del Pts argentino, la Fracción Trotskista (Ft).
Per la Lit questa ondata di rivoluzioni è un unico processo permanente ed è parte della rivoluzione socialista mondiale. Come abbiamo già detto, la rivoluzione, in generale, con tutte le sue contraddizioni e i suoi limiti, continua ad avanzare. Il processo è diseguale, con vittorie e sconfitte delle masse, però continua.
All’odio contro le dittature si somma il permanente sentimento antimperialista, sentimento che si estende contro lo Stato nazi-sionista di Israele, a partire dal fatto che è una enclave politico-militare dell’imperialismo, con decenni di aggressioni militari e usurpazione di territori dei popoli arabi, principalmente del popolo palestinese.
Le rivoluzioni hanno avuto un influsso in Palestina, storica avanguardia del mondo arabo: assistiamo a un ravvivarsi della sua lotta per la liberazione. Questo si è dimostrato nell’eroica resistenza  all’ultima aggressione sionista a Gaza, che è terminata con un cessate il fuoco (nella pratica una ritirata di Israele) e, in forma distorta, nell’accettazione della Palestina come “Stato osservatore” dell’Onu nello scorso novembre.
Le lotte in Egitto, lo sciopero generale in Tunisia, le lotte economiche e democratiche in Giordania e Barhein, l’ondata di proteste antimperialiste dello scorso settembre e il corso della lotta armata del popolo siriano dimostrano, come dice una recente dichiarazione della Lit, che il pascolo è secco e qualunque scintilla può generare incendi più o meno grandi. È così perché i problemi strutturali che diedero inizio all’ondata di rivoluzioni nella regione non sono stati risolti”.
L’acuta crisi economica e sociale in tutta la regione è stata un elemento oggettivo che fece scoppiare l’ondata delle rivoluzioni. Questa tendenza continua, al di là della disegualità. Il Fmi prevede una crescita generale sopra il 3,6% nel 2013. La previsione per la Tunisia è di 3,3% e per l’Egitto del 3%. L’economia siriana calerà del 20% e quella dell’Iran dello 0,9%. Si stima anche che i sei membri del Consiglio di cooperazione del Golfo (Bahrein, Kwait, Oman, Qatar, Arabia saudita, e gli Emirati arabi uniti) cresceranno solo del 3,7% nel 2013, il livello più basso dal 2009.
Anche con questa crescita congiunturale, non è possibile prevedere prosperità e stabilità politica. La crisi economica, sociale e politica continuerà, con disegualità.  Lo stesso Fmi ammette che: “La crescita si manterrà al di sotto delle tendenze di lungo termine e la disoccupazione aumenterà per il calo della domanda estera, gli alti prezzi degli alimenti e del combustibile, le tensioni regionali e l’incertezza politica” (Financial Times).
Tenere conto dell’economia della regione è fondamentale per stimare il margine di manovra che l’imperialismo e le borghesie arabe hanno per affrontare il processo rivoluzionario.
Il problema della direzione delle masse
Il principale elemento a favore dell’imperialismo e della controrivoluzione, e il principale ostacolo per la rivoluzione, è la mancanza di una direzione rivoluzionaria, operaia, socialista e internazionalista per il processo.
Ciò ha già determinato e continuerà a determinare un alto costo. Gli effetti negativi di questo problema storico li stiamo vedendo in Egitto, Libia  e Siria. Per questo non c’è obiettivo più urgente e necessario, al caldo dell’intervento nei processi vivi delle rivoluzioni, che combattere per costruire una direzione politica rivoluzionaria e internazionalista che conduca ogni scontro nel quadro di un programma conseguentemente antimperialista e anticapitalista, cioè socialista rivoluzionario.
Il programma e gli obiettivi della rivoluzione
La rivoluzione non è lineare né sincronizzata. Essere chiari su questo è fondamentale per determinare il programma e la politica. Gli obiettivi e il programma variano in ogni Paese. Dove le dittature o le monarchie reazionarie non sono state rovesciate (Siria, Arabia saudita, Iran, Egitto, Barhein ecc.), si impone che il punto di partenza del programma rivoluzionario sia la caduta di questi regimi e la conquista di ampie libertà democratiche, come parte della lotta per il potere operaio e socialista.
Nei Paesi dove sono già stati rovesciati i regimi totalitari (Libia e Tunisia), si impone una politica di riorganizzazione del movimento operaio di massa a partire da un programma classista che si scontri con i nuovi governi e regimi democratici borghesi, avanzando la prospettiva socialista.
In ogni Paese, a partire dalla realtà concreta, è fondamentale definire il programma, tenendo conto degli obiettivi posti e del livello della coscienza, per mobilitare la classe operaia e le masse e, a partire da questa mobilitazione, individuare e avanzare le parole d’ordine che conducano fino alla presa del potere.
È necessario un programma che vada molto più in là della caduta delle dittature – passo fondamentale, però parziale – o delle manifestazioni spontanee contro le ambasciate americane. Un programma che parta dalle aspirazioni democratiche: le punizioni per i crimini dei dittatori e per le personalità dei regimi dittatoriali, la confisca di tutti i loro beni, la convocazione di Assemblee costituenti libere e sovrane che garantiscano la rottura e l’annullamento di tutti i patti politici, contratti petroliferi e commerciali con l’imperialismo e le sue imprese, oltre che stabilire il non pagamento del debito estero.
Allo stesso tempo, è necessario spiegare pazientemente che queste Assemblee costituenti, per essere realmente libere e sovrane, dovranno essere convocate da governi operai, contadini e popolari (la dittatura rivoluzionaria del proletariato). Solo un governo di questo tipo potrà portare a compimento la concretizzazione degli obiettivi democratici e mettere la ricca economia di questi Paesi al servizio della popolazione povera e del proletariato del mondo, espropriando e nazionalizzando le terre, le banche e tutte le imprese petrolifere e strategiche che sono in mano all’imperialismo o alle borghesie nazionali.
Il grande obiettivo è rispondere politicamente e programmaticamente agli obiettivi democratici e ai problemi più sentiti dalle classi lavoratrici e sfruttate, e mobilitarle fino alla presa del potere, formando governi appoggiandosi sulle organizzazioni operaie e popolari, indipendenti dall’imperialismo e dai suoi agenti nazionali. Questi nuovi governi e Stati operai, per avanzare sulla via della rivoluzione socialista mondiale e difendersi dalla controrivoluzione, dovranno unirsi in una Federazione di repubbliche socialiste arabe.
(articolo pubblicato nel n. 10 di Correo Internacional, rivista politica della Lit-Quarta Internazionale.
Traduzione di Matteo Bavassano).

Nessun commento:

Posta un commento