di Alberto Madoglio
La convocazione dello sciopero generale indetto da Cub, Usb, Confedrazione Cobas, Si Cobas, Usi e altri per venerdì 18 ottobre avviene in un momento molto particolare per i lavoratori e le classi subalterne in Italia. Non solo la crisi economica continua a colpire duramente i lavoratori, ma in queste settimane pare di essere tornati all’autunno del 2011, quando sembrava che la situazione politica e economica del Paese stesse per precipitare.
Dopo aver ascoltato nelle settimane e nei mesi scorsi parole rassicuranti sul futuro dell’Italia, parole che in buona sostanza ripetevano quelle espresse da Monti lo scorso anno ("la crisi sta finendo", "cominciamo a vedere la luce in fondo al tunnel" eccetera), vediamo come il quadro generale segnali viceversa un repentino peggioramento dal punto di vista economico e finanziario. Il termostato per l’Italia ha ricominciato a segnare “tempesta”.
Le larghe intese traballano sotto i colpi della crisi
Tutti gli organismi economici nazionali e internazionali hanno rivisto al ribasso i dati relativi al Pil per il 2013, e anche per il prossimo anno le già modeste previsioni fatte nei mesi scorsi riguardo la ripresa economica, sono ulteriormente ribassate. L’Italia è il Paese europeo che ha subito la maggior riduzione della produzione industriale dal 2008 - circa il 20% - a oggi (confermata indirettamente dall’esplosione del numero delle ore di cassa integrazione, che anche quest’anno supereranno la spaventosa cifra di un miliardo).
Anni di manovre economiche “lacrime e sangue” che, a detta dei loro sostenitori, avrebbero dovuto stabilizzare le finanze del Paese, sembrano aver fallito il loro scopo. Il debito pubblico supererà il 130% del Pil, mentre il deficit annuale dovrebbe superare la soglia del 3%, facendo ritornare l’Italia tra i “cattivi” del Vecchio Continente, costringendola a subire l’onta di una nuova procedura di inflazione per eccesso di deficit, dalla quale era uscita, tra gli squilli di tromba dei sostenitori delle politiche di austerity, solo sei mesi fa.
A ciò si aggiunga il fatto che il clima di “concordia nazionale” che aveva fatto sì che gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra dessero vita, dall’autunno 2011, a esecutivi di “unità nazionale”, sta miseramente finendo, in apparenza per i guai giudiziari del leader del centrodestra Berlusconi, in verità per l’incapacità e l’impossibilità dei partiti dei due schieramenti borghesi di fornire una soluzione (nemmeno l’ipotesi di soluzione) alla crisi che da più di un lustro sta flagellando il Belpaese.
Al momento lo scenario di una crisi di governo e il relativo ricorso alle elezioni anticipate pare superato. Ma la vera crisi è quella che ricade sulle spalle dei lavoratori: aumento di un punto dell’Iva (tassa che colpisce i consumi e che non essendo progressiva va a impattare sui redditi più bassi), mancato rifinanziamento, al momento, della cassa integrazione in deroga (che se confermato significherà altre decine di migliaia di licenziamenti da qui alla fine dell’anno), revoca della sospensione del pagamento della seconda rata dell’Imu.
Davanti a questo scenario, la prima considerazione che viene da fare è che i lavoratori dovrebbero passare all’offensiva. Tuttavia se ciò non avviene è responsabilità principale delle maggiori organizzazioni sindacali che, mentre sui giornali e nei dibatti televisivi piangono lacrime di coccodrillo per i disastri causati dalla crisi e dell’austerità imposta agli sfruttati dal governo e dalla Troika (Fmi, Ue e Bce), nei fatti sostengono queste decisioni e impegnano tutte le loro forze e il prestigio che ancora hanno tra milioni di lavoratori per evitare che anche lo Stivale diventi teatro di scontri e mobilitazioni di massa simili a quelle che vediamo in altri Paesi (Turchia e Brasile tra gli altri).
Tutti gli organismi economici nazionali e internazionali hanno rivisto al ribasso i dati relativi al Pil per il 2013, e anche per il prossimo anno le già modeste previsioni fatte nei mesi scorsi riguardo la ripresa economica, sono ulteriormente ribassate. L’Italia è il Paese europeo che ha subito la maggior riduzione della produzione industriale dal 2008 - circa il 20% - a oggi (confermata indirettamente dall’esplosione del numero delle ore di cassa integrazione, che anche quest’anno supereranno la spaventosa cifra di un miliardo).
Anni di manovre economiche “lacrime e sangue” che, a detta dei loro sostenitori, avrebbero dovuto stabilizzare le finanze del Paese, sembrano aver fallito il loro scopo. Il debito pubblico supererà il 130% del Pil, mentre il deficit annuale dovrebbe superare la soglia del 3%, facendo ritornare l’Italia tra i “cattivi” del Vecchio Continente, costringendola a subire l’onta di una nuova procedura di inflazione per eccesso di deficit, dalla quale era uscita, tra gli squilli di tromba dei sostenitori delle politiche di austerity, solo sei mesi fa.
A ciò si aggiunga il fatto che il clima di “concordia nazionale” che aveva fatto sì che gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra dessero vita, dall’autunno 2011, a esecutivi di “unità nazionale”, sta miseramente finendo, in apparenza per i guai giudiziari del leader del centrodestra Berlusconi, in verità per l’incapacità e l’impossibilità dei partiti dei due schieramenti borghesi di fornire una soluzione (nemmeno l’ipotesi di soluzione) alla crisi che da più di un lustro sta flagellando il Belpaese.
Al momento lo scenario di una crisi di governo e il relativo ricorso alle elezioni anticipate pare superato. Ma la vera crisi è quella che ricade sulle spalle dei lavoratori: aumento di un punto dell’Iva (tassa che colpisce i consumi e che non essendo progressiva va a impattare sui redditi più bassi), mancato rifinanziamento, al momento, della cassa integrazione in deroga (che se confermato significherà altre decine di migliaia di licenziamenti da qui alla fine dell’anno), revoca della sospensione del pagamento della seconda rata dell’Imu.
Davanti a questo scenario, la prima considerazione che viene da fare è che i lavoratori dovrebbero passare all’offensiva. Tuttavia se ciò non avviene è responsabilità principale delle maggiori organizzazioni sindacali che, mentre sui giornali e nei dibatti televisivi piangono lacrime di coccodrillo per i disastri causati dalla crisi e dell’austerità imposta agli sfruttati dal governo e dalla Troika (Fmi, Ue e Bce), nei fatti sostengono queste decisioni e impegnano tutte le loro forze e il prestigio che ancora hanno tra milioni di lavoratori per evitare che anche lo Stivale diventi teatro di scontri e mobilitazioni di massa simili a quelle che vediamo in altri Paesi (Turchia e Brasile tra gli altri).
Cgil e Fiom stampelle del governo
Camusso e Landini, rispettivamente segretari della Cgil e della Fiom, sono stati i principali registi di questo dramma operaio che si protrae da lungo tempo. Hanno acconsentito che il governo potesse, sostanzialmente senza opposizione, varare l’ennesima controriforma delle pensioni, abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, bloccare dal 2010 al 2014 (salvo ulteriori prolungamenti) i salari di 3 milioni di dipendenti pubblici, mandare in rovina la sanità e la scuola pubbliche, e alle imprese di licenziare oltre mezzo milioni di lavoratori, tutto questo, lo ripetiamo, garantendo nei fatti la “pace sociale”.
Stando così le cose, è di tutta evidenza che lo sciopero del 18 ottobre sarà una mobilitazione che riguarderà i settori più di avanguardia e combattivi del proletariato, quelli che riescono a sottrarsi alla cappa delle burocrazie: ma allo stesso tempo il 18 dovrebbe essere la miccia che dà il via a quell’esplosione sociale che molti, chi temendola, altri come noi auspicandola, credono essere ormai inevitabile anche per l'Italia.
Lo sciopero non dovrà allora essere la riedizione in sedicesimo di ciò che per anni hanno fatto la Cgil e la Fiom: una innocua e retorica parata, volta più a rassicurare gli iscritti e i sostenitori dei sindacati di base, per dimostrare loro che una presenza sindacale esiste al di fuori dei sindacati confederali. Sarebbe un’occasione persa se il giorno dopo si ritornasse alla stanca routine, fatta di lamentele e imprecazioni contro governo, padroni e sindacati confederali e niente altro.
Camusso e Landini, rispettivamente segretari della Cgil e della Fiom, sono stati i principali registi di questo dramma operaio che si protrae da lungo tempo. Hanno acconsentito che il governo potesse, sostanzialmente senza opposizione, varare l’ennesima controriforma delle pensioni, abolire l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, bloccare dal 2010 al 2014 (salvo ulteriori prolungamenti) i salari di 3 milioni di dipendenti pubblici, mandare in rovina la sanità e la scuola pubbliche, e alle imprese di licenziare oltre mezzo milioni di lavoratori, tutto questo, lo ripetiamo, garantendo nei fatti la “pace sociale”.
Stando così le cose, è di tutta evidenza che lo sciopero del 18 ottobre sarà una mobilitazione che riguarderà i settori più di avanguardia e combattivi del proletariato, quelli che riescono a sottrarsi alla cappa delle burocrazie: ma allo stesso tempo il 18 dovrebbe essere la miccia che dà il via a quell’esplosione sociale che molti, chi temendola, altri come noi auspicandola, credono essere ormai inevitabile anche per l'Italia.
Lo sciopero non dovrà allora essere la riedizione in sedicesimo di ciò che per anni hanno fatto la Cgil e la Fiom: una innocua e retorica parata, volta più a rassicurare gli iscritti e i sostenitori dei sindacati di base, per dimostrare loro che una presenza sindacale esiste al di fuori dei sindacati confederali. Sarebbe un’occasione persa se il giorno dopo si ritornasse alla stanca routine, fatta di lamentele e imprecazioni contro governo, padroni e sindacati confederali e niente altro.
Far sì che il 18 ottobre sia l'inizio di una ribellione operaia e di massa
No! Il 18 ottobre deve essere il momento in cui dare inizio a quel processo che dovrebbe portare a una vera, generale e permanente mobilitazione dei lavoratori per sconfiggere le politiche di austerità che fin qui hanno dovuto subire: politiche che dal 2014 subiranno una ulteriore accelerazione dato che col nuovo anno, e per almeno un ventennio, si dovranno varare manovre di decine di miliardi di euro per tentare di ridurre l’enorme massa del debito pubblico italiano.
Ma cosa fare, nel concreto, perché la necessaria rivolta sociale non rimanga solo un auspicio condivisibile ma con nessuna possibilità di concretizzarsi?
Prima di tutto occorre essere consapevoli che siamo in guerra, una guerra in cui la borghesia è oggi all'offensiva contro le masse ma in cui i rapporti di forza si possono rovesciare: anzi, si devono rovesciare pena altrimenti un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita per milioni di persone.
Ma cosa fare, nel concreto, perché la necessaria rivolta sociale non rimanga solo un auspicio condivisibile ma con nessuna possibilità di concretizzarsi?
Prima di tutto occorre essere consapevoli che siamo in guerra, una guerra in cui la borghesia è oggi all'offensiva contro le masse ma in cui i rapporti di forza si possono rovesciare: anzi, si devono rovesciare pena altrimenti un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita per milioni di persone.
Non ci si deve illudere che da parte del governo ci possa essere una qualsiasi forma di attenzione alle rivendicazioni del mondo del lavoro. Tutti gli esecutivi che negli anni si sono succeduti hanno avuto come solo e unico fine quello di garantire alla grande borghesia nazionale il mantenimento dei suoi livelli di profitto.
Allo stesso tempo bisogna prendere atto che la pace sociale che oggi vige in Italia non potrà durare a lungo, nonostante gli sforzi delle burocrazie, e prime incrinature già si vedono.
Allo stesso tempo bisogna prendere atto che la pace sociale che oggi vige in Italia non potrà durare a lungo, nonostante gli sforzi delle burocrazie, e prime incrinature già si vedono.
Anche nel corso dell'ultima fase abbiamo avuto importanti lotte che hanno dimostrato il coraggio e l’abnegazione dei lavoratori che, a differenza di quanto ci vogliono far credere, sono ben lungi dall’essere rassegnati. La più importante di queste recenti lotte è stata senza ombra di dubbio quella dei lavoratori della logistica. Una lotta che, pur riguardando uno dei settori più sfruttati e ricattabili del proletariato, i lavoratori immigrati delle cooperative, ha dimostrato come è possibile non solo lottare ma anche vincere.
Quella lotta dimostra che anche semplici reparti di avanguardia di lavoratori in lotta possono creare danni enormi al sistema e, soprattutto, possono col loro esempio incoraggiare altri lavoratori a lottare. I padroni lo hanno capito, per questo utilizzano contro questa lotta tutti i mezzi repressivi di cui dispongono: dalle cariche della polizia contro gli scioperanti, ai fogli di via contro dirigenti sindacali, ai licenziamenti di massa.
Quella lotta dimostra che anche semplici reparti di avanguardia di lavoratori in lotta possono creare danni enormi al sistema e, soprattutto, possono col loro esempio incoraggiare altri lavoratori a lottare. I padroni lo hanno capito, per questo utilizzano contro questa lotta tutti i mezzi repressivi di cui dispongono: dalle cariche della polizia contro gli scioperanti, ai fogli di via contro dirigenti sindacali, ai licenziamenti di massa.
Questa lotta coraggiosa ha anche posto in evidenza l'urgenza di un percorso di unificazione, su basi classiste, del sindacalismo di base: un percorso che porti a superare quel conservatorismo organizzativo e quel settarismo che, ad esempio, ha portato Cub e Usb a non unirsi a questa lotta solo perché è diretta da un'altra sigla (il Si.Cobas).
Il Partito di Alternativa comunista, sia con la sua azione politica, sia partecipando alla costruzione del coordinamento No Austerity, si pone l’obiettivo di favorire l'unificazione delle lotte in corso, per estenderle e creare quella mobilitazione generale dei lavoratori che in Italia, come in altri Paesi in queste settimane, possa opporsi e far fallire le politiche di austerità che stanno impoverendo milioni di persone.
Guardando alle imponenti mobilitazioni di queste settimane in Brasile contro il governo (di centrosinistra) di Dilma, ricordando che ancora fino a qualche mese fa in Brasile come in Italia le burocrazie sindacali riuscivano ad imporre la "pace sociale", facendo tesoro dell'esperienza sindacale della Csp Conlutas che sta riuscendo a rompere la cappa imposta dalle burocrazie, guardando con attenzione al ruolo fondamentale che stanno svolgendo in Conlutas e in queste lotte i rivoluzionari raccolti nel Pstu, sezione brasiliana della Lit-Quarta Internazionale, possiamo affermare con forza che è venuta l'ora anche nel nostro Paese di fare come in Brasile!
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