Commissione femminile Pdac
Il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è una data storica, scelta dal movimento internazionale delle donne latino-americane nel 1981 a Bogotà in onore delle tre sorelle Mirabal, attiviste della Repubblica Dominicana, assassinate il 25 novembre 1961 perché si opponevano al regime dittatoriale del loro Paese. In questa ricorrenza tanto importante si è scelto di far cadere una iniziativa definita da più parti “inedita” per l’Italia: uno sciopero delle donne. L’idea ha preso forma nel giugno di quest’anno e si è concretizzata in un appello che da mesi circola sul web raccogliendo anche un discreto numero di adesioni.
Pensiamo che l'idea di organizzare uno sciopero in relazione al problema della violenza subita dalle donne sia un'idea giusta, che, potenzialmente, può permettere di superare l'interclassismo che ha caratterizzato le manifestazioni promosse dal movimento “Se non ora quando”. Si trattò, allora, di manifestazioni promosse da donne appartenenti a schieramenti sociali e politici diversi: donne borghesi, parlamentari (di centrodestra e di centrosinistra), ministre, sindacaliste. Fu un errore impostare le manifestazioni a difesa dei diritti delle donne in quel modo: non esistono interessi comuni tra le donne proletarie e le donne borghesi. Le donne proletarie sono doppiamente oppresse, perché subiscono lo sfruttamento del lavoro e la violenza di genere. Tra loro, le donne immigrate proletarie sono quelle che vivono la condizione più dura, dovendo anche subire discriminazioni razziste. Diversamente, le donne della classe borghese non sono sfruttate ma sfruttatrici. Per questo, pensiamo che rispondere alla violenza di genere con uno sciopero consenta di impostare da un punto di vista di classe il problema, prendendo atto che la lotta contro la violenza e il femminicidio è anche lotta contro il sistema economico e sociale che li genera: il capitalismo.
Tuttavia, perché uno sciopero sia un vero ed efficace sciopero e non una farsa, è necessario che si configuri come un'astensione reale dal lavoro per tutti, donne e uomini: deve essere uno sciopero generale a difesa delle donne lavoratrici, a cui devono essere chiamati a partecipare – esprimendo solidarietà alla nostra condizione - anche gli uomini della nostra classe, la classe lavoratrice. Non solo: per permettere una reale partecipazione anche delle tante donne che non hanno un contratto di lavoro regolare – ma che magari lavorano in nero o svolgono lavoro domestico non retribuito – lo sciopero deve coniugarsi con l'avvio di un percorso di lotta in grado di estendersi a tutti i settori del proletariato femminile. Questo sciopero, così come è stato convocato, non presenta queste caratteristiche e pensiamo che ponga in modo sbagliato il problema della violenza e del femminicidio. Per questo partecipiamo allo sciopero ma non aderiamo alla piattaforma.
Infatti, come compagne e compagni del Pdac, leggiamo in questo appello numerose contraddizioni, nonché semplificazioni e vaghezza ideologiche. Le riflessioni che ci ha suscitato questa iniziativa sono tante e questo documento rappresenta, oltre che ovviamente una presa di posizione, un tentativo di riordinarle.
Pensiamo che l'idea di organizzare uno sciopero in relazione al problema della violenza subita dalle donne sia un'idea giusta, che, potenzialmente, può permettere di superare l'interclassismo che ha caratterizzato le manifestazioni promosse dal movimento “Se non ora quando”. Si trattò, allora, di manifestazioni promosse da donne appartenenti a schieramenti sociali e politici diversi: donne borghesi, parlamentari (di centrodestra e di centrosinistra), ministre, sindacaliste. Fu un errore impostare le manifestazioni a difesa dei diritti delle donne in quel modo: non esistono interessi comuni tra le donne proletarie e le donne borghesi. Le donne proletarie sono doppiamente oppresse, perché subiscono lo sfruttamento del lavoro e la violenza di genere. Tra loro, le donne immigrate proletarie sono quelle che vivono la condizione più dura, dovendo anche subire discriminazioni razziste. Diversamente, le donne della classe borghese non sono sfruttate ma sfruttatrici. Per questo, pensiamo che rispondere alla violenza di genere con uno sciopero consenta di impostare da un punto di vista di classe il problema, prendendo atto che la lotta contro la violenza e il femminicidio è anche lotta contro il sistema economico e sociale che li genera: il capitalismo.
Tuttavia, perché uno sciopero sia un vero ed efficace sciopero e non una farsa, è necessario che si configuri come un'astensione reale dal lavoro per tutti, donne e uomini: deve essere uno sciopero generale a difesa delle donne lavoratrici, a cui devono essere chiamati a partecipare – esprimendo solidarietà alla nostra condizione - anche gli uomini della nostra classe, la classe lavoratrice. Non solo: per permettere una reale partecipazione anche delle tante donne che non hanno un contratto di lavoro regolare – ma che magari lavorano in nero o svolgono lavoro domestico non retribuito – lo sciopero deve coniugarsi con l'avvio di un percorso di lotta in grado di estendersi a tutti i settori del proletariato femminile. Questo sciopero, così come è stato convocato, non presenta queste caratteristiche e pensiamo che ponga in modo sbagliato il problema della violenza e del femminicidio. Per questo partecipiamo allo sciopero ma non aderiamo alla piattaforma.
Infatti, come compagne e compagni del Pdac, leggiamo in questo appello numerose contraddizioni, nonché semplificazioni e vaghezza ideologiche. Le riflessioni che ci ha suscitato questa iniziativa sono tante e questo documento rappresenta, oltre che ovviamente una presa di posizione, un tentativo di riordinarle.
La cultura della violenzaL’idea dello sciopero, a detta degli estensori dell’appello, nasce dalla volontà di segnalare il diffondersi di una sottovalutata “cultura della violenza” e di protestare contro uno Stato che non ha saputo approntare risposte ferme al dilagare di tale fenomeno. Il messaggio tuttavia non è chiaro ed anche le spiegazioni fornite in altre sedi dalle firmatarie dell’appello non aiutano a sciogliere i dubbi: ci si richiama al fenomeno del femminicidio come elemento di partenza per poi aprire il discorso ad una violenza continua che le donne subiscono ogni giorno sotto forme diverse. Come se sotto il rosso, scelto come colore della manifestazione, e richiamandosi ad alcune delle esperienze storiche più significative della sinistra mondiale, fossero state messe in fila una serie di parole d’ordine svuotate da ogni significato in una iniziativa intellettualistica prima che concreta.
Non v’è dubbio che esistono forme di violenza fisica esecrabili e condannabili non solo secondo la morale borghese, ma che si inscrivono naturalmente in un quadro di vessazione più sottile dell’universo femminile, che ha il volto del capitalismo. L’accentuarsi della crisi economica, i drastici tagli alla spesa sociale con la conseguente riduzione di servizi pubblici e gratuiti, la facilità di fuoriuscita dal mercato del lavoro, hanno spinto le donne sempre più tra le mura domestiche a sopperire con il loro lavoro di cura e di accudimento alle mancanze di uno Stato che adesso dovrebbero guardare come il paladino dei loro diritti. Ammortizzatori sociali per necessità, private di indipendenza economica e tutela sociale, le donne sono inoltre penalizzate da politiche familistiche aggressive che ne riducono ulteriormente la libertà e le rendono doppiamente vittime.
A riprova delle innate contraddizioni di questo appello, figurano tra le prime destinatarie donne che ricoprono importanti cariche istituzionali (Boldrini, Idem, Keinge, tra le altre una ex sottosegretaria al lavoro del Governo Monti che ora ha le deleghe per le Pari Opportunità), come se da rappresentanti del governo non avessero contribuito alla poca fermezza contro cui si dovrebbe protestare.
Non v’è dubbio che esistono forme di violenza fisica esecrabili e condannabili non solo secondo la morale borghese, ma che si inscrivono naturalmente in un quadro di vessazione più sottile dell’universo femminile, che ha il volto del capitalismo. L’accentuarsi della crisi economica, i drastici tagli alla spesa sociale con la conseguente riduzione di servizi pubblici e gratuiti, la facilità di fuoriuscita dal mercato del lavoro, hanno spinto le donne sempre più tra le mura domestiche a sopperire con il loro lavoro di cura e di accudimento alle mancanze di uno Stato che adesso dovrebbero guardare come il paladino dei loro diritti. Ammortizzatori sociali per necessità, private di indipendenza economica e tutela sociale, le donne sono inoltre penalizzate da politiche familistiche aggressive che ne riducono ulteriormente la libertà e le rendono doppiamente vittime.
A riprova delle innate contraddizioni di questo appello, figurano tra le prime destinatarie donne che ricoprono importanti cariche istituzionali (Boldrini, Idem, Keinge, tra le altre una ex sottosegretaria al lavoro del Governo Monti che ora ha le deleghe per le Pari Opportunità), come se da rappresentanti del governo non avessero contribuito alla poca fermezza contro cui si dovrebbe protestare.
Le forme di protesta
Si legge nell’appello che siccome “l’idea è quella di stare dentro il 25 novembre […] in un modo più militante, attivo e visibile”, l’iniziativa si articolerà in tre azioni congiunte e/o separate (l’una non esclude le altre): tra queste uno sciopero di almeno 15 minuti che dovrebbe concretizzarsi nell’astensione da tutte le attività che normalmente le donne svolgono. Invocare uno sciopero tuttavia nella tradizione del movimento operaio ha un significato ben preciso: utilizzando il proprio potere per bloccare la produzione, l’operaio può ottenere il riconoscimento dei propri diritti economici. Dal momento che le statistiche dimostrano che le donne sono tra le più colpite dalla precarietà e flessibilità del mercato del lavoro, come sarebbe per loro possibile utilizzare tale potere? Che danno potrebbe produrre lo sciopero di una precaria? Che senso potrebbe avere in un sistema che comprende solo i rapporti di forza e non certo le vuote parole di solidarietà?
Anche in questo caso ci sembra che il rischio sia quello di un puro atto formale, di una rappresentazione di facciata che non porterà a nulla di concreto. E ci sembra di trovare sostegno nell’avanzare questa ipotesi dal fatto che lo sciopero in questione ha trovato piena adesione dalle donne della segreteria Cgil, Camusso in testa, lo stesso sindacato che ha firmato gli scandalosi contratti Fiat (dove tante donne erano coinvolte) e che si prepara a firmare i contratti flessibili per Expo 2015.
Tra le normali attività dalle quali le donne si dovrebbero astenere, ci sono anche quelle domestiche in modo che il loro scioperare conduca al riconoscimento del ruolo di cura svolto tra le mura familiari. Per quale motivo? Per la ricerca di approvazione o per una retribuzione? Quali donne vorrebbero veder riconosciuto questo ruolo? Forse quelle donne borghesi come le firmatarie dell’appello che in quel ruolo di cura sono sostituite da altre? Perché non dovrebbe essere invece abolito? Perché non dovrebbe invece essere sostituito con la possibilità per le donne di partecipare più attivamente alla vita politica, sociale, sindacale, culturale del Paese?
E’ chiaro che porsi queste domande avrebbe imposto una riflessione più ampia sulla doppia oppressione che le donne subiscono nell’attuale sistema capitalistico e cercare le risposte avrebbe comportato la messa in discussione del sistema stesso. Responsabilità dalla quale noi compagne e compagni del Pdac non ci sottraiamo, avanzando così una proposta alternativa.
Si legge nell’appello che siccome “l’idea è quella di stare dentro il 25 novembre […] in un modo più militante, attivo e visibile”, l’iniziativa si articolerà in tre azioni congiunte e/o separate (l’una non esclude le altre): tra queste uno sciopero di almeno 15 minuti che dovrebbe concretizzarsi nell’astensione da tutte le attività che normalmente le donne svolgono. Invocare uno sciopero tuttavia nella tradizione del movimento operaio ha un significato ben preciso: utilizzando il proprio potere per bloccare la produzione, l’operaio può ottenere il riconoscimento dei propri diritti economici. Dal momento che le statistiche dimostrano che le donne sono tra le più colpite dalla precarietà e flessibilità del mercato del lavoro, come sarebbe per loro possibile utilizzare tale potere? Che danno potrebbe produrre lo sciopero di una precaria? Che senso potrebbe avere in un sistema che comprende solo i rapporti di forza e non certo le vuote parole di solidarietà?
Anche in questo caso ci sembra che il rischio sia quello di un puro atto formale, di una rappresentazione di facciata che non porterà a nulla di concreto. E ci sembra di trovare sostegno nell’avanzare questa ipotesi dal fatto che lo sciopero in questione ha trovato piena adesione dalle donne della segreteria Cgil, Camusso in testa, lo stesso sindacato che ha firmato gli scandalosi contratti Fiat (dove tante donne erano coinvolte) e che si prepara a firmare i contratti flessibili per Expo 2015.
Tra le normali attività dalle quali le donne si dovrebbero astenere, ci sono anche quelle domestiche in modo che il loro scioperare conduca al riconoscimento del ruolo di cura svolto tra le mura familiari. Per quale motivo? Per la ricerca di approvazione o per una retribuzione? Quali donne vorrebbero veder riconosciuto questo ruolo? Forse quelle donne borghesi come le firmatarie dell’appello che in quel ruolo di cura sono sostituite da altre? Perché non dovrebbe essere invece abolito? Perché non dovrebbe invece essere sostituito con la possibilità per le donne di partecipare più attivamente alla vita politica, sociale, sindacale, culturale del Paese?
E’ chiaro che porsi queste domande avrebbe imposto una riflessione più ampia sulla doppia oppressione che le donne subiscono nell’attuale sistema capitalistico e cercare le risposte avrebbe comportato la messa in discussione del sistema stesso. Responsabilità dalla quale noi compagne e compagni del Pdac non ci sottraiamo, avanzando così una proposta alternativa.
La nostra propostaNell’aderire alla proposta, il Partito di alternativa comunista invita i sindacati tutti ad assicurare la necessaria copertura alle lavoratrici e ai lavoratori che intendono partecipare, proclamando uno sciopero generale di 24 ore per manifestare contro la violenza sulle donne, per rivendicare un pieno impiego contro ogni flessibilità e precarizzazione, salari uguali per uguali mansioni, controllo delle lavoratrici sui tempi e sugli orari di lavoro, nonché sul "rischio zero" negli ambienti di lavoro, un'istruzione di massa e pubblica senza discriminazioni di classe e secondo le vere inclinazioni di ognuna; per il mantenimento e il potenziamento dei servizi pubblici a supporto delle donne, come asili nido, lavanderie e mense sociali di quartiere, centri per anziani e disabili, consultori e ambulatori pubblici diffusi nel territorio, per sottrarle al doppio lavoro forzato di cura e liberare il tempo per le attività politiche, sindacali, culturali.
Sabato 26 ottobre nel corso della terza assemblea nazionale (svoltasi alla Ri-Maflow, a Milano) il coordinamento No Austerity ha votato un ordine del giorno che condividiamo, per la convocazione il 25 novembre di uno sciopero generale di 24 ore che unisca le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori per dire no alla violenza sulle donne.
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