Laura Sguazzabia (*)
Come una cartina al tornasole, l’aborto, il momento più esclusivo di affermazione di volontà da parte di una donna, dà l’esatta misura del livello di oppressione delle donne nel sistema capitalistico: la legislazione borghese (che sull’argomento riesce a sbizzarrirsi in restrizioni e tempistiche ai limiti del ridicolo) lo rende strumento ideale per relegare maggiormente la donna nella sua funzione riproduttiva, soprattutto in questo momento in cui per la crisi economica è necessario “liberare” posti di lavoro in favore degli uomini e sopperire ai tagli ai servizi sociali con manodopera gratuita.
In molti Paesi è ancora una pratica illegale, in altri si sta cercando di ridurne fortemente l’applicazione, come ad esempio in Italia dove è ostacolato dalla massiccia diffusione dell’obiezione di coscienza: l’analisi di alcune situazioni recenti dimostra come sia funzionale all’oppressione femminile, quanto qualsiasi altra forma di violenza.
In molti Paesi è ancora una pratica illegale, in altri si sta cercando di ridurne fortemente l’applicazione, come ad esempio in Italia dove è ostacolato dalla massiccia diffusione dell’obiezione di coscienza: l’analisi di alcune situazioni recenti dimostra come sia funzionale all’oppressione femminile, quanto qualsiasi altra forma di violenza.
Spagna: il ritorno della destra
Il primo febbraio al grido di "no penar para abortar" (non soffrire per abortire), migliaia di persone provenienti da varie città della Spagna si sono mobilitate a Madrid contro il restrittivo progetto di riforma della legge sull’aborto, approvato lo scorso dicembre dal governo conservatore di Mariano Rajoy. A partire dal mattino, i manifestanti sono giunti su alcune decine di treni e autobus alla stazione di Atocha, per partecipare all’iniziativa “Un treno per la libertà”, indetta da due associazioni di donne delle Asturie, alla quale hanno aderito oltre un centinaio di associazioni sul territorio nazionale. Primo appuntamento di un fitto calendario di mobilitazioni, non ancora concluso, contro l’approvazione della riforma che cancellerebbe il diritto di scelta delle donne e riporterebbe la legislazione spagnola indietro di quasi trent’anni.
La riforma di Gallardón prevede l’aborto soltanto nei casi di stupro (entro la 12 settimana e dopo denuncia e accertamento delle forze dell’ordine) e di rischio per la salute fisica o psichica della donna (entro la 22 settimana), sempre che questo rischio sia “permanente o duraturo nel tempo”. Non sarà possibile ricorrere all’aborto in caso di anomalia fetale grave a meno che non si accerti che partorire un figlio con “malformazioni incompatibili con la vita” danneggi la salute mentale della donna: in questo caso servono comunque due certificati medici ed un periodo di riflessione di sette giorni.
Il testo presentato tratta le donne come esseri immaturi senza giudizio o senza coscienza. Mette in relazione la decisione di abortire con l’infermità mentale e antepone il criterio della salute al diritto della donna di decidere. Considerando inoltre l’estesa diffusione dell’obiezione di coscienza tra il personale medico, infermieristico e ausiliario, il ritiro di molti contraccettivi dalla lista dei farmaci gratuiti e il forte ridimensionamento dell’educazione sessuale nelle scuole, le donne spagnole si troveranno, nel caso di approvazione del progetto di legge, in una sorta di percorso espiatorio che le obbligherà a rendere ragione della loro scelta.
A farne le spese saranno ovviamente le donne delle classi sociali più deboli che, sprovviste di mezzi e spesso di conoscenze, saranno costrette a ricorrere alla clandestinità mettendo a serio rischio la propria vita, così come le ragazze minorenni che dovranno ora ricorrere al consenso dei genitori, contrariamente alla legge precedente che consentiva loro, a partire dai 16 anni, di decidere autonomamente.
La riforma non risponde solo a questioni ideologiche sottese all’attuale governo ultra conservatore spagnolo (controllo dell’ordine sociale e imposizione della morale cattolica), ma anche a ragioni economiche: le condizioni pattuite con la Troika e la Ue, impongono alla Spagna un drastico taglio della spesa pubblica, realizzato in particolare nell’ambito socio-sanitario.
Il primo febbraio al grido di "no penar para abortar" (non soffrire per abortire), migliaia di persone provenienti da varie città della Spagna si sono mobilitate a Madrid contro il restrittivo progetto di riforma della legge sull’aborto, approvato lo scorso dicembre dal governo conservatore di Mariano Rajoy. A partire dal mattino, i manifestanti sono giunti su alcune decine di treni e autobus alla stazione di Atocha, per partecipare all’iniziativa “Un treno per la libertà”, indetta da due associazioni di donne delle Asturie, alla quale hanno aderito oltre un centinaio di associazioni sul territorio nazionale. Primo appuntamento di un fitto calendario di mobilitazioni, non ancora concluso, contro l’approvazione della riforma che cancellerebbe il diritto di scelta delle donne e riporterebbe la legislazione spagnola indietro di quasi trent’anni.
La riforma di Gallardón prevede l’aborto soltanto nei casi di stupro (entro la 12 settimana e dopo denuncia e accertamento delle forze dell’ordine) e di rischio per la salute fisica o psichica della donna (entro la 22 settimana), sempre che questo rischio sia “permanente o duraturo nel tempo”. Non sarà possibile ricorrere all’aborto in caso di anomalia fetale grave a meno che non si accerti che partorire un figlio con “malformazioni incompatibili con la vita” danneggi la salute mentale della donna: in questo caso servono comunque due certificati medici ed un periodo di riflessione di sette giorni.
Il testo presentato tratta le donne come esseri immaturi senza giudizio o senza coscienza. Mette in relazione la decisione di abortire con l’infermità mentale e antepone il criterio della salute al diritto della donna di decidere. Considerando inoltre l’estesa diffusione dell’obiezione di coscienza tra il personale medico, infermieristico e ausiliario, il ritiro di molti contraccettivi dalla lista dei farmaci gratuiti e il forte ridimensionamento dell’educazione sessuale nelle scuole, le donne spagnole si troveranno, nel caso di approvazione del progetto di legge, in una sorta di percorso espiatorio che le obbligherà a rendere ragione della loro scelta.
A farne le spese saranno ovviamente le donne delle classi sociali più deboli che, sprovviste di mezzi e spesso di conoscenze, saranno costrette a ricorrere alla clandestinità mettendo a serio rischio la propria vita, così come le ragazze minorenni che dovranno ora ricorrere al consenso dei genitori, contrariamente alla legge precedente che consentiva loro, a partire dai 16 anni, di decidere autonomamente.
La riforma non risponde solo a questioni ideologiche sottese all’attuale governo ultra conservatore spagnolo (controllo dell’ordine sociale e imposizione della morale cattolica), ma anche a ragioni economiche: le condizioni pattuite con la Troika e la Ue, impongono alla Spagna un drastico taglio della spesa pubblica, realizzato in particolare nell’ambito socio-sanitario.
India: la fatica di essere donna
L’India, nazione emergente tra i colossi del capitalismo globale, è tra i primi 6 Paesi al mondo dove è pericoloso essere donna, fin dalla nascita, anzi fin dal concepimento. La nascita di una figlia non è di buon auspicio a causa del costo della futura dote (illegale dal 1961, però tuttora pretesa dalle famiglie dei mariti): con l’introduzione dell’accertamento pre-natale del sesso attraverso l’uso dell’ecografo ha preso avvio la pratica dell’aborto selettivo. Ma non è solo la vita delle potenziali bambine a essere in pericolo: poiché illegali, gli aborti selettivi vengono spesso praticati in condizioni non igieniche da operatori non qualificati o professionisti che ricorrono a mezzi tradizionali e rudimentali, al punto che ogni due ore una donna indiana muore a causa di un aborto praticato in circostanze non sicure.
In generale, comunque, nelle zone rurali soprattutto e quindi rispetto alle fasce sociali più deboli, le strutture sanitarie sono assolutamente incapaci di assolvere il loro compito costringendo le donne, anche nei casi previsti dalla legge, a ricorrere ad alternative rischiose. Se a ciò si somma il mancato investimento in programmi di educazione sessuale e di promozione dei contraccettivi tra i giovani, oltre alla possibilità dei medici di decidere se praticare o meno l’aborto sulla base di questioni “culturali” (come nel caso di donne sole seppure vittime di stupro: in India ogni venti minuti una donna viene violentata), è chiaro che per le donne la possibilità di scelta rispetto all’interruzione di gravidanza è assolutamente inesistente o pericolosa. Anche in questo caso le ragioni ideologico-culturali si intrecciano fortemente con quelle economiche: si pensi che il governo indiano investe nella spesa sanitaria in modo assolutamente irrisorio il 3,9% del Pil.
L’India, nazione emergente tra i colossi del capitalismo globale, è tra i primi 6 Paesi al mondo dove è pericoloso essere donna, fin dalla nascita, anzi fin dal concepimento. La nascita di una figlia non è di buon auspicio a causa del costo della futura dote (illegale dal 1961, però tuttora pretesa dalle famiglie dei mariti): con l’introduzione dell’accertamento pre-natale del sesso attraverso l’uso dell’ecografo ha preso avvio la pratica dell’aborto selettivo. Ma non è solo la vita delle potenziali bambine a essere in pericolo: poiché illegali, gli aborti selettivi vengono spesso praticati in condizioni non igieniche da operatori non qualificati o professionisti che ricorrono a mezzi tradizionali e rudimentali, al punto che ogni due ore una donna indiana muore a causa di un aborto praticato in circostanze non sicure.
In generale, comunque, nelle zone rurali soprattutto e quindi rispetto alle fasce sociali più deboli, le strutture sanitarie sono assolutamente incapaci di assolvere il loro compito costringendo le donne, anche nei casi previsti dalla legge, a ricorrere ad alternative rischiose. Se a ciò si somma il mancato investimento in programmi di educazione sessuale e di promozione dei contraccettivi tra i giovani, oltre alla possibilità dei medici di decidere se praticare o meno l’aborto sulla base di questioni “culturali” (come nel caso di donne sole seppure vittime di stupro: in India ogni venti minuti una donna viene violentata), è chiaro che per le donne la possibilità di scelta rispetto all’interruzione di gravidanza è assolutamente inesistente o pericolosa. Anche in questo caso le ragioni ideologico-culturali si intrecciano fortemente con quelle economiche: si pensi che il governo indiano investe nella spesa sanitaria in modo assolutamente irrisorio il 3,9% del Pil.
Usa: no comment
Nel Paese simbolo del capitalismo, nella sua forma più aggressiva ed esasperata, l’aborto è veramente al centro di un dibattito feroce e di una battaglia politica senza limiti. A seguito di una decisione della Corte Suprema nel 1973, l’aborto è un diritto garantito negli Usa durante il primo trimestre di gestazione, anche se gli Stati possono imporre regole a partire dal secondo trimestre o addirittura vietare l’aborto nell’ultimo trimestre, quando il feto è vitale al di fuori dell’utero.
Tuttavia da alcuni anni gli Stati Uniti assistono ad un’esplosione di misure restrittive al diritto all’aborto che, attraverso la legislazione statale, sta causando la chiusura di numerose cliniche e limitando gradualmente l’accesso delle donne a questa pratica: solo nel 2013 sono stati 70 gli atti restrittivi in tema di interruzione di gravidanza. Nel corso del 2013, l’Arkansas ha approvato una legge per vietare senza eccezioni l’aborto dopo dodici settimane di gestazione. In North Dakota vige il provvedimento più severo: il divieto di aborto non appena il battito cardiaco del feto viene rilevato, a circa 6 settimane di gestazione. In Texas i medici che praticano l’aborto devono ricevere l’autorizzazione di un ospedale situato ad una distanza massima di 48 chilometri, cosa che obbligherà molti centri a chiudere per la mancanza di questi permessi.
Nel Paese simbolo del capitalismo, nella sua forma più aggressiva ed esasperata, l’aborto è veramente al centro di un dibattito feroce e di una battaglia politica senza limiti. A seguito di una decisione della Corte Suprema nel 1973, l’aborto è un diritto garantito negli Usa durante il primo trimestre di gestazione, anche se gli Stati possono imporre regole a partire dal secondo trimestre o addirittura vietare l’aborto nell’ultimo trimestre, quando il feto è vitale al di fuori dell’utero.
Tuttavia da alcuni anni gli Stati Uniti assistono ad un’esplosione di misure restrittive al diritto all’aborto che, attraverso la legislazione statale, sta causando la chiusura di numerose cliniche e limitando gradualmente l’accesso delle donne a questa pratica: solo nel 2013 sono stati 70 gli atti restrittivi in tema di interruzione di gravidanza. Nel corso del 2013, l’Arkansas ha approvato una legge per vietare senza eccezioni l’aborto dopo dodici settimane di gestazione. In North Dakota vige il provvedimento più severo: il divieto di aborto non appena il battito cardiaco del feto viene rilevato, a circa 6 settimane di gestazione. In Texas i medici che praticano l’aborto devono ricevere l’autorizzazione di un ospedale situato ad una distanza massima di 48 chilometri, cosa che obbligherà molti centri a chiudere per la mancanza di questi permessi.
Denominatore comune
Limitare la libertà di scelta delle donne, o azzerarla come accade in molti Paesi, è un ottimo strumento di controllo dell’ordine sociale per cui una classe riesce a dominarne un’altra.
Le donne del Pdac, in previsione della prossima ricorrenza dell’8 marzo, pongono all’ordine del giorno la questione dell’oppressione femminile in tutte le forme in cui essa si manifesta e propongono la creazione di un coordinamento di lotta delle proletarie italiane per il pieno impiego contro flessibilità e precarizzazione, per servizi pubblici sotto il controllo delle donne e degli operatori, per consultori pubblici con libero accesso (senza limite di età), per una educazione sessuale libera, accessibile a tutti e diffusa nelle scuole, in difesa della legge 194 sull'aborto e per la sua piena applicazione anche con l'uso della pillola RU486.
Limitare la libertà di scelta delle donne, o azzerarla come accade in molti Paesi, è un ottimo strumento di controllo dell’ordine sociale per cui una classe riesce a dominarne un’altra.
Le donne del Pdac, in previsione della prossima ricorrenza dell’8 marzo, pongono all’ordine del giorno la questione dell’oppressione femminile in tutte le forme in cui essa si manifesta e propongono la creazione di un coordinamento di lotta delle proletarie italiane per il pieno impiego contro flessibilità e precarizzazione, per servizi pubblici sotto il controllo delle donne e degli operatori, per consultori pubblici con libero accesso (senza limite di età), per una educazione sessuale libera, accessibile a tutti e diffusa nelle scuole, in difesa della legge 194 sull'aborto e per la sua piena applicazione anche con l'uso della pillola RU486.
(*) responsabile Commissione Donne Pdac
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