mercoledì 14 maggio 2014

Le meraviglie di Marchionne

Vincenzo Comito. Fonte: http://www.sbilanciamoci.info/


L'amministratore delegato del gruppo Chrysler-Fiat ha presentato in pompa magna il piano industriale della società 2014-2018. Ma da dove verranno tutti i soldi per finanziare gli investimenti annunciati in presenza di un indebitamento netto che ammonta intorno ai 10 miliardi di euro?
Dopo tante attese è stato finalmente reso pubblico il piano industriale per la ChryslerFiat da qui al 2018. Bisogna preliminarmente ricordare che i programmi annunciati da Marchionne nel 2006 e nel 2010 per il solo gruppo Fiat non sono poi certo risultati realistici. In particolare quello del 2010 prometteva, come è noto, 20 miliardi di investimenti per il nostro paese, una produzione, sempre in Italia, di 1,4 milioni di vetture, nonché l’occupazione per tutti i nostri lavoratori. Ad un certo punto l’amministratore delegato era arrivato a prevedere, tra l’altro, la vendita di 500.000 Alfa Romeo all’anno.
Sappiamo come è andata a finire. Gli investimenti sono stati di qualche miliardo di euro, la produzione nel nostro paese non ha raggiunto negli ultimi anni neanche da lontano la metà di quanto promesso, negli stabilimenti ancora residui, dopo la chiusura di alcuni di essi, permane una situazione di cassa integrazione endemica; per quanto riguarda l’Alfa Romeo, nel 2013 si è toccato il fondo, con sole 73.000 unità vendute.
Oggi il gruppo italo-americano si ritrova con una redditività complessiva e dei margini operativi molto bassi, delle risorse finanziarie scarse e in diminuzione, con un portafoglio prodotti che sembra uscito da un incubo notturno di qualcuno dei suoi dirigenti, con la conseguente e continua perdita di quote di mercato in Europa, con bassissimi livelli di innovazione, in particolare sulle tecnologie verdi, nonché con vistosi buchi a livello di presenza geografica globale.
Il nuovo piano prevede investimenti per 55 miliardi di euro, per raggiungere una produzione di circa 7 milioni di vetture all’anno e per coprire alcuni buchi geografici e di fasce di mercato attualmente presenti.
La strategia, che mira in generale a spostare l’asse della produzione verso il segmentopremium, punta soprattutto sul forte sviluppo delle attività che ruotano intorno a due marchi, Jeep e Alfa Romeo.
Per quanto riguarda il primo, l’obiettivo di vendita per il 2018 è fissato in 1,9 milioni di unità all’anno, contro appena 713 mila nel 2013. Lo sviluppo si dovrebbe tra l’altro basare sul forte lancio del marchio in Cina, con tre nuovi modelli, tra cui il nuovo mini suv, che dovrebbe essere prodotto, oltre che in Cina e in Brasile, anche in Italia, nonché sullo sviluppo delle vendite, oltre che negli Stati Uniti, anche in Europa ed in America Latina.
Anche per il marchio Chrysler è prevista una crescita, anche se di dimensioni minori: si passerebbe da 350.000 a 800.000 unità.
Per il vecchio gruppo Fiat la crescita appare invece sotto tono: si passerebbe da 1,5 a 1,9 milioni di unità nel 2018, con una sostanziale stabilità in Europa e in America Latina e uno sviluppo soprattutto in Asia.
Per quanto riguarda l’Alfa Romeo, è previsto il lancio di otto nuovi modelli con investimenti per 5 miliardi di euro e il traguardo di 400.000 unità vendute nel 2018. Il marchio verrebbe, tra l’altro, finalmente reintrodotto negli Stati Uniti, oltre che anche in altre aree.
Il rilancio dell’Alfa si inserisce in un piano più complessivo di crescita della fascia alta della produzione del gruppo, con i marchi Ferrari e Maserati (le vendite di quest’ultimo brandstanno andando apparentemente bene).
Sostanzialmente stabile infine nel tempo il marchio Dodge.
Diversi sono i punti che non convincono del tutto nel nuovo piano.
Ci si chiede intanto da dove verranno tutti i soldi per finanziare gli investimenti annunciati, in presenza di un indebitamento netto che attualmente non appare del tutto leggero, ammontando intorno ai 10 miliardi di euro; al momento di chiudere l’articolo le spiegazioni in merito non erano ancora state date e comunque c’è molto scetticismo tra gli analisti e sulla stampa anglosassone.
Sul fronte dei risultati economici, mentre si annuncia un forte aumento della redditività per il 2018, i dati consuntivi per il primo trimestre del 2014 mostrano intanto una sua riduzione. Non cominciamo certo bene.
Appare d’altro canto evidente che, anche se il piano avesse successo, la presenza del gruppo in Asia, il mercato ormai maggiormente strategico per l’auto, sarebbe ancora modestissima.
Ma in generale un aumento dei volumi produttivi così marcato (l’azienda per il 2014 prevede ancora 4,4 milioni di vetture) appare difficilmente credibile. D’altro canto, gran parte degli obiettivi del piano sarebbero raggiunti soltanto nell’ultimo anno.
Per quanto riguarda in generale il polo del lusso crediamo che l’azienda si trovi di fronte ad un grosso ostacolo; i costruttori tedeschi appaiono avere tali risorse finanziarie, tecnologie e radicamento nei vari mercati da riuscire a sconfiggere qualsiasi concorrente che osasse impensierirli veramente a livello di volumi produttivi.
Per altro verso, passare da 73 mila a 400 mila unità per il gruppo Alfa in così poco tempo appare molto difficile in un segmento di mercato così complesso.
Per quanto riguarda gli Stati Uniti, tale mercato, con la forte ripresa degli ultimi anni, ha sostenuto fortemente la crescita della Chrysler; ma quanto potrà durare il boom ora che si scopre che le vendite di auto nel paese sono gonfiate da una rilevante bolla del credito (si è parlato di una situazione da sub-prime) che appare alla lunga insostenibile? Il piano prevede invece una forte ulteriore crescita su tale mercato, che gli esperti pensano stia per arrivare ad un plafonamento.
Difficile ci sembra poi che siano assorbiti tutti i dipendenti italiani, come Marchionne ha promesso. Quel poco che abbiamo sentito in proposito non ci convince pienamente, anche se indubbiamente il piano potrebbe perlomeno portare ad un quadro notevolmente migliore, mentre nessuno parla peraltro dei dipendenti degli uffici centrali di Torino, che, con il trasferimento del quartier generale in Gran Bretagna, potrebbero perdere il posto.

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