Mal comune mezzo gaudio, noi Italiani stiamo con le pezze
al sedere, anzi ormai mostriamo le
chiappe al vento, ma se anche la grande Germania comincia a denunciare qualche
sgarro sul fondo schiena non c’è che da essere contenti. Se cala l’economia
della locomotiva d’Europa, cosa si pretende dall’ultimo vagone del convoglio?
Si pretenderebbe, magari, un tasso di
disoccupazione un po’ meno drammatico e un debito pubblico più umano.
In questi
giorni abbiamo letto e ascoltato analisi diverse e variegate: E’ finita la festa delle esportazioni per le
Merkel, i maggiori clienti europei dell’economia tedesca sono in crisi, proprio
in virtù delle politiche del rigore volute dai teutonici, per cui a comprare le merci made in
Deutscheland devono pensarci anche i
nativi germanici. A questo si aggiunge
il mantra generale delle riforme buone per tutte le nazioni ,Germania compresa.
Una faccenda talmente improcrastinabile da costringere il capo della BCE Mario
Draghi a suggerire di affidare questo difficile esercizio direttamente ad un
organismo economico europeo sottraendolo
alla podestà dei singoli Stati.
E’
necessaria la crescita, ma il rigore sui conti imposto dall’Unione europea è il
primo fattore ad impedirla. Calma e gesso. Con le famose riforme si può far ripartire
l’impantanata economia dell’Eurozona. Ma in cosa consistono ste’ benedette
riforme? Niente che non si sia già visto.
Flessibilizzazione del lavoro, soprattutto in uscita, svendita del
patrimonio pubblico ai privati, deregolamentazione e defiscalizzazione delle attività finanziarie, tagli alla spesa sociale, in termini di
prestazioni, evidentemente, e non di sprechi.
In parole povere un ulteriore travaso di ricchezza dal lavoro alla
rendita. Operazione che peraltro ha già prodotto l’attuale disastro economico.
Orbene se questi sono gli indirizzi la
crisi non finirà mai e a cadere, uno dopo l’altro, saranno anche gli Stati più
ricchi. Il ragionamento è molto semplice. Per quanto ci si voglia sforzare nel
creare denaro dal nulla con la speculazione finanziaria , con la valorizzazione
delle rendite, dei patrimoni, la
ricchezza ancora oggi è prodotta dal lavoro. Come funziona? Il lavoro produce un oggetto ad un costo di 10, questo si vende a 15 e si realizza un guadagno di 5.
Tutto il resto è aria fritta.
Il realizzo di 5 può essere reinvestito sulla produzione consentendo di fabbricare merci migliori, più efficienti, e quindi di realizzare profitti maggiori. Oppure può essere indirizzato
verso la speculazione finanziaria, nell’acquisizione di rendite e patrimoni. La prima operazione
consente il famigerato sviluppo. La seconda invece, tendendo a produrre un accumulo di ricchezza veicolato in un circolo chiuso che si accresce autonomamente ad ogni
giro di giostra -nelle cui dinamiche di autoconservazione entrano spesso
condotte mafiose e camorriste - blocca lo sviluppo e la crescita, togliendo
risorse alla produzione delle merci.
Un sistema, quest’ultimo, destinato ad
autodistruggersi perché quando anche l’ultimo centesimo sarà sottratto al
lavoro, verrà meno il sistema originario per cui si realizza quel “5” che può
essere reinvestito nella speculazione finanziaria . Se manca quel “5” nessuna rendita sarà più sfruttabile,
nessun patrimonio potrà essere valorizzato, nessun investimento finanziario
sarà più possibile. Se finisce la mortadella perché i soldi necessari a
produrla sono destinati alla speculazione finanziaria, anche il più abile
broker o banchiere, prima o poi, morirà di fame. Il denaro non si mangia.
Per
rendere la questione in termini più tecnici si può dire che alla base della
circolazione monetaria vi è il prodotto ( monetario) generato dal settore delle merci. Prodotto che si ottiene attraverso il lavoro. Il flusso
monetario che scaturisce dai ricavi di questo settore permette di remunerare i
lavoratori in esso impiegati e
l’”eccedenza” si ripartisce tra il settore pubblico (nelle varie forme di
prelievo fiscale e di contributi previdenziali) e i percettori di reddito
d’impresa (profitti e varie forme di
rendita). Il reddito dei lavoratori (al netto delle imposte) finanzia la loro spesa (e quella dei
famigliari) per il consumo di merci e dei servizi venduti dal settore pubblico e
dal terzo settore.
In buona sostanza la
moneta proveniente dal lavoro permette di sostenere i salariati, pubblici e
privati, i servizi e le protezioni sociali,
l’acquisizioni di profitti e rendite. Se quest’ultima voce, grazie alle così
dette invocate riforme diventa talmente
ipertrofica da divorare le altre categorie: cioè il settore pubblico che offre i
servizi , il terzo settore, fino a minacciare la quota destinata alla
remunerazione del lavoro, prima o poi il sistema crollerà.
Non è difficile da
capire, ma fino a che il gioco sarà in mano proprio a coloro i quali hanno come
scopo l’acquisizione di profitti e rendite, nessuna controtendenza alla crisi
potrà essere avviata. E il processo ahimè sarà irreversibile. Non sarebbe forse
ora di ridare ossigeno al comprato ch è il vero motore dell’economia, cioè
quello del lavoro? Se i signori delle
rendite e della speculazione finanziaria (i famosi rentier odiati perfino da
Keynes) strilleranno un po’
pazienza. Non sarebbe certo una
catastrofe se il 10% della popolazione
che possiede il 90% delle ricchezze mondiali stringesse un po’ la cinghia per
allevare i morsi della macelleria sociale che essa stessa ha prodotto. Meglio
qualche milione in meno di profitti e
qualche tonnellata di mortadella in più… O no?
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