sabato 16 agosto 2014

Meno rendite, più mortadella

Luciano Granieri


Mal comune  mezzo gaudio, noi Italiani stiamo con le pezze al sedere, anzi ormai  mostriamo le chiappe al vento, ma se anche la grande Germania comincia a denunciare qualche sgarro sul fondo schiena non c’è che da essere contenti. Se cala l’economia della locomotiva d’Europa, cosa si pretende dall’ultimo vagone del convoglio? Si pretenderebbe, magari,  un tasso di disoccupazione un po’ meno drammatico e un debito pubblico più umano. 

In questi giorni abbiamo letto e ascoltato analisi diverse e variegate:  E’ finita la festa delle esportazioni per le Merkel, i maggiori clienti europei  dell’economia tedesca sono in crisi, proprio in virtù delle politiche del rigore volute dai teutonici,  per cui a comprare le merci made in Deutscheland  devono pensarci anche i nativi germanici.  A questo si aggiunge il mantra generale delle riforme buone per tutte le nazioni ,Germania compresa. Una faccenda talmente improcrastinabile da costringere il capo della BCE Mario Draghi a suggerire di affidare questo difficile esercizio direttamente ad un organismo economico  europeo sottraendolo alla podestà dei  singoli Stati. 

E’ necessaria la crescita, ma il rigore sui conti imposto dall’Unione europea  è  il primo fattore ad impedirla. Calma e gesso.  Con le famose riforme si può far ripartire l’impantanata economia dell’Eurozona. Ma in cosa consistono ste’ benedette riforme? Niente che non si sia già visto.  Flessibilizzazione del lavoro, soprattutto in uscita, svendita del patrimonio pubblico ai privati, deregolamentazione e defiscalizzazione  delle attività finanziarie,  tagli alla spesa sociale, in termini di prestazioni, evidentemente, e non di sprechi.  In parole povere un ulteriore travaso di ricchezza dal lavoro alla rendita. Operazione che peraltro ha già  prodotto l’attuale disastro economico. 

Orbene se questi sono gli  indirizzi la crisi non finirà mai e a cadere, uno dopo l’altro, saranno anche gli Stati più ricchi. Il ragionamento è molto semplice. Per quanto ci si voglia sforzare nel creare denaro dal nulla con la speculazione finanziaria , con la valorizzazione delle rendite, dei patrimoni,  la ricchezza ancora oggi è prodotta dal lavoro. Come funziona?  Il lavoro produce  un oggetto  ad un costo di 10, questo  si  vende a 15 e si realizza un guadagno di 5. Tutto il resto è aria fritta. 

Il realizzo di 5  può  essere reinvestito  sulla produzione  consentendo di fabbricare  merci migliori,  più efficienti, e quindi di realizzare  profitti maggiori. Oppure può essere indirizzato verso la speculazione finanziaria, nell’acquisizione di  rendite e  patrimoni. La prima operazione consente il famigerato sviluppo.  La  seconda invece,  tendendo  a produrre un accumulo di ricchezza  veicolato  in un circolo  chiuso che si accresce autonomamente ad ogni giro di giostra -nelle cui dinamiche di autoconservazione entrano spesso condotte mafiose e camorriste -   blocca lo sviluppo e la crescita, togliendo risorse alla produzione delle merci. 

Un sistema, quest’ultimo, destinato ad autodistruggersi perché quando anche l’ultimo centesimo sarà sottratto al lavoro, verrà meno il sistema originario per cui si realizza quel “5” che può essere reinvestito nella speculazione finanziaria . Se manca quel  “5” nessuna rendita sarà più sfruttabile, nessun patrimonio potrà essere valorizzato, nessun investimento finanziario sarà più possibile. Se finisce la mortadella perché i soldi necessari a produrla sono destinati alla speculazione finanziaria, anche il più abile broker o banchiere, prima o poi, morirà di fame. Il denaro non si mangia. 

Per rendere la questione in termini più tecnici si può dire che alla base della circolazione monetaria vi è il prodotto ( monetario) generato dal  settore delle merci. Prodotto  che si ottiene attraverso il lavoro. Il flusso monetario che scaturisce dai ricavi di questo settore permette di remunerare i lavoratori in esso  impiegati e l’”eccedenza” si ripartisce tra il settore pubblico (nelle varie forme di prelievo fiscale e di contributi previdenziali) e i percettori di reddito d’impresa  (profitti e varie forme di rendita). Il reddito dei lavoratori (al netto delle imposte)  finanzia la loro spesa (e quella dei famigliari)  per il consumo di merci  e dei servizi venduti dal settore pubblico e dal terzo settore.  

In buona sostanza la moneta proveniente dal lavoro permette di sostenere i salariati, pubblici e privati,  i servizi e le protezioni sociali, l’acquisizioni di profitti e rendite. Se quest’ultima voce, grazie alle così dette  invocate riforme diventa talmente ipertrofica da divorare le altre categorie: cioè il settore pubblico che offre i servizi , il terzo settore, fino a minacciare la quota destinata alla remunerazione del lavoro, prima o poi il sistema crollerà. 

Non è difficile da capire, ma fino a che il gioco sarà in mano proprio a coloro i quali hanno come scopo l’acquisizione di profitti e rendite, nessuna controtendenza alla crisi potrà essere avviata. E il processo ahimè sarà irreversibile. Non sarebbe forse ora di ridare ossigeno al comprato ch è il vero motore dell’economia, cioè quello del lavoro?  Se i signori delle rendite e della speculazione finanziaria (i famosi rentier odiati perfino da Keynes)   strilleranno un po’ pazienza.   Non sarebbe certo una catastrofe se  il 10% della popolazione che possiede il 90% delle ricchezze mondiali stringesse un po’ la cinghia per allevare i morsi della macelleria sociale che essa stessa ha prodotto. Meglio qualche milione in meno di  profitti e qualche tonnellata di mortadella in più… O no?


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