mercoledì 1 ottobre 2014

Art.18 ragioniamo senza pregiudizi

Luciano Granieri


 L’art.18 è un totem, è una norma obsoleta, è un vecchio simulacro di una sinistra che non esiste più, è “come un rullino per una fotocamera nell’era delle macchinette digitali”, per usare una definizione di Renzi. Bene. Allora cerchiamo di ragionare liberandoci da deteriorati e stantii pregiudizi e guardiamo la faccenda in un ottica più generale. 

Secondo Renzi è necessario  accrescere il grado di flessibilità in uscita. “Un imprenditore avrà pure  il diritto di disfarsi di  collaboratori che in quel momento non gli sono necessari senza passare per la sentenza di un giudice” così si esprimeva il Presidente del consiglio nella trasmissione “Che tempo che fa”. La concessione di questo diritto aprirebbe la strada ad investimenti da parte delle grandi imprese con conseguente creazione di posti di lavoro. Il ragionamento potrebbe filare, ma non è né rivoluzionario, come vorrebbe far credere Renzi, né efficace come dimostra quanto è avvenuto da 30 anni a questa parte. 

E’ dal 1984 infatti che si provvede ad assicurare i diritti degli imprenditori sopra citati. Si comincia con l’introduzione del part-time, e dei contratti di solidarietà (1984, protocollo Scotti), si prosegue con l’estensione dei contratti a termine in tutti i settori (legge 56  del1987) . Nel 1990 si limita il diritto di sciopero e la legge 236 del 1994,aggiunge la possibilità di assumere lavoratori con contratto di stage in apprendistato. Nel 1996 si estende l’uso dei contratti di solidarietà ( i lavoratori si fanno in parte carico delle eventuali difficoltà economiche dell’imprenditore diminuendosi lo stipendio). 

Nel 1997 il pacchetto Treu è oro per i diritti dell’imprenditore. Si introduce il lavoro interinale, si estende ulteriormente l’uso dei contratti a termine e a tempo parziale. Secondo l’allora ministro del lavoro del governo Prodi (centro sinistra, allora è vizio.) la flessibilizzazione del lavoro, avrebbe prodotto maggiore occupazione. In realtà si determinò un processo di sostituzione del lavoro a tempo determinato con quello precario. Ed è  ciò che sta avvenendo oggi con il decreto Poletti. (Quello che allunga a 36 mesi la durata dei contratti a tempo determinato, senza causale, con la possibilità di reiterarli per 5 volte). 

Nel 2001 irrompe il libro bianco del lavoro del ministro Sacconi e del giuslavorista Marco Biagi. La legge 30 del 14 febbraio 2003 ne recepisce le  direttive. Cioè: flessibilità in uscita tramite revisione dell’art.18, privatizzazione degli uffici di collocamento, liberalizzazione delle agenzie interinali, ammissibilità della somministrazione di mano d’opera. Ovvero la possibilità per  le aziende con più di 15 dipendenti di costituire nuove società più piccole, in modo da vanificare gli effetti dell’art.18. 

Arriviamo a tempi più recenti. 2011 L’art.11 della legge 138 (Decreto Sacconi, ancora lui) introduce forme di contrattazione in deroga al contratto nazionale del lavoro inerenti a materie come, modalità di assunzione, disciplina del rapporto di lavoro , licenziamenti. Infine la legge Fornero, che introduce il lavoro a tempo determinato senza causale, limitandolo però a 12 mesi e senza possibilità di reiterazione,  e  il recente, già citato, decreto Poletti, primo danno fatto dalla reggenza Renzi, che peggiora la norma della Fornero. 

In questi 30 anni di devastazione dei diritti dei lavoratori non un solo posto di lavoro in più è stato ottenuto. Al massimo si è assistito alla sostituzione di contratti a tempo indeterminato con contratti precari.  Ma forse questo è un principio  che va nella direzione, voluta da Renzi:  ridurre cioè la differenza fra lavoratori tutelati e quelli non tutelati. Nel senso però  di togliere diritti a chi ce li ha per renderli pari a chi non li ha. 

Dunque, come ci insegna il passato,  la nuova stagione di flessibilizzazione imposta dal Presidente del consiglio non produrrà l’aumento dell’occupazione, anzi renderà i lavoratori ancora più deboli nella contrattazione,  costretti a subire la probabile compressione dei salari. Un fenomeno che non aiuterà certo la crescita. 

E veniamo al secondo obbiettivo del Jobs Act. Se da un lato si tutela il diritto a licenziare dell’imprenditore, dall’altro ci pensa lo Stato a far campare decentemente i licenziati. Come? Con un programma di reintroduzione al lavoro dei disoccupati, attraverso un centri per l’impiego efficienti e con l’erogazione di sussidi di disoccupazione per tutti coloro a cui un lavoro non è stato ancora trovato.  Interessante, ma praticamente come funzionerebbe?  

Dovrebbe trattarsi, di reddito minimo, cioè legato alla perdita del lavoro. Presumo inoltre che sarebbe necessario  ricostituire un vero centro per l’impiego pubblico. La miriade di agenzie per il lavoro private sono inefficaci per lo scopo indicato da Renzi,  chiunque ne abbia avuto esperienza lo può confermare. Ipotizziamo  delle cifre. Considerando un reddito minimo di 500 euro mensili, per una popolazione di 6 milioni di soggetti ,fra disoccupati e inattivi, (fonte Istat) sarebbero necessari 36 miliardi lordi, considerando il risparmio che si otterrebbe dall’eliminazione degli attuali ammortizzatori (13 miliardi) si determinerebbe  una spesa di 23 miliardi oltre agli oneri  di riorganizzazione del centro per l’impiego . Dove li prendono tutti stì soldi?  

Esiste ad esempio  l’ipotesi di trasferire gran parte della spesa sociale dalla fiscalità del lavoro, alla fiscalità generale? Non si sa, è tutto affidato al governo attraverso la legge delega. Considerato i danni  già fatti dall’esecutivo non solo nel campo del lavoro, con il decreto Poletti,  ma anche con il pasticcio della riforma del Senato, con il decreto Sblocca Italia ancora privo delle coperture e neanche arrivato sulla scrivania del Capo dello Stato per la firma, la cosa non lascia tranquilli. Anzi fa presagire il peggio. Siamo in balia di una masnada di incompetenti e presuntuosi, ottusi, ma  utili ed efficienti esecutori dei voleri del capitale finanziario. Andrebbero fermati in tempo.

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