martedì 16 dicembre 2014

La lotta antirazzista di Lady Day

Luciano Granieri


Non c’era cotone da raccogliere tra il Leon & Eddie’s  e l’East River (locali di New York ndr), ma credetemi, da qualunque punto di vista la guardaste, era vita  da piantagione. E noi non andavamo lì per guardare; dovevamo viverci. Fraternizzare coi bianchi era proibito nel modo più assoluto : appena finito il nostro numero, ci toccava scappar via dalla porta posteriore e metterci a sedere nel vicolo fuori” Questo era lo scenario che Billie Holiday descrive della sua esperienza unica, per l’epoca, di cantante nera all’interno di un orchestra di bianchi.  Siamo nel 1938 Lady Day è la stella assoluta della Big Band di Artie Shaw. Impazza la “swing era”, il jazz è poco più che musica da ballo, non serve per pensare, né per evocare cose tristi. Ma la presenza di Billie, nera,  con la sua voce particolare  dalle sonorità evocanti un  sassofono tenore, anticipatrice del jazz che verrà, è  un cazzotto allo stomaco del perbenismo ipocrita e spensierato che aleggia nei club della 52° a New York. Nonostante fosse una gemma assoluta nel panorama vocale del jazz di tutti i tempi, Billie Holiday,  per accedere ai locali dove si esibiva con la Big Band, doveva passare dalla porta  riservata al personale di servizio, mentre i suoi colleghi entravano dagli ingressi principali. La band alloggiava nei grandi alberghi interdetti ai neri. Per lei quindi solo squallide camere in sudice pensioni di periferia. Non poteva neanche cenare con i suoi colleghe bianchi,  perché lei, non solo era nera, ma era anche donna. Unica donna dell’orchestra. Tutto questo subiva Billie,  nel mondo spensierato della “swing era”, Ma nonostante le umiliazioni e gli insulti, lei continuava forte delle sue doti canore ed espressive. Continuava per essere d’esempio, per dimostrare che se un’artista, donna e nera, riusciva a sfondare, anche altre in futuro ci sarebbero riuscite. Fu l’anno dopo nel 1939, che  Lady Day decise di mostrare la sua rabbia anche attraverso  l’esecuzione del  brano. “Strange Fruit”. Una canzone scritta da Abel Meeropol.  Un  professore  ebreo-russo del Bronx, attivista del partito comunista americano. L’insegnante rimase profondamente impressionato dalle foto del linciaggio, avvenuto a Marion  nell’Indiana, di due neri Thomas Shipp  ed Abram  Smith, trucidati ed impiccati ad un albero.  Quelli erano gli strani frutti degli alberi del sud. “Gli alberi del sud danno uno strano frutto, sangue sulle foglie e sangue sulle radici,un corpo nero dondola nella brezza del sud, strano frutto appeso agli alberi di pioppo”. Barney Johnson il proprietario del Cafè Society,locale dove in quel periodo si esibiva Billie, ascoltò il brano divenuto molto popolare negli ambienti della sinistra statunitense e decise di far conoscere ad Holiday  Abel Meeropol il quale chiese alla cantante di eseguire la sua composizione. Billie  Holiday, che aveva subito le angherie del razzismo fin dalla nascita, che dovette assistere alla morte del padre,  colpito da polmonite, perché tutti gli ospedali della zona si rifiutarono di ricoverare un nero, accettò immediatamente. Con questo brano di protesta Billy Holiday raggiunse la fama mondiale che la annovera ancora oggi fra le artiste più significative della musica jazz. Ma le difficoltà non mancarono. Durante le esibizioni negli stati del sud “Strange Fruit” non poteva essere eseguita. A Mobile, nell’Alabama,  Lady Day venne cacciata solo per aver accennato qualche nota della melodia . La Columbia Records, sua  etichetta discografica abituale, si rifiutò di produrre il brano, senza fornire alcuna spiegazione plausibile. Una piccola casa discografica ebrea di New York permise all’artista di pubblicare il pezzo, consentendo la divulgazione di una capolavoro, divenuto ormai un classico della   musica afro-americana.  Fu così che la  forte e fragile Billie Holiday oltre che una grande artista divenne un’icona nella lotta per i diritti civili del popolo afroamericano.

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