Passato il battage mediatico e la passerella del Presidente
del Consiglio per magnificare la rivoluzione copernicana sul lavoro, passata la
festività natalizia e tornata la mente fredda, cosa rimane di rivoluzionario
nel jobs act? Notevolmente rivoluzionario è il fatto che il Governo,
diventi parte attiva nella lotta di classe e si schieri nettamente, non in
favore dei lavoratori, ma smaccatamente dalla parte dei padroni.
Nel contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti si
abolisce l’articolo 18 contro i licenziamenti senza giusta causa. Come se ciò non fosse abbastanza grave, al
danno si aggiunge la beffa, o meglio la presa in giro. Infatti nella trionfale
conferenza stampa della vigilia di Natale, Matteo Renzi, lisciava il pelo alla
minoranza interna del suo partito, ringraziandola dell’impegno profuso nell’inserire
la reintegra in caso di licenziamento per scarso rendimento. Non è vero che le
tutele dell’articolo 18 sono del tutto scomparse, secondo il Presidente del
Consiglio, rimane l’obbligo di reintegrare i lavoratori licenziati per scarso
rendimento, ove il limitato impegno dell’addetto non sia dimostrato.
Scommettiamo che dall’entrata in vigore della legge in poi i licenziamenti per
scarso rendimento saranno pari a zero? Infatti il datore di lavoro licenzierà
esclusivamente per motivi economici. Motivazioni che, anche se palesemente infondate,
prevedono esclusivamente un misero indennizzo pecuniario pari a due mensilità
per ogni anno lavorato. Basta farsi due conti. Nella legge di stabilità è
previsto che le azienda disposte ad assumere con la
nuova tipologia di contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti,potranno godere di benefici fiscali fino a 8mila euro l’anno per tre anni, vale a dire 24mila
euro tondi tondi. D’altra parte le stesse aziende hanno la possibilità di
licenziare quando e come vogliono, per motivi economici, i lavoratori assunti
con la nuova tipologia contrattuale rischiando, nel caso di licenziamento immotivato, un indennizzo
esiguo: si tratta di una somma pari a 5 o
6 mila euro.
Che questa sia una norma decisamente
favorevole ai padroni e lesiva dei diritti dei lavoratori è palese. Senza
contare che partendo da questi presupposti il lavoratore dovrà subire ogni tipo di ricatto ed accettare
qualsiasi salario, per non rischiare il licenziamento. Ma nel jobs act c’è di più. Il dispositivo della legge delega si estende
anche ai licenziamenti collettivi, quelli cioè che coinvolgono più di cinque
lavoratori.
Il ricorso al licenziamento collettivo, è regolato dalla legge 223
del 1991. Una norma che prevede procedure precise nella gestione delle crisi
aziendali , con il coinvolgimento dei
sindacati, l’impegno a trovare possibili accordi e ridurre al minimo gli esuberi utilizzando gli
ammortizzatori sociali e l’obbligo di adottare criteri di tutela per le categorie
più deboli. Tutto ciò salta. Un’azienda in grado di licenziare un numero
imprecisato di addetti senza il rischio di doverli reintegrare, se ne fregherà
di trattare con i sindacati, si farà beffe della legge 223 del 1991. Se il jobs act fosse stato in
vigore all’epoca della crisi Indesit tutti i 1.400 lavoratori in esubero
sarebbero stati licenziati in tronco e senza appello. Le trattative che hanno portato ai contratti di
solidarietà e sostanzialmente ad una risoluzione della vertenza non sarebbero
mai iniziate. Quand’anche l’azienda dovesse incorrere in errori procedurali nei
criteri di selezione del personale da licenziare, il diritto alla reintegra sarebbe comunque negato. Non è facile prevedere errori commessi a bella posta dalle imprese
per licenziare lavoratori indesiderati,
magari iscritti ad un sindacato poco gradito.
Ma veniamo alla parte definita
più rivoluzionaria, quella dei nuovi ammortizzatori sociali. L’annuncio di Renzi in merito all’Aspi, il
sussidio di disoccupazione per tutti con una durata massima di 24 mesi, è falso.
Ad usufruirne infatti saranno quei pochi i lavoratori precari, se esistono, che dal 2007 ad oggi hanno lavorato senza interruzioni
retributive, e comunque a patire dal
2017 la durata dell’indennità passerà da 24 mesi a 78 settimane, poco meno di
un’anno e mezzo. Resta comunque il fatto che queste nuove tutele estese sono
senza copertura finanziaria per cui per adesso rimangono solo buone intenzioni.
Va poi considerato che
tutto il dispositivo mancherà completamente l’obbiettivo per il quale è stato
pianificato, quello cioè di creare occupazione. Un tasso di disoccupazione al
12% non si affronta riducendo ulteriormente le tutele dei lavoratori, ma
investendo su ricerca e innovazione in modo che le aziende possano produrre
prodotti e servizi innovativi che abbiano mercato e creare lavoro.
Che Renzi e i suoi giannizzeri, marionette
del padronato capitalistico finanziario post moderno, abbiano partorito un tale
devastante piano non stupisce affatto. Emerge invece l’ignavia di quegli
esponenti della minoranza Pd i quali hanno fatto fuoco e fiamme contro il jobs
act e poi come agnellini impauriti si sono accodati al gregge. Eppure l’occasione
di tradurre in fatti concreti i proclami copiosamente diffusi sui media contro
la delega in bianco al Governo c’è stata. Quando il jobs act è tornato al
Senato dopo il maquillage subito alla Camera i 27 senatori del Pd, dichiaratisi
contrari alla legge, hanno votato favorevolmente con una capriola
degna dei migliori acrobati circensi. Il risultato della votazione è impietoso
verso questi voltagabbana e li inchioda alle loro responsabilità. In quella
seduta 166 furono i voti favorevoli, 112 contrari ed un astenuto. Se i 27 paladini dei lavoratori ( a parole)
avessero votato secondo coerenza i numeri sarebbero stati molto diversi:
139 contrari, 139 favorevoli, un
astenuto, al Senato l’astensione vale come voto contrario e il pasticcio non
sarebbe passato. Che la smettano allora quelli della ditta di abbaiare alla
luna, ammettano che non possono permettersi di far cadere il Governo perché in
caso di prossime elezioni non sarebbero più ricandidati dal vendicativo segretario. Anche la CGIL con il suo sciopero generale tardivo, a legge approvata, ha mostrato
inadeguatezza e pressapochismo nel combattere una battaglia vitale per la
dignità dei cittadini.
E’ tutto perso ? No ma come al solito tocca difendersi
da soli. Oltre che continuare ed
inasprire il conflitto nelle piazze, i lavoratori
potrebbero impugnare i licenziamenti e ricorrere in giudizio. Infatti la sanzione di un semplice indennizzo, a
fronte dell’immane torto subito per un licenziamento ingiustificato, è
inadeguata rispetto a quanto stabilisce l’art. 2016 del codice civile sulla giusta
proporzione fra sanzione ed infrazione. Poi resta la strada dl referendum
abrogativo. Una via abbastanza semplice
come sostiene Pier Giovanni Alleva su “il manifesto” di ieri. Occorrerà del tempo prima che i contratti a tutele crescenti prendano piede. Esiste
dunque uno spazio temprale adeguato per organizzare la consultazione. L’abrogazione
della nuova norma, fra l’altro, non
creerebbe vuoto legislativo perché automaticamente verrebbe sostituita dal
dispositivo tutt’ora in vigore che
prevede le tutele dell’art.18. Dunque sarà il giudizio dei lavoratori a
inchiodare un dispositivo che va proprio contro i lavoratori.
Sotto con la raccolta delle firme dunque.
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