lunedì 25 maggio 2015

Il vento del jazz, l’A.A.C.M. fa cinquanta

Luigi Onori  da "Alias" del 23 maggio

Nell’affastellarsi di ricor­renze (sessant’anni dalla morte di Char­lie Par­ker, cent’anni dalla nascita di Bil­lie Holi­day, i settant’anni com­piuti l’8 mag­gio da Keith Jar­rett…) un anniversario  signi­fi­ca­tivo sem­bra essere sfug­gito ai più.
Dall’esperienza nei primi anni Ses­santa dell’Experimental Band — gui­data dal pia­ni­sta Richard Abrams — e da quella dura­tura della Fede­ra­zione Musi­ci­sti afroa­me­ri­cani Local 208 nasce a Chi­cago nel mag­gio 1965 l’A.A.C.M.: Asso­cia­tion for the Advan­ce­ment of Creative Musi­cians. Que­sta par­ti­co­lare asso­cia­zione fu fon­data da Abrams (che si guadagnò il soprannome di «Muhal», il primo), dal trom­bet­ti­sta– poli­stru­men­ti­sta Phil Coh­ran, dal batterista  Steve McCall e dal pia­ni­sta Jodie Chri­stian. Dopo cinquant’anni l’A.A.C.M. esi­ste ancora, è un orga­ni­smo vivo che forma e genera musi­ci­sti, ani­mata non solo da «testi­moni» di un’esperienza lon­tana ma da jaz­zi­sti di gene­ra­zioni recenti, aperta al con­ti­nuo con­fronto con la realtà musi­cale e socioculturale.
Lo spes­sore storico-estetico– sociale dell’A.A.C.M. è stato, in effetti, recen­te­mente testi­mo­niato dall’album Made in Chi­cago a nome di Jack DeJoh­nette (Ecm/Ducale, 2015) che vede pro­ta­go­ni­sti Muhal Richard Abrams, i poli­stru­men­ti­sti Roscoe Mit­chell e Henry Thread­gill non­ché il con­trab­bas­si­sta Larry Gray. Nell’Italia jazzistico/concertistica, spesso pro­vin­ciale, la viva­cità della scena di Chi­cago e della sua asso­cia­zione «sto­rica» sono stati apprez­zati nell’edizione estiva 2009 di «Umbria Jazz». Uno dei mag­giori espo­nenti dell’A.A.C.M., il trom­bo­ni­sta e com­po­si­tore George Lewis — figura polie­drica di arti­sta vinci­tore del prestigioso  pre­mio McAr­thur non­ché docente alla Colum­bia Uni­ver­sity — fu inter­vi­stato da Enzo Capua per la rivi­sta Musica Jazz: da lì nac­que l’idea di com­mis­sio­nare a Lewis un progetto per «Umbria Jazz» e il trom­bo­ni­sta coin­volse l’intera asso­cia­zione. Portò così a Peru­gia un ori­gi­nale ensem­ble inter­ge­ne­ra­zio­nale di venti musi­ci­sti, affi­dando a vari compositori i sei con­certi in pro­gramma. Suo­na­rono, tra gli altri, il vete­rano sassofoni­sta Ernest Daw­kins, il gio­vane voca­list Saa­lik Zyiad, l’eccezionale polistrumentista Dou­glas Ewart, i sas­so­fo­ni­sti Edward House e Mwata Bow­den, lo stesso — stre­pi­toso — Lewis, la violinista Renée Baker, la fasci­nosa can­tante Dee Ale­xan­der (a «Umbria Jazz Win­ter» 2010 e 2011 con il suo Evolution Ensem­ble), la vio­lon­cel­li­sta Tomeka Reid e la flautista-compositrice Nicole Mitchell (tra l’altro pre­si­den­tessa dell’A.A.C.M.
Quella che viene in modo sem­pli­ci­stico defi­nita come la «scuola di Chi­cago», iden­ti­fi­cata tout-court con l’Art Ensem­ble of Chi­cago (con Lester Bowie, Roscoe Mit­chell, Joseph Jarman, Mala­chi Favors e, in seguito, Don Moye) e assi­mi­lata senza troppi distin­guo al free neces­sita, invece, di essere osser­vata più da vicino. Intanto il con­te­sto sto­rico della nascita dell’A.A.C.M. Esso vede musi­cal­mente mol­ti­pli­carsi i cen­tri pro­dut­tori del jazz (con­tro la «supre­ma­zia new­yor­kese») ed è for­te­mente legato all’effervescente situa­zione della seconda metà degli anni Ses­santa con la matu­ra­zione di movi­menti e par­titi radi­cali, alla situa­zione cri­tica ed esplo­siva di molti ghetti neri, ai primi effetti di una legi­sla­zione più egua­li­ta­ria, strap­pata dagli afroa­me­ri­cani dopo la lunga sta­gione della lotta per i diritti civili. In que­sto senso l’A.A.C.M. fa parte di una serie di realtà socio-sonore che vedono a Los Ange­les la Pan Afri­kan Peo­ple Arke­stra del pia­ni­sta Horace Tap­scott, a Detroit l’Artists Work­shop (1964), a St. Louis il col­let­tivo mul­ti­me­diale Bag, Black Artists Group (1968), a New York il Jazzmobile (1964, attivo ad Har­lem e diretto dal pia­ni­sta Billy Taylor) e il Col­lec­tive of Black Artists che avrà tra i suoi lea­der il con­trab­bas­si­sta Reg­gie Workman.
I jaz­zi­sti di Chi­cago, e non solo, si pon­gono in un con­te­sto sociale spesso degra­dato, intendono rea­gire alla man­canza di scrit­ture o al loro con­trollo da parte di agenti e sindacati «bian­chi», vogliono for­nire strut­ture associativo/educative e spazi di sperimenta­zione crea­tiva. È bene ricor­dare che in quin­dici anni (1950–1965) la «Windy City» era pas­sata dal 14 al 28% dei neri, rispetto alla popo­la­zione glo­bale. I quat­tro fondatori hanno le idee chiare, preparano  uno sta­tuto arti­co­lato dando molto rilievo alle radici storico-sonore, pun­tano sulla scuola di musica che verrà fon­data nel 1967. Il program­ma­tico «crea­tive», però, sottolinea  l’apertura alle inno­va­zioni e alle sperimentazioni. Come afferma lo stu­dioso e storico  Clau­dio Sessa (in un volume di pros­sima pub­bli­ca­zione, seconda parte della sua tri­lo­gia dedi­cata a Le età del jazz, Il Sag­gia­tore; si rin­gra­zia l’autore) «nella disil­lusa realtà cit­ta­dina l’associazione rac­co­glie subito decine di musi­ci­sti fra i quali emer­gono alcune delle figure cen­trali degli anni suc­ces­sivi, in primo luogo molti sas­so­fo­ni­sti: Roscoe Mit­chell, Anthony Brax­ton, Joseph Jar­man, Henry Thread­gill, John Stub­ble­field. Ma ci sono anche i trom­bet­ti­sti Lester Bowie e Leo Smith, la tastie­ri­sta e can­tante Amina Myers, i contrabbassisti Char­les Clark (…) e Mala­chi Favors, il vio­li­ni­sta Leroy Jen­kins, i bat­te­ri­sti Thur­man Bar­ker e Phi­lip Wil­son. È un vivaio di talenti che si sti­mo­lano l’un l’altro, dando vita ad una scuola cui guarda con lun­gi­mi­ranza un’industria disco­gra­fica locale che (…) ha ancora una buona visibilità».
Gra­zie, infatti, alle eti­chette Del­mark (ben radi­cata nel blues) e Nessa (coeva all’associazione) tra il 1966 e il ’69 una doz­zina di album testi­mo­niano la musica che fuoriesce impe­tuosa dall’A.A.C.M. È dove­roso subito dire che nei decenni suc­ces­sivi saranno soprat­tutto le case disco­gra­fi­che indi­pen­denti euro­pee a dare spa­zio al jazz di Chicago, dalla Black Lion alle ita­liane Black Saint e Soul Note. Il corag­gio e la lun­gi­mi­ranza del pro­dut­tore Gio­vanni Bonan­drini in par­ti­co­lare darà, a par­tire dalla fine degli anni Settanta, un significativo  spa­zio disco­gra­fico ai «crea­tivi» chi­ca­goani e la Cam­Jazz, che ha rile­vato quelle etichetta, sta edi­tando una serie di cofa­netti di ristampe di alto valore documen­ta­rio (R. Abrams, L. Bowie, G. Lewis, A. Brax­ton, H. Threadgill).
È ora di andare a vedere i canoni estetico-musicali, i para­digmi, le tracce sonore su cui l’A.A.C.M. — che in Europa, soprat­tutto a Parigi, avrà come amba­scia­tori spe­ciali l’Art Ensem­ble of Chi­cago e la Crea­tive Con­struc­tion Com­pany — si muo­verà a livello di collettivi e sin­goli. Si sosti­tui­sce il «pri­mato della linea melo­dica» con «una lus­su­reg­giante ric­chezza tim­brica» (C. Sessa). Molto svi­lup­pato è l’interesse per un poli­stru­men­ti­smo diffuso e radi­cale che sin­te­tizza «l’interesse per le musi­che e le tec­ni­che non occi­den­tali, la ricerca su strumenti  auto­co­struiti, lo stu­dio delle aree sonore più estreme e meno esplorate». Con­tro la reto­rica del soli­sta, i chi­ca­goani pro­pu­gnano una musica col­let­tiva dall’incessante scam­bio di ruoli, spesso con una com­po­nente teatrale-epifanica (legata all’esperienza dell’Arkestra di Sun Ra). Nei brani si assi­ste spesso ad un repen­tino concatenarsi di ambiti musi­cali diversi che da una parte guarda all’antifonia del «call and response» e dall’altra alla cir­co­la­rità del «ring shout», entrambi arche­tipi sonori afroameri­cani come li defi­ni­rebbe il musi­co­logo afroa­me­ri­cano Samuel Floyd Jr. (per anni diret­tore dell’istituto chi­ca­goano Black Music Research). È, in effetti, il rap­porto con il passato e le radici che è basi­lare nei jaz­zi­sti dell’A.A.C.M.: in primo luogo guar­dano a tutta la musica nera secondo una defi­ni­zione di «Great Black Music»; in secondo la uti­liz­zano non in maniera musei­fi­cante ma secondo una logica ben sin­te­tiz­zata dallo slo­gan «Ancient to the Future». «Laici» nella pro­pria for­ma­zione e nei rife­ri­menti cul­tu­rali, però, i chicagoani si inte­res­sano anche alla musica con­tem­po­ra­nea euro­pea, a jaz­zi­sti bian­chi (Paul Desmond è un modello essen­ziale per Anthony Brax­ton), all’elettronica e non hanno il «fetic­cio» dello swing, pur con­ser­vando un pro­fondo senso del blues unito a un sostanziale disin­te­resse per la forma can­zone. Nei loro brani, come pre­cisa con rara effi­ca­cia ancora Clau­dio Sessa, «il rapido suc­ce­dersi di imma­gini sonore diverse, anche fra loro irri­du­ci­bili, è l’esatto oppo­sto del ‘pasti­che’ nel quale ogni elemento  suc­ces­sivo annulla il pre­ce­dente, ma costi­tui­sce un com­plesso intrec­cio di riferimenti che si poten­ziano nel mes­sag­gio di fondo. E il legame con la tra­di­zione è esal­tato anche dalle ese­cu­zioni più radi­cali, che pro­iet­tano sull’ascoltatore un senso sacrale del prodotto musicale».
Pro­prio per que­sto è impor­tante non pas­sare sotto silen­zio il cin­quan­te­na­rio dalla fondazione della A.A.C.M. Oggi molti dimen­ti­cano che il jazz è frutto di una sto­ria complessa e lo ridu­cono a for­mule sti­liz­zate da imi­tare, spesso fer­man­dosi agli anni Cinquanta dell’hard bop o ver­ni­ciando di gla­mour una musica tra­sfor­mata — con­tro la sua vera vicenda — in una ricca «tap­pez­ze­ria sonora» o in un «fos­sile musi­cale». Non è così e la lezione di Chi­cago è ancora viva e vitale, men­tre la situa­zione socio-economica attuale degli afroamericani  — nono­stante Barak Obama — sem­bra essere pau­ro­sa­mente arre­trata rispetto agli anni Sessanta.

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