Stasera Jazz, di Arrigo Polillo è il libro da cui è tratto il brano che segue. Pubblicato
per Mondadori nel 1978, Stasera jazz è un opera molto particolare in cui Arrigo
Polillo descrive i jazzisti - che ha
avuto modo di frequentare durante la sua lunga carriera di cantore della musica
afroamericana - mettendone in risalto l’indole umana, le debolezze, le virtù, tralasciando
gli aspetti prettamente tecnici del musicista. Ne scaturisce una pubblicazione molto
originale che può apprezzare chiunque, anche chi non è addentro alle cose
jazzistiche. Arrigo Polillo è stato uno dei massimi esperti di jazz italiani.
Giornalista, scrittore, organizzatore di festival jazz tra cui quello di
Sanremo (1956-1965) primo del genere in Europa.
Storico direttore capo della rivista “Musica jazz”, Polillo ha
collaborato con molte altre testate. Ma l’attività più importante di Arrigo è stata quella di divulgatore. Autore di molti libri sul jazz, fra cui
un’imponente enciclopedia del jazz (edizioni Messaggerie Musicali) scritta
in collaborazione con Giancarlo Testoni, Giuseppe Barazzetta, Roberto Ley di e PinoMaffei. Ogni appassionato di jazz non può
prescindere dai suoi libri, anche se diversi giudizi su alcuni musicisti possono non essere
condivisi.
I
grandi della batteria.
Arrigo Polillo
Max
Roach ed Elvin Jones: ciascuno di loro ha dei buonissimi titoli per essere
considerato il miglior batterista che il jazz abbia espresso. Si preferisce
l’uno o l’altro a seconda dei gusti. Meglio: delle concezioni estetiche. I
fatto è che i due sono diversissimi ,
nono solo come percussionisti , ma anche, e prima ancora come uomini. Max ha
l’aspetto professorale (e infatti ha insegnato per qualche anno musica in
un’università del Massachussetts, ad Amherst) ed è uomo quanto mai razionale,
posato e gentile, oltre che politicamente consapevole e seriamente impegnato.
Elvin è tutto istinto: ha l’aspetto (e i muscoli) di un lottatore
professionista, e si avventa sui tamburi e sui piatti come una belva. Quando fa
entrare in vibrazione le pelli e i piatti è come se li integrasse nel proprio
particolare sistema muscolare e nervoso: diventa tutt’uno con loro, diventa un animale da
percussione.
Max
è venuto molte volte in Italia, quasi sempre alla testa dei sui complessini, ed
è sempre stato molto apprezzato. Tuttavia lo spettacolo più importante lo diede
nel 1964, quando arrivò al teatro dell’Arte di Milano per presentare insieme
alla moglie, la cantante Abbey Lincon, quella che resta la sua opera più
significativa: la Freedom Now Suite. Si
era allora nel pieno della lotta per la conquista dei diritti civili in America
e Max vi partecipava attivamente. Aveva anche interrotto un importante
concerto a New York, presentandosi sul
palcoscenico per inalberare un cartello
con la scritta “Freedom Now” .
Di
certi problemi, tuttavia non parlava molto , per lo meno allora. Ne parlava
invece la sua bellissima moglie , la cui intelligenza, la cui chiarezza di
idee, la cui personalità hanno lasciato su di me un’impressione molto viva.
Forse sbaglio ma mi è rimasta la sensazione che dietro all’impegno politico di
Roach ci fosse l’ispirazione della
battagliera consorte: sta di fatto che prima di incontrarla , Max non aveva mai
dimostrato di avere un particolare interesse per la politica, ivi compresa
quella che riguardava da vicino i rapporti tra le razze.
Fra
un concerto e l’altro Abbey mi tracciò un quadro, evidentemente tutt’altro che
lieto, della situazione interrazziale negli Stati Uniti, sulla cui evoluzione
non era per nulla ottimista. “Non credete
a quello che si legge sui giornali, le cose vanno peggio che mai” , mi
disse ad un certo punto. Per lei i difficili rapporti tra la minoranza negra e
la classe dominante bianca, spiegano anche lo status del jazz. “ Non lo tengono in considerazione solo perché è stato inventato da noi” , mi disse con decisione,
meravigliandosi molto dello scetticismo
che io dimostravo a riguardo.
Max
e Abbey si sono in seguito separati, e non si può dire che lei abbia continuato
con successo la sua carriera di cantante, visto che, nonostante le sue
indiscutibili doti, non ha inciso dopo di allora alcun disco, e non ha
continuato neppure la carriera cinematografica, che pure aveva intrapreso,
ottenendo subito la parte della
protagonista in un film che purtroppo in Italia non è stato distribuito. Max
invece ha continuato la sua carriera con successo, per lo meno su base
internazionale; in patria (forse anche per via delle sue prese di posizione
politiche) ha avuto sempre la vita difficile, tanto da essere costretto a
dedicarsi all’insegnamento per integrare i propri guadagni.
“Pensa che l’ultimo disco che mi hanno
offerto di fare” mi ha detto in una recente occasione “avrebbe dovuto contenere le canzoni dei Beatles! Ora sto pensando di
produrre da me i miei dischi”
Elvin Jones capitò
nello stesso Teatro del’Arte nello
stesso periodo. Faceva parte del quartetto di John Coltrane. Penso che Elvin
abbia creato molti problemi a Coltrane, considerato che era costantemente
ubriaco. A un certo punto, dovette persino essere sostituito nel quartetto da
Roy Hayens, per sottoporsi a una lunga cura disintossicante da non so quale
droga. Coltrane però lo lasciava fare, sia perché era tutt’altro che un
caporchestra autoritario, sia perché Elvin dopotutto, riusciva sempre a suonare
splendidamente . Solo una volta, per quanto mi riguarda, fece cilecca: nel
1968, durante uno dei festival del jazz organizzati da me e da Maffei al Lirico. Era arrivato
assieme ad altri batteristi di fama: Max Roach, Sunny Murray e Art Blakey, i
quali avrebbero dovuto animare, con lui, un intero concerto, sia suonando uno
dopo l’altro in una di quelle “battle of
drums” che tanto piacevano al pubblico americano (lo spettacolo veniva
importato così com’era) , sia esibendosi coi propri complessi. Avevano con sé
il proprio gruppo sia Elvin Jones che
Art Blakey, che presentava allora per la prima volta in Italia, i suoi nuovi
Jazz Messengers. Fu un concerto
disgraziatissimo, che si preannunciò come tale fin da prima che cominciasse. Il
pubblico stava infatti ancora prendendo posto in teatro quando Sunny Murray mi
comunicò che non avrebbe potuto suonare data la piccolezza della batteria che gli avevamo messo a disposizione. (Lui è
effettivamente di statura imponente, tanto che faceva uno strano effetto vederlo
seduto accanto ad una batteria. Però le batterie sono tutte pressappoco di misura uguale, e
sarebbe stato impossibile trovarne una
su misura per lui..) La verità era – così mi dissero altri membri della troupe
– che nel confronto con gli altri due batteristi , Sunny Murray faceva
invariabilmente una figuraccia, e si era stancato. Si rassegnò a farne una
anche quella sera dopo che io gli ebbi comunicato che avrei fatto a meno dei
suoi servigi e anche che non gli avrei corrisposto il compenso. “I’m happy now” , sono felice adesso, mi
disse allora, dopo cinque minuti senza spiegarmi la ragione del suo repentino
mutamento di umore. Quando suonò con quella sua “non tecnica” mi fece stare in apprensione: al mio fianco, Max Roach
scuoteva la testa borbottando qualcosa di non precisamente lusinghiero a
proposito di quel che vedeva e sentiva.
La figura che fece Elvin Jones fu molto peggiore, ad ogni
modo. Quando venne il turno del suo quartetto (al sax tenore c’era Joe Farrell)
non riuscì minimamente a suonare. Andava al centro del palcoscenico, dove era
piazzata la batteria, dava qualche maldestro colpo sui tamburi e sui piatti, e
poi tornava tra le quinte. Quel fiasco di vino che gli avevo visto sempre in
mano, fin dal momento dell’arrivo a Milano, aveva fatto il suo effetto,
evidentemente. Ancora mi domando come
all’aeroporto lo abbiano lasciato
passare per ripartire , il giorno dopo: la situazione infatti non era cambiata
neppure dopo che Elvin ci ebbe dormito sopra. Poi anche Elvin tornò. Si
comportò quasi sempre bene; ne fece di tutti i colori soltanto a Pescara, nel
1975, e sempre per la stessa ragione. Date le sue preoccupanti condizioni di
salute, quella volta fu ricoverato in ospedale. Io lo venni a sapere dal suo
agente olandese mentre mi trovavo a Montreaux, per assistere al Festival del
Jazz. Sentendo certe notizie mi vennero i brividi, visto che Elvin avrebbe
dovuto suonare col suo quintetto anche per me, a Verona, qualche giorno dopo.
Poi tutto si aggiustò. Il nostro uomo fece indigestione di acqua minerale e si
rimise in piedi. A Verona era come nuovo.
Mi sono sempre domandato come facciano i musicisti di jazz a
superare certe crisi e a suonare. Quasi sempre, almeno.
Nel video che segue Elvin Jones è il batterista del quartetto di John Coltrane.
Stabilire quale sia stato o quale sia il migliore batterista
di jazz, così come il migliore musicista per ogni strumento è operazione che ha sempre animato gli appassionati.
Autorevoli riviste specializzate come “Down Beat” ogni anno stilano le
classifiche, per determinare i migliori strumentisti ma inevitabilmente, le
graduatorie vengono contestate e discusse . La storia del jazz è piena di
musicisti straordinari. Personalmente non so dire se Max Roach sia stato
migliore di Elvin Jones. Elvin Jones,
insieme con Tony Williams e Jack De Johnette sono i drummer che preferisco. Ma
il panorama jazzistico attuale fortunatamente non manca di batteristi
eccezionali, il giovanissimo Justine Faulkner distintosi nel quartetto di
Branford Marsalis ne è un esempio. Ma io non disdegnerei neanche il signore qui
sotto, Mr. Ralph Peterson
Good Vibrations
Luciano Granieri
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