venerdì 21 agosto 2015

Batteristi

 a cura di Luciano Granieri


Stasera Jazz, di Arrigo Polillo è  il libro da cui è tratto il brano che segue.   Pubblicato  per Mondadori nel 1978, Stasera jazz  è un opera molto particolare in cui Arrigo Polillo descrive i  jazzisti - che ha avuto modo di frequentare durante la sua lunga carriera di cantore della musica afroamericana  -  mettendone  in risalto  l’indole umana, le debolezze, le virtù, tralasciando gli aspetti prettamente tecnici del musicista. Ne scaturisce una pubblicazione molto originale che può apprezzare chiunque, anche chi non è addentro alle cose jazzistiche. Arrigo Polillo è stato uno dei massimi esperti di jazz italiani. Giornalista, scrittore, organizzatore di festival jazz tra cui quello di Sanremo (1956-1965) primo del genere in Europa.  Storico direttore capo della rivista “Musica jazz”, Polillo ha collaborato con molte altre testate. Ma l’attività più importante di Arrigo  è stata quella di divulgatore. Autore di molti libri sul jazz, fra cui un’imponente enciclopedia del jazz (edizioni Messaggerie Musicali)    scritta in collaborazione con Giancarlo Testoni, Giuseppe Barazzetta,  Roberto Ley di e  PinoMaffei. Ogni appassionato di jazz non può prescindere dai suoi libri, anche se diversi  giudizi su alcuni musicisti possono non essere condivisi. 


I grandi della batteria.

Arrigo Polillo

Max Roach ed Elvin Jones: ciascuno di loro ha dei buonissimi titoli per essere considerato il miglior batterista che il jazz abbia espresso. Si preferisce l’uno o l’altro a seconda dei gusti. Meglio: delle concezioni estetiche. I fatto  è che i due sono diversissimi , nono solo come percussionisti , ma anche, e prima ancora come uomini. Max ha l’aspetto professorale (e infatti ha insegnato per qualche anno musica in un’università del Massachussetts, ad Amherst) ed è uomo quanto mai razionale, posato e gentile, oltre che politicamente consapevole e seriamente impegnato. Elvin è tutto istinto: ha l’aspetto (e i muscoli) di un lottatore professionista, e si avventa sui tamburi e sui piatti come una belva. Quando fa entrare in vibrazione le pelli e i piatti è come se li integrasse nel proprio particolare sistema muscolare e nervoso: diventa  tutt’uno con loro, diventa un animale da percussione.
Max è venuto molte volte in Italia, quasi sempre alla testa dei sui complessini, ed è sempre stato molto apprezzato. Tuttavia lo spettacolo più importante lo diede nel 1964, quando arrivò al teatro dell’Arte di Milano per presentare insieme alla moglie, la cantante Abbey Lincon, quella che resta la sua opera più significativa: la Freedom Now Suite. Si era allora nel pieno della lotta per la conquista dei diritti civili in  America  e Max vi partecipava attivamente. Aveva anche interrotto un importante concerto a New York, presentandosi  sul palcoscenico per inalberare  un cartello con la scritta “Freedom Now” .
Di certi problemi, tuttavia non parlava molto , per lo meno allora. Ne parlava invece la sua bellissima moglie , la cui intelligenza, la cui chiarezza di idee, la cui personalità hanno lasciato su di me un’impressione molto viva. Forse sbaglio ma mi è rimasta la sensazione che dietro all’impegno politico di Roach ci fosse l’ispirazione  della battagliera consorte: sta di fatto che prima di incontrarla , Max non aveva mai dimostrato di avere un particolare interesse per la politica, ivi compresa quella che riguardava da vicino i rapporti tra le razze.
Fra un concerto e l’altro Abbey mi tracciò un quadro, evidentemente tutt’altro che lieto, della situazione interrazziale negli Stati Uniti, sulla cui evoluzione non era per nulla ottimista. “Non credete a quello che si legge sui giornali, le cose vanno peggio che mai” , mi disse ad un certo punto. Per lei i difficili rapporti tra la minoranza negra e la classe dominante bianca, spiegano anche lo status del jazz. “ Non lo tengono in considerazione  solo perché è stato inventato  da noi” , mi disse con decisione, meravigliandosi molto dello scetticismo  che io dimostravo a riguardo.
Max e Abbey si sono in seguito separati, e non si può dire che lei abbia continuato con successo la sua carriera di cantante, visto che, nonostante le sue indiscutibili doti, non ha inciso dopo di allora alcun disco, e non ha continuato neppure la carriera cinematografica, che pure aveva intrapreso, ottenendo subito la parte  della protagonista in un film che purtroppo in Italia non è stato distribuito. Max invece ha continuato la sua carriera con successo, per lo meno su base internazionale; in patria (forse anche per via delle sue prese di posizione politiche) ha avuto sempre la vita difficile, tanto da essere costretto a dedicarsi all’insegnamento per integrare i propri guadagni.
Pensa che l’ultimo disco che mi hanno offerto di fare” mi ha detto in una recente occasione “avrebbe dovuto contenere le canzoni dei Beatles! Ora sto pensando di produrre da me i miei dischi”





Elvin Jones  capitò nello stesso Teatro del’Arte  nello stesso periodo. Faceva parte del quartetto di John Coltrane. Penso che Elvin abbia creato molti problemi a Coltrane, considerato che era costantemente ubriaco. A un certo punto, dovette persino essere sostituito nel quartetto da Roy Hayens, per sottoporsi a una lunga cura disintossicante da non so quale droga. Coltrane però lo lasciava fare, sia perché era tutt’altro che un caporchestra autoritario, sia perché Elvin dopotutto, riusciva sempre a suonare splendidamente . Solo una volta, per quanto mi riguarda, fece cilecca: nel 1968, durante uno dei festival del jazz organizzati  da me e da Maffei al Lirico. Era arrivato assieme ad altri batteristi di fama: Max Roach, Sunny Murray e Art Blakey, i quali avrebbero dovuto animare, con lui, un intero concerto, sia suonando uno dopo l’altro in una di quelle “battle of drums” che tanto piacevano al pubblico americano (lo spettacolo veniva importato così com’era) , sia esibendosi coi propri complessi. Avevano con sé il proprio gruppo  sia Elvin Jones che Art Blakey, che presentava allora per la prima volta in Italia, i suoi nuovi Jazz Messengers.  Fu un concerto disgraziatissimo, che si preannunciò come tale fin da prima che cominciasse. Il pubblico stava infatti ancora prendendo posto in teatro quando Sunny Murray mi comunicò che non avrebbe potuto suonare data la piccolezza della batteria  che gli avevamo messo a disposizione. (Lui è effettivamente di statura imponente, tanto che faceva uno strano effetto vederlo seduto accanto ad una batteria. Però le batterie  sono tutte pressappoco di misura uguale, e sarebbe  stato impossibile trovarne una su misura per lui..) La verità era – così mi dissero altri membri della troupe – che nel confronto con gli altri due batteristi , Sunny Murray faceva invariabilmente una figuraccia, e si era stancato. Si rassegnò a farne una anche quella sera dopo che io gli ebbi comunicato che avrei fatto a meno dei suoi servigi e anche che non gli avrei corrisposto il compenso. “I’m happy now” , sono felice adesso, mi disse allora, dopo cinque minuti senza spiegarmi la ragione del suo repentino mutamento di umore. Quando suonò con quella sua “non tecnica” mi fece stare in apprensione: al mio fianco, Max Roach scuoteva la testa borbottando qualcosa di non precisamente lusinghiero a proposito di quel che vedeva e sentiva.
La figura che fece Elvin Jones fu molto peggiore, ad ogni modo. Quando venne il turno del suo quartetto (al sax tenore c’era Joe Farrell) non riuscì minimamente a suonare. Andava al centro del palcoscenico, dove era piazzata la batteria, dava qualche maldestro colpo sui tamburi e sui piatti, e poi tornava tra le quinte. Quel fiasco di vino che gli avevo visto sempre in mano, fin dal momento dell’arrivo a Milano, aveva fatto il suo effetto, evidentemente.  Ancora mi domando come all’aeroporto  lo abbiano lasciato passare per ripartire , il giorno dopo: la situazione infatti non era cambiata neppure dopo che Elvin ci ebbe dormito sopra. Poi anche Elvin tornò. Si comportò quasi sempre bene; ne fece di tutti i colori soltanto a Pescara, nel 1975, e sempre per la stessa ragione. Date le sue preoccupanti condizioni di salute, quella volta fu ricoverato in ospedale. Io lo venni a sapere dal suo agente olandese mentre mi trovavo a Montreaux, per assistere al Festival del Jazz. Sentendo certe notizie mi vennero i brividi, visto che Elvin avrebbe dovuto suonare col suo quintetto anche per me, a Verona, qualche giorno dopo. Poi tutto si aggiustò. Il nostro uomo fece indigestione di acqua minerale e si rimise in piedi. A Verona era come nuovo.

Mi sono sempre domandato come facciano i musicisti di jazz a superare certe crisi e a suonare. Quasi sempre, almeno.

Nel video che segue   Elvin Jones è il batterista del quartetto di John Coltrane.

Stabilire quale sia stato o quale sia il migliore batterista di jazz, così come il migliore musicista per ogni strumento è operazione  che ha sempre animato gli appassionati. Autorevoli riviste specializzate come “Down Beat” ogni anno stilano le classifiche, per determinare i migliori strumentisti ma inevitabilmente, le graduatorie vengono contestate e discusse . La storia del jazz è piena di musicisti straordinari. Personalmente non so dire se Max Roach sia stato migliore di Elvin Jones.  Elvin Jones, insieme con Tony Williams e Jack De Johnette sono i drummer che preferisco. Ma il panorama jazzistico attuale fortunatamente non manca di batteristi eccezionali, il giovanissimo   Justine Faulkner distintosi nel quartetto di Branford Marsalis ne è un esempio. Ma io non disdegnerei neanche il signore qui sotto, Mr. Ralph Peterson
Good  Vibrations

Luciano Granieri



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