martedì 25 agosto 2015

Non puoi odiare le radici senza odiare l’albero

Wu Ming, tratto dal libro "New Thing" Einaudi editore


Entra nel centro del suono spontaneo che vibra di sé stesso come nel suono continuo di una cascata oppure, mettendo le dita nelle orecchie, intendi il suono dei suoni e raggiungi Brahman, l’immensità.


 Vijnanabhairava Tantra, 38

GREEN MAN  Monk e Trane al Five Spot. Era il ’57. Le serate più belle della mia vita. Quell’anno tenevo il mondo appeso a un filo, come dice la canzone, e stavo seduto su un arcobaleno. Il mio lavoro mi piaceva, mi ero appena sposato, stavo già a Brooklyn ma di sera prendevo la metro per il Village o la Lower East Side. Cominciava il “disgelo”, dopo anni di musica liscia, liscia da sciacquarsi le palle. Io venivo dal Sud, cresciuto a cori di chiesa e Rhythm & Blues, mi piacevano quei sassofonisti vestiti di rosso che partivano con l’assolo, si chinavano all’indietro che quasi si sdraiavano e facevano muggire lo strumento, muuuuuuuu, lo facevano ragliare, braaaaaaa, anche tre o quattro battute di fila, un suono lungo e rauco e denso che lo sentivi nel basso ventre. Lo honking. Figurarsi se potevo digerirlo, il cool. Ancora ancora il “nonetto” di Miles, ma Lennie Tristano, la roba della West Coast, Chet Baker... Dave Brubeck! Roba da bianchi, non vedevo l'ora che finisse.

ROWDY-DOW Alla fine degli anni Cinquanta arrivò la new thing, che per noi fu la liberazione dei suoni. Lo chiamavano anche “free jazz”, titolo di quell’album di Ornette Coleman, ma le etichette eran roba da bianchi. Noi criticavamo pure la parola “jazz”, per noi era “la musica”, punto. Ornette arriva in città col suo sax di plastica, e di fianco a lui Don Cherry con quella tromba ridicola, una Conn del 1889 che pare finita sotto un treno, i tasti sempre sul punto di schizzare via.
Già da un po’ tipi come Cecil Taylor facevano casino, ma fu il quartetto di Ornette al Five Spot a sturarci le orecchie. Sembrava una rissa tra cani, anzi, gli istanti che precedono una rissa tra cani, li senti da dietro l’angolo e t’immagini la scena, i padroni che tirano i guinzagli e chiamano i cani, e questi due che azzannano l’aria, cercano di avventarsi l’uno sull’altro, strattonano, ringhiano, latrano, sbavano, e le voci dei padroni che ordinano di smetterla, fanno lavorare i bicipiti, parlano ai cani manco fossero cristiani ma in fondo non ci credono, recitano, la verità è che sono fieri della forza e dei coglioni delle loro bestie, ridono sotto i baffi…

GREEN MAN Dopo il cool vennero i nuovi boppers, quelli “duri”, e loro non avevano problemi, lo facevano lo honking, anche Trane, che il Rhythm & Blues l’aveva suonato. I muggiti di Trane spazzarono via il jazz fighetto della West Coast, gente come Stan Getz, Shorty Rogers... Per me quello è il suono della Creazione. E’ primordiale. Se Dio c’è, me lo figuro come uno honker vecchia maniera, tipo Bull Moose Jackson, Eddie Chamblee, Jim Conley, Wild Bill Moore... Ne sono certo, ha un completo bianco splendente e suona un sax tenore.

ROWDY-DOW Anzi, è probabile che lo facciano apposta, che passino vicino a un altro cane ogni volta che è possibile, per divertirsi. Ecco com'era la nuova musica all’inizio: il sax di Ornette e la tromba di Don Cherry erano i cani, loro tenevano la musica al guinzaglio ma lasciavano che i latrati la invadessero, la  trasformassero da cima a fondo. Se facevi attenzione, là dentro ci sentivi il bop, sentivi Bird e Diz, Monk e Miles, e più indietro sentivi Duke, e Satchmo e Jelly Roll con tutta Basin Street, e pure Buddy Bolden, che nessuno l’ha mai sentito suonare, e gli spirituals, il gospel delle chiese battiste, il blues del Delta, il patto col diavolo di Robert Johnson, gli schizzi di saliva dall'armonica di Sonny Boy... Ancora più indietro e ancora più dentro sentivi la schiavitù, qualcosa di interrotto, l’ultima rullata di tamburo prima che il tuo antenato fosse preso e caricato su una nave, sentivi i neri incazzati…

BLOOD WILL TELL Incazzati lo erano di sicuro: il palco del Five Spot era proprio di fronte al cesso, quasi sempre intasato. Difficile ignorare il tanfo di merda, man.



GREEN MAN Il ‘57, l’anno del “risveglio spirituale” di Trane. Miles lo caccia dal gruppo perché è fatto e imbambolato tutto il tempo. Trane decide di darsi una regolata: smette di bucarsi da un momento all'altro, si fa il “tacchino freddo” a Philadelphia chiuso a chiave in una stanza. Poi  trasferisce la famiglia a New York, incide con Monk e comincia a suonare con lui al Five Spot. Le prime sere fatica, è ancora messo male, ma pian piano migliora, migliora ancora e alla fine, cazzo... Alla fine è indescrivibile.
Monk era Michelangelo, scolpiva l’aria, toglieva tutto ciò che non somigliava alla musica che aveva in testa. Quegli accordi che non capivi cos'erano, le note che sembravano giocare a nascondino e sbucare da dietro il pianoforte per sorprendersi a vicenda, e Trane capiva, con gli assolo terminava le sculture, faceva spuntare un braccio, una gamba. Una specie di sonar, le note rimbalzavano su oggetti invisibili e ne rivelavano i contorni. La sera mi perdevo in quei miraggi, dormivo al massimo tre ore per notte ma stavo da dio, mi mettevo a lavorare e non perdevo un colpo, cazzo, il mondo appeso a un filo.
Facevo il giardiniere. Mi occupavo della manutenzione di parchi e giardini a Brooklyn, lavoravo anche al Green-Wood Cemetery. Mentre curavo le siepi del Prospect Park o potavo rami al camposanto,  canticchiavo Mysterioso, e tra le foglie i parocchetti monaci cantavano con me.

ROWDY-DOW Dentro la nostra musica c'erano troppe cose per un solo paio d’orecchie. Il mare che separa dall’Africa, conchiglia sull’orecchio e sentirla là in fondo, l’Africa, e i cats in the street diventano leoni, pantere, ghepardi che mangiano il jazz dei bianchi, carogna con la gola squarciata riversa nella savana. Cecil Taylor,  grosso macaco, pestava il pianoforte con le quattro mani. Albert Ayler, tromba d’aria che investiva un funerale di New Orleans. Quando ci si buttò Trane i cats lo seguirono e lui si spinse avanti, e spinse tutto più avanti.


LET'S-PLAY-A-GAME Ho cambiato nome tante volte. Sono stato "Africano" e "negro", che in spagnolo vuol dire "nero". Poi sono stato "di colore". Negli anni Venti sono tornato "negro" ma ci ho messo la maiuscola. "Negro". Però i bianchi non lo  pronunciavano "nee-grow" ma "nigrah", così somigliava troppo a "nigger" e dovevo aspettare la seconda sillaba per capire se mi stavano insultando. Del resto, "nigger" era una storpiatura di "negro". Come lo traducono "nigger" in italiano? "Negro". E "negro" come lo traducono? Lo vedi che è un gran casino? A metà degli anni Sessanta sono diventato "nero": "Say it loud, I'm black and I'm proud!" In spagnolo lo ero sempre stato, ma in inglese faceva la differenza. Accettare il nero della pelle e dei capelli, superare il complesso d'inferiorità: "Nero è bello". Delle volte, però, mi chiamavo "Afroamericano" o "Africano Americano". I bianchi non lo sapevano più, come dovevano chiamarmi. A parte "nigger", è chiaro. Neanche i fratelli, manco loro sapevano bene come chiamarsi: i vecchi erano "di colore", quelli di mezza età o del ceto medio erano "Negri", i più giovani e militanti erano "neri" o "Afromericani". Nel frattempo, però, tra di noi abbiamo continuato a chiamarci "nigger", anzi "nigga", ma non è come quando lo dice un bianco. O meglio, a volte sì e a volte no. E' un gran casino, uomo, te l'ho detto.
Oggi c'è chi mi chiama "Africano della diaspora", o "Africano" e basta. Dopo quattrocento anni, il cerchio si è chiuso.

GREEN MAN Trane suonava ogni nota di un blues come se Dio la portasse in palmo di mano, e pensa che i critici bianchi - e i critici erano tutti bianchi - lo definivano “anti-jazz”. Insieme a Miles s’era già lanciato nelle improvvisazioni modali, alla Kind of Blue, improvvisavano liberi dalle solite progressioni di accordi, liberi, poi Trane formò il quartetto “classico”: lui al sax, McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso, Elvin Jones alla batteria. La più grande macchina da palco che ho mai visto in azione. Alla fine scavalcò le note, dal suo sax venivano fuori nitriti ululati squittìi muggiti barriti guaiti, Madre Natura si scrollava di dosso la musica dei bianchi con le loro carinerie di merda. La nostra musica era i versi dei babbuini e delle bertucce, era il gibbone che urla appeso al ramo. Il jazz libero.

LET'S-PLAY-A-GAME Il nero americano si vergognava dell'Africa. L'Africa era lo sfondo dei film di Tarzan, la terra dei "selvaggi". Tarzan si tuffava nel fiume e usciva che era ancora pettinato. La mia gente l’avevano strappata all'Africa con la forza, non la conosceva più, la odiava senza saperne niente. Come diceva Malcolm: "non puoi odiare le radici senza odiare l'albero". Ci volle qualche decennio per cambiare le cose. Marcus Garvey piantò il seme predicando il ritorno in Africa. Dagli anni Trenta sempre più neri si convertirono all'Islam, religione "più africana". Nel jazz entrarono sempre più richiami all'Africa, finché non si sviluppò il nazionalismo nero. Intanto l'immagine dell'Africa cambiava da così a così, una rivoluzione dietro l'altra, il gigante si risvegliava e si scrollava di dosso l'Europa. I capi dei nuovi stati africani: Jomo Kenyatta, Ahmed Sékou Touré, Kwame Nkrumah... L'Africa, terra di martiri come Lumumba, rivoluzionari come Mandela... I neri americani lessero I dannati della terra di Fanon. Diceva: solo la rivolta e la violenza guariscono l'anima del colonizzato, ed era della nostra anima che parlava.

La vedi la copertina di Life appesa dietro lo scrittoio? E' del '60. La foto fu scattata a Leopoldville, Congo Belga. Re Baldovino in solenne processione, vestito di immacolato bianco su una decapottabile nera. Uno studente africano si fa avanti e gli strappa di mano la spada cerimoniale. Se mai un'immagine ha avuto valore simbolico...  

continua.....



video scelti da Luciano Granieri

Nessun commento:

Posta un commento