martedì 8 settembre 2015

COME ABBIAMO FERMATO LA MARCEGAGLIA

Massimiliano Murgo. Fonte: http://www.lacittafutura.it/

La lotta degli operai alla Marcegaglia Buildtech di Milano contro licenziamenti e deportazione. Bilancio di una prima battaglia vinta. Ora si riparte con un anno di lotta per il lavoro.

In una fase di enorme debolezza del movimento operaio italiano, il governo Renzi incarna in maniera esemplare gli interessi padronali e cerca di approfottarne per distruggere definitivamente qualunque residuo dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici. Sotto l’egida renziana, la Confindustria si sente “garantita” ed i padroni licenziano, chiudono, precarizzano, disdicono gli accordi aziendali, intensificano al massimo li sfruttamento. Ma piccole grandi battaglie, come quella dei 7 operai della Marcegaglia contro uno dei più reazionari padroni d’Italia, dimostrano che ribellarsi non solo è giusto, ma è possibile e con la dovuta determinazione può essere vincente.
Un breve sunto della storia. La vertenza in fabbrica è cominciata un anno fa. L’azienda della famiglia Marcegaglia ha deciso di ridimensionare radicalmente la sua “Bad Company”, il ramo Buidtech che si occupa di produzione dipannelli sandwich e profilati e tubi a freddo per l’edilizia industriale. L’obiettivo era di ridurre i 4 stabilimenti a uno solo, insediato nel piccolo paese piemontese di Pozzolo Formigaro. Viene praticamente chiuso per primo lo stabilimento di Graffignana (LO), poi tocca allo stabilimento di Taranto chiuso con un accordo e, infine, l’anno scorso grazie ad un accordo separato firmato da FIM e UILM dopo due mesi di lotta di una parte dei lavoratori dello stabilimento (col sostegno invece della FIOM), Marcegaglia ha avviato lo smantellamento della fabbrica milanese per trasferire parte degli impianti produttivi proprio a Pozzolo Formigaro. 83 dei 167 lavoratori in forza a Milano hanno alla fine accettato la messa in mobilità e il licenziamento definitivo dietro un miserabile “incentivo” di 30.000 euro. Altri 60 hanno accettato la “deportazione” col trasferimento con navetta aziendale a Pozzolo Formigaro (un’ora e mezzo di autobus a tratta). 20 impiegati sono stati trasferiti in un altro ufficio di Milano. Di 167 operai soltanto 7 (fra cui chi scrive), consapevoli delle difficoltà conseguenti, hanno deciso di far valere una parte dell’accordo – inserita probabilmente per imbellettarlo – che prevedeva la possibilità di essere ricollocati in uno dei 4 stabilimenti del gruppo limitrofi alla città di Milano, previo accesso ad un ulteriore anno di cassa integrazione straordinaria.
Il solo fatto di non aver accettato e dato credito al piano aziendale di “trasferimento e rilancio delle produzioni” - o accettato la “buona uscita” - ha acceso un odio profondo del padrone nei confronti di questi sette operai, tant’è che a giugno scorso ha tentato addiruttura di licenziare non aprendo il secondo anno di cassa integrazione e imponendo la deportazione a spese proprie presso lo stabilimento di Pozzolo (800 euro al mese i costi di trasporto a carico dei lavoratori). La reazione è stata immediata. Sapevamo benissimo che l’azienda non avrebbe regalato nulla. A Milano a fine giugno si lavorava ancora più di un terzo della produzione dei pannelli per costruzioni industriali, il core business della Buildtech spa; bisognava quindi bloccare la produzione, bloccare le merci in uscita, la materia prima destinata a Pozzolo e colpire l’azienda nell’immagine, uno dei terreni a cui tiene principalmente.
Eravamo pochi, l’unica possibilità per tenere in scacco uno stabilimento di 80.000 mq era di occuparlo, ma i numeri non giocavano a nostro favore. Una occupazione vera è propria non era possibile. Per cui abbiamo deciso di bloccare l’unico reparto produttivo, presidiando i carroponte e il tetto per rendere impossibile la produzione e il carico delle merci. Era chiaro a tutti noi che in pochi non avremmo potuto reggere all’infinito in quella situazione, che dovevamo far di tutto per guadagnare tempo, scongiurare il licenziamento per fine luglio, riattivare la possibilità del ricollocamento con la cassa e progettare un anno di lotta per riavere il lavoro.
Marcegaglia è potente, siede in decine di consigli di amministrazione, e riesce ad avere un certo controllo anche sulla stampa che per i primi 3 giorni di occupazione non fa un accenno alla nostra lotta. Intanto la produzione è completamente bloccata e ci pensa l’azienda a trovare il modo per far scoppiare il bubbone sulla stampa. Comunica di essere interessata a riprendere la produzione e al sesto giorno si presenta allo stabilimento con 30 agenti della Digos e 150 celerini di fronte a un presidio di una trentina di compagni e compagne solidali con la nostra lotta. Era il momento in cui dovevamo sfondare il muro mediatico, pressare il più possibile l’azienda e arrivare alla riapertura della cassa integrazione senza licenziamenti.
Il capo del personale spingeva la Digos a caricare gli operai. In stile ventennio, l’ufficiale del padrone comanda le truppe. La tensione sale alle stelle. A quel punto un operaio si appende ad una fune dal tetto (in tutta sicurezza, ovviamente), ma dal lontano cancello dove la celere sta per caricare sembra un fatto molto più “drammatico”. I poliziotti pronti a pestare a sangue il presidio tornano nei ranghi, direttore e capo del personale impallidiscono, si agitano pompieri e ambulanze, i pochi crumiri tornano a casa e, finalmente, la stampa nazionale e locale parla di noi.
Era fatta. L’azienda ha rinunciato a rientrare a lavorare a Milano finchè non avessimo lasciato l’occupaione spontaneamente e di lì a pochi giorni, prima in prefettura e poi al Ministero del Lavoro, abbiamo definito l’accordo di cassa. L’azienda aveva offerto 29.000 euro per andarcene in mobilità e lasciarci per strada, ma nessuno di noi 7 ha abbandonato la lotta. Ora siamo tutti e 7 in cassa (quindi formalmente ancora dipendenti) e stiamo progettando la lunga lotta per il lavoro. È doveroso sottolineare che la FIOM di Milano, pur nelle grandi difficoltà organizzative in cui versa, ha condiviso tutte le scelte che abbiamo fatto, sostenendole in trattativa e pubblicamente.
I limiti di questa vertenza sono stati tantissimi. La debolezza degli altri operai in fabbrica che hanno mollato il colpo già un anno fa, ad esempio. Cosa che si inquadra priorio nella fase di sfiducia e debolezza generale del movimento operaio e sindacale a cui accennavo all’inizio; un tessuto sociale frantumato e una tendenziale incapacità di costruire legami di solidarietà con le altre lotte; la grandissima debolezza delle forze della sinistra di classe, anticapitaliste e antagoniste, sul territorio che non sono in grado di mobilitare i numeri e le qualità necessarie a supportare battaglie di questo tipo. Questa lotta, nel suo piccolo, incarna perfettamente lo scontro attuale fra capitale e lavoro.
È, in piccoli numeri, la lotta contro la ristrutturazione, la speculazione, contro il Jobs Act di Renzi e, di fatto, rivendica dichiaratamente la redistribuzione del lavoro che c’è, per lavorare meno e tutti attraverso il ricollocamento degli operai negli altri stabilimenti del gruppo, limitrofi a Milano, nei quali il livello di intensità dello sfruttamento del lavoro è altissimo e ci sarebbe bisogno di altra manodopera. La lotta degli operai dimostra che con l’organizzazione, la determinazione, l’intelligenza di classe è possibile abbattere muri giganteschi, piegare la volontà di padroni forti e reazionari, riscrivere il nostro futuro. Dimostra che è necessario ricomporre le lotte e la classe lavoratrice, perché attraverso l’unità e il rilancio del conflitto nei luoghi di lavoro e fuori forse è possibile rimettere in discussione gli attuali rapporti di forza fra le classi.
Non ci può essere nessuna “sinistra” ormai nel nostro paese che non si ponga apertamente l’obiettivo di ricomporre e riorganizzare i lavoratori e le lavoratrici, il proletariato delle città e delle periferie, i più colpiti dall’austerità europea. Al massimo ci si propone di “rappresentare” elettoralmente questi soggetti. Non è sufficiente. Quando ci si scontra con un padrone, e a maggior ragione con uno così forte, bisogna concentrare nello scontro e nella mobilitazione tutte le forze possibili, perché se ricominciamo a vincere i lavoratori e le lavoratrici tutte possono riprendere fiducia nel conflitto e in una prospettiva di classe.
La nostra lotta non è finita. E’ appena cominciata. Ora dobbiamo riconquistarci il lavoro e durante tutto quest’anno sarà uno stillicidio di iniziative di lotta, di blocco della produzione e degli straordinari negli stabilimenti in cui dobbiamo essere ricollocati. Sarà necessario il sostegno concreto di tutti e tutte. E la nostra lotta sarà ancora a disposizione del processo di ricomposizione e rilancio del conflitto di classe.
Ma da soli non ce la possiamo fare. Abbiamo messo in programma un giro diINCONTRI e assemblee in tutta Italia per raccontare la vertenza, stabilire legami solidali e di ricomposizione, organizzare l’unità e il conflitto comune contro i padroni e il loro governo. Delle forze di tutti abbiamo bisogno perchè isolati siamo piccoli numeri da gestire, uniti possiamo tornare ad essere una classe con cui fare i conti.

I 7 operai della marcegaglia di Milano sono a disposizione di collettivi, comitati, circoli e associazioni di lotta per organizzare assemblee e dibattiti per raccontare la lotta e costruire assieme percorsi ricompositivi a livello locale e nazionale. 

Per contatti: Massimiliano 3494906191 -fazzolettirossi@gmail.com

Per organizzareo un anno di conflitto contro il padrone della Marcegaglia hanno bisogno di sostegno sia politico-sindacale che economico. Per questa ragione gli operai (Alfredo, Cristian, Franco, Gianni, Massimiliano, Roberto e Sergio) hanno deciso di lanciare una piccola cassa di resistenza a sostegno della loro lotta.

Contatti: fazzolettirossi@gmail.com – 3494906191

PER INVIARE CONTRIBUTI ALLA CASSA DI RESISTENZA:
RICARICA POSTA PAY N° 4023600585120662 INTESTATA A DE CLEMENTE ROSARIA

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