domenica 28 febbraio 2016

La sconfitta della Sinistra Dem e la guerra di movimento contro il governo del chiacchiericcio

Michele Prospero

Schiaffeggiata, la minoranza del Pd torna ad agitarsi. A tempo però ormai scaduto. Il partito della nazione è sbocciato già. Nel segno del tricolore vivono sotto lo stesso tetto bianchi (tantissimi, da Renzi a Boschi, da Rosato a Guerini, da Carrai a Zanda, da Franceschini a Picierno, da Faraone a Carbone), rossi (pochissimi e screditati teorici dei 18 voti aggiuntivi e non sostitutivi), e Verdini (il destinatario di “strani amori” per la sua cura protettiva verso il premier nei momenti di difficoltà). Gli intermittenti risvegli della minoranza dem finiscono per essere funzionali a un partito della nazione che accoglie tutti sotto il comando incontrastato del parolaio incontinente.
Con i cascami di Verdini entrati in una maggioranza che combatte i diritti “contro natura” (altro che nuova Porta Pia di cui fantastica Repubblica elogiando il pragmatico condottiero), Renzi percepisce che può osare l’impensabile. Che tutto gli è concesso, anche sfidare gli ultimi tabù di un partito definitivamente sfigurato. Neanche gli odori occulti sprigionati da Verdini scatenano qualche reazione incisiva. E allora può diventare pubblico il rapporto che sinora era tenuto segreto. A Firenze, come a Roma, quegli opachi odori delle arcane potenze gigliate hanno assicurato al rottamatore il trionfo sugli avversari interni. Ora che il suo imbarazzante protettore fiorentino è ospitato in maggioranza, Renzi smaschera l’irrilevanza delle sue opposizioni interne.
I giovani turchi, che hanno giocato da subito la carta dell’appoggio totale per ottenere posti di potere considerati preziosi in un momento di sbandamento, devono riconoscere il fallimento completo della loro strategia. Non hanno mai incassato un successo spendibile nell’arte dell’emendamento correttivo e della copertura subalterna alle scelte in materia di lavoro e costituzione. Neppure una virgola dei provvedimenti ad elevata portata simbolica sono riusciti a cambiare. Si possono accontentare di qualche poltrona ricevuta, ma queste lusinghe della spartizione passiva delle prebende non hanno un grande rilievo politico e poi alle prossime candidature anche la loro sorte è già segnata.
Quelli rimasti vicini a Bersani stanno messi anche peggio. La loro condotta in aula, dopo qualche rituale distinguo iniziale, del tutto impalpabile però nelle conseguenze, alla fine è sempre stata simile a quella dei giovani turchi, da loro dipinti in odor di tradimento. Arrendendosi senza condizione al loro feroce castigatore, non hanno certo migliorato il loro destino o conservato qualche possibilità concreta di “reconquista” del non-partito. Reclamano l’inutile congresso quando l’unico luogo in cui poter far male a Renzi è il parlamento, e qui sempre si adeguano e obbediscono. Anche su di loro si accanirà la scure implacabile che li priverà di seggi e rilevanza pubblica.
I signori delle tessere sono già al lavoro per controllare i territori dove si concentrano gli ultimi focolai di resistenza. In Sicilia le tessere sono distribuite dall’alto e già sono cadute nelle mani degli eredi di Cuffaro. Ovunque personaggi ambigui sono al comando dei traffici. A Milano si cerca di imporre il segno del trionfo del partito della nazione: manager senza colore promossi alla leadership, trame di affari progettate nell’irrilevanza assoluta della politica e delle arcaiche questioni legate all’identità della sinistra.
Il cenno di disappunto di una pattuglia di senatori cattodem incide molto di più delle minacce a salve della minoranza (un tempo l’area bersaniana comprendeva l’80 per cento dei parlamentari). Neanche dinanzi a una lotta per la costituzione, gli esponenti più anziani e prestigiosi della minoranza Pd hanno osato sfidare il ragazzo di Rignano pronunciando, con Tasso, queste parole di riscatto: “Giovene ardente, / se ben me vedi in grave età senile, / non sono al ferro queste man sì lente”. Ora chiedono il congresso solo per proseguire in moine inutili. Trovino il coraggio di uscire dalla maggioranza se davvero sono ostili al dominio di strani poteri maturati nel triangolo dell’Etruria.

Si convincano che i costi di far cadere Renzi o Boschi (che ha raggiunto il vertice del suo pensiero politico asserendo nella scuola quadri del Pd: “ragazzi mi sono solo tolto la giacca, mica sono rimasta nuda”) sono inferiori alla prosecuzione del governo del chiacchiericcio. Sinistra italiana è un’offerta di ricostruzione politico-culturale che guarda al lungo periodo. Dare vita a forme incisive di micro-resistenza civica nelle consultazioni amministrative è, nell’immediato, una strada obbligata per far inciampare il partito della nazione nel suo tentativo di mettere radici nei territori. Le occasioni di disobbedienza nelle grandi città devono essere propedeutiche alla guerra di movimento che si estenderà lungo il biennio referendario (costituzione, lavoro, scuola, legge elettorale, trivellazioni). Dinanzi alla vocazione autoritaria di chi governa solo con canguri e voti di fiducia (persino su questioni etiche), nel silenzio tombale dei custodi, resta solo la via della mobilitazione dal basso, nel quadro di una lotta irregolare, vista la gigantesca asimmetria delle forze in campo. 

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