venerdì 23 settembre 2016

"Black Music" la musica resistente nell’America degli anni ‘60

Luciano Granieri


Dallo scontro nasce la creatività. E’ una trasposizione del pensiero eracliteo  a cui l’evoluzione musicale degli Stati Uniti negli anni ’60,  determinata dalle lotte per i diritti civili e  per  l’eguaglianza sociale, dà piena e incontrovertibile legittimità. L’elemento veramente fondante del processo conflittuale di quel decennio è costituito da un fatto  innovativo enorme.  Le  lotte dei neri e delle altre minoranze per i diritti civili e per una vita dignitosa, confluiscono  in un unico grande conflitto. Quello che si  coagula sotto le ragioni dell'antimperialismo.


Il contesto storico e sociale
La paura del "rosso", messo fuori legge dal  "Comunist Act" del 1954, non fu mai percepita  sul serio dalla società americana. Era un sotterfugio per bollare come  comunisti coloro i quali non erano contigui alla  borghesia statunitense . Ma  dopo la rivoluzione cubana del 1959, che aveva rovesciato la dittatura di Fulgencio Batista e consacrato l’era di Fidel Castro, il pericolo comunista era arrivato  due passi dalla Florida. Non è da sottovalutare  l’aspetto per il cui il Lider Maximo aveva cacciato dall’isola i gangsters americani i quali facevano affari con la droga,  la prostituzione, e  soprattutto aveva espulso le multinazionali che a Cuba erano  diventate  padrone di tutto . A questa improvvisa minaccia per l’establishment si unirono le violente  proteste delle classi subalterne contro l’ingiustizia sociale  e la ghettizzazione. Sommosse    che non erano alimentate solo dai neri, ma dal proletariato in generale.    Da  Harlem, ma anche dai   ghetti di  Chicago, Filadelfia, Dayton , Atlanta,  si sollevò  una rivolta generalizzata. Lo storico Charles Silberman nel suo libro  “Crisi in bianco e nero, il problema negro negli Stati Uniti”  ha scritto : “ I dimostranti erano i disoccupati, i poveri, gli analfabeti, coloro i quali avevano sempre represso il loro odio  per salvare la pelle. Essi non avevano partecipato alle pacifiche dimostrazioni  condotte da Martin Luther King e dai suoi sostenitori , che del resto non li volevano tra le loro file”. Il batterista Kenny Clarke,  descrivendo gli aspri incidenti di   Harlem del 1964 affermò : “L’estate del 1964 portò violente proteste nei ghetti delle città d’America, non sottoforma di mobilitazione di una vera e propria forza,  ma come scoppio di una rivolta spontanea. Non fu un sommossa razziale  nel senso di una folla di negri lanciati all’assalto di una folla di bianchi, tuttavia il fatto razziale fu  preponderante. Gli  incidenti di Harlem  del 1964 furono più spaventosi di una sommossa razziale”. L’invettiva si rivolgeva in modo incontrovertibile alla borghesia in generale,  compresa quella di colore.   Esisteva  , infatti,    una middle class nera, il cui archetipo era l’attore Sidney Potier,   e lo ziotomismo   era un atteggiamento consolidato  nelle espressioni artistiche,  nella musica in particolare.  Louis Armostrong fu un tipico esponente del fenomeno.  La borghesia nera  rifiutava apertamente il  contatto con la grande massa di gente dal loro stesso colore di pelle  relegati nei ghetti.  Essi consideravano i neri del sottoproletariato povero  come individui incapaci, che non avevano “saputo” accettare sia le regole della società stessa,  che la sua religione dell’acquiescenza. A fianco delle rivendicazioni per i diritti civili e sociali, montava la protesta contro la guerra in Vietnam . Il popolo vietnamita era considerato vittima dell’imperialismo alla  stessa stregua del proletariato, bianco o nero che fosse. La protesta contro l’America   delle multinazionali e della vessazione verso le classi più povere,  proliferava anche nel mondo accademico bianco . Nell’università di Berkley,   situata  nella iperconservatrice California, si ebbe nel 1964 una prima significativa occupazione. Gli studenti chiedevano di poter intervenire sui metodi d’insegnamento, sulla finalità della ricerca universitaria,  di poter usare l’ateneo per discutere dei problemi di fondo della società.  In quel periodo l’università usufruiva di un finanziamento annuo di 650 milioni di dollari utilizzato dai docenti per far eseguire agli studenti  ricerche finalizzate all’attività bellica. Il collegio dei reggenti era composto dall’amministratore delegato  della Bank of America , del vice presidente della Lockheed e da altri manager  illuminati del mondo economico  e finanziario.  Uno dei leader studenteschi Mario Savio, in merito all’occupazione dell’università così si espresse: “L’estate scorsa andai nel Mississippi per partecipare alla battaglia per i diritti civili. Alcuni crederanno che i campi di battaglia siano diversi. Non è vero. Si tratta di una lotta contro lo stesso nemico, una minoranza potente e autocratica  che opprime una larga maggioranza praticamente inerme”  Dunque questa potente aggregazione di conflitti costituì lo sfondo sociale su cui si sviluppò un movimento musicale di protesta imponente.  Gli indirizzi sonori che il popolo di Harlem usò come vessilli  di lotta furono due, il rhythm’n’blues ed  il free jazz o new thing. Espressioni  forti ma dalle caratteristiche e dalle potenzialità rivendicative molto diverse. A queste si affiancherà il folk song bianco il cui precursore fu  l’anarcoide Woody  Guthrie. Bob Dylan e Joan Baez furono i musicisti più rappresentativi. Ma la trattazione che ora vogliamo sviluppare riguarda la musica nera.


Il  Rhythm’n’blues
Le Roi Jones ne  “Il popolo del blues “ offre  una sintetica ma efficace rappresentazione di questo stile: “Il R&B rappresentò una sorta di frenesia  e di volgarità  sconosciuta alle vecchie forme del blues . Come se la guerra avesse cancellato d’un tratto quella patina umanistica euro-americana che la musica afroamericana aveva assorbito. I cantanti di R&B  dovevano letteralmente urlare per non essere sopraffatti dal fragore degli strumenti elettrici  e dal crepitio delle sezioni ritmiche. Il blues era sempre stato musica vocale , e anche se l’accompagnamento strumentale rientrava nella tradizione, la voce umana doveva combattere, urlare per essere udita” . Combattere e urlare era ciò che facevano i neri nei ghetti per sopravvivere.  Nella voglia di urlare  si può intravedere anche una sorta di scontro generazionale . Per i giovani neri il dinamismo del R&B  incitava alla lotta, a scendere in strada per rivendicare con forza i propri diritti calpestati. Atteggiamento in pieno contrasto con i lamentosi rimuginamenti del blues che aveva accompagnato la vita della generazione precedente. Nel blues  le madri e i padri dei giovani contestatori vedevano più una forma intimistica dove rifugiarsi nel rassicurante alveo delle  proprie radici.  La  nuova espressione trovò  un’ampia diffusione grazie anche alla sua struttura musicale estremamente semplice.  Da Harlem si trasmise  in tutti gli altri ghetti d’America,a Detroit a Chicago, a Filadelfia a Baltimora. La musica di Muddy Waters,  Otis Redding, Ray Charles, Aretha Franklin e molti altri,  divenne  la colonna sonora delle proteste antirazziali nei ghetti.  I combattenti neri del Black Panther Party  e di altre simili organizzazioni fecero del R&B la loro musica distintiva. In realtà  i protagonisti del R&B, pur inviando messaggi politici e descrivendo bene la loro condizione subalterna, dalla quale volevano affrancarsi , raramente uscivano dall’ambito musicale per  rivendicare i propri diritti . Come sempre accade nel mondo culturale americano, dopo una breve resistenza al musical business il R&B, grazie alla sua  struttura  genuina ed accattivante,  divenne fonte  di enormi affari per i bianchi. Il successo commerciale, ovviamente,   determinò la completa depurazione dei brani   dalle note conflittuali, ne venne depotenziata, fino ad annullarla, la valenza di forte contestazione .  Il caustico R&B aprì la strada al rock and roll, una miniera d’oro  per il musical buisiness bianco. Ancora  una volta i bianchi si erano impossessati di una originale espressione nera per realizzare immani guadagni. 



La New thing, il free jazz.
Alcuni musicisti, nati e cresciuti attraverso il R&B, decisero di compiere un passo ancora più conflittuale inserendo la protesta proprio nel modo di concepire la composizione musicale.  Ne nacque un’espressione tipicamente jazzistica ma del tutto rivoluzionaria,  inizialmente definita come New  Thing o Black Music . Alcuni protagonisti,  fra i più politicizzati di questo stile,  avrebbero voluto non utilizzare il termine jazz nel qualificare la nuova musica.  Un termine  che aveva consentito appropriazioni e mistificazioni da parte dei bianchi per cui il popolo nero non la riconosceva più come sua. L’atteggiamento zio tomistico del “Jim Crow” che si esibisce per compiacere i bianchi,  era un retaggio che non doveva più esistere.  Il sassofonista Archie Shepp, una delle icone del nuovo jazz ebbe a dire in un’intervista “E’ finita per i figli dei bianchi: non balleranno più con la musica  del pagliaccio nero. E’ finita con i battelli del Mississippi  e le sale da ballo di Chicago o di Manhattan, con lo sfruttamento, con l’alcool, con la fame, con la morte. E’ durato cinquant’anni il viaggio del nero verso il Nord. I figli del battelliere  e dell’emigrante hanno valicato i confini folkloristici del jazz” In realtà storicamente oltre che New Thing si continuerà ad usare la parola jazz per definire il nuovo corso. Ma a jazz si anteporrà il termine  free. New thing e free jazz quindi. Un’operazione  di abbattimento  dei confini   armonici  e melodici,  operato grazie allo studio  e alla conoscenza profonda della musica (per distruggere qualcosa bisogna conoscerla profondamente). Strutture musicali  che, nella vita  del ghetto,  erano    la metafora degli staccati innalzati dall’ingiustizia sociale, dall’arroganza imperialista. Veri e propri muri eretti  contro il  dispiegamento di una  vita dignitosa e libera. Free appunto. Molti musicisti  di  free jazz, dopo essersi fatti le ossa nei gruppi di R&B,  avevano studiato,  si erano  diplomati nei conservatori. Ciò che è riportato sulla  copertina del disco “Free Jazz”, il manifesto della nuova musica inciso dall’alto-sassofonista Ornette Coleman nel dicembre del 1960,   offre una precisa descrizione di quale fosse il significato di tale linguaggio: “Free jazz a collective improvisation by the Ornette Coleman Double quartet”.  Nell’improvvisazione jazzistica tradizionale  esiste un tema, un giro armonico su cui i musicisti improvvisano. Nel caso di free jazz, si parte direttamente dall’improvvisazione,  la quale ogni tanto esprime dei temi su cui ci si sofferma, per poi riprendere ad inventare   di nuovo liberamente. In pratica ne sortisce un’improvvisazione fiume di 38 minuti. E’ la libertà assoluta divisa nelle due facciate del disco “free jazz 1” “free jazz 2”. E’ quella libertà basata sul rifiuto di ogni valore prestabilito, allo stesso modo in cui gli avvenimenti della società in quegli anni dicevano all’allibito cittadino americano, aduso a considerare immutabili  certi valori, che quei valori  - tutti- dovevano essere messi in discussione, e nulla doveva essere considerato intangibile.  Per completare il discorso su free jazz citiamo i componenti dei due quartetti : Il primo allineava  Don Cherry alla tromba, Coleman al sax alto, Scott  La Faro  al contrabbasso e Billy Higgins alla batteria, il secondo Freddie Hubbard alla tomba, Eric Dolphy al clarino basso, Charlie Haden al  contrabbasso, Ed Blackwell alla batteria. In realtà il discorso politico legato consapevolmente alla musica jazz era nato già nel decennio precedente con il tenor-sassofonista Sonny Rollins. Anche il contrabbassista Charlie Mingus fu jazzista politico, fra l’altro Eric Dolphy , uno dei protagonisti di free jazz,   si fece conoscere proprio nei jazz workshops mingusiani. Al batterista  Max Roach e alla moglie, la cantante  Abbey Lincoln, si deve la prima suite dove si inneggiava alla libertà sociale associata alla libertà musicale . Il titolo è inequivocabile. Freedom now suite.   I musicisti free più politicizzati avevano maturato una vera e propria ideologia antimperialista. Dalle rivendicazioni del ghetto passarono  direttamente al marxismo, perfettamente consapevoli delle grandi contraddizioni che flagellavano il clima internazionale . Al pianista Cecil Taylor  un giornalista chiese se appartenesse ai Black Muslim o al Black Panther Party. Egli rispose perentoriamente: “Nooo…..I’m marxist”. Sempre nella stessa intervista rilasciata in occasione del primo concerto di Taylor  in Italia a Bologna, il pianista, commentando una manifestazione  organizzata dai francesi contro la guerra in Vietnam,  osservò” Ma come fanno i francesi a giustificare le loro manifestazioni contro la guerra in Vietnam, tenendo conto del loro atteggiamento , della loro condotta in Algeria, e quando essi sono fra i maggiori fornitori di armi al governo razzista dell’Africa del Sud?”.  Il già citato Archie Shepp fu un altro artista estremamente politicizzato. Come molti freeman si formò nei gruppi di R&B, per poi, nel 1960, costituire un sodalizio consolidato proprio con Cecil Taylor. Tutta la sua musica ed il suo comportamento sul palco sono un vero manifesto politico. Il tenorsassofonista,  nato in Florida nel 1937,  alla  stregua di molti musicisti del free iniziò  ad affermarsi in Europa,  a Copenhagen per l’esattezza,  con il suo gruppo “New York Contemporary Five”  composto da: Don Cherry alla tromba, John Tchicai al sax alto , Don Moore al contrabbasso,  e J.C. Moses alla batteria. Shepp si presentava sul palco ricoperto dal daishikj, un  abito  di origine  swahili. Emblematico in questo contesto il brano The Funeral  esplicitamente realizzato in memoria di Medgar Evers il segretario dell’Naacp assassinato dai razzisti. Archie Shepp è anche un notevole poeta e commediografo. Ha composto testi da sovrapporre alle sue musiche come ad esempio Malcom, Malcom always Malcom, chiaramente dedicato a Malcom X. Nel panorama free lasciarono un segno indelebile anche musicisti che cercavano di risolvere la precarietà che la società imponeva loro, in quanto neri,  attraverso una esasperata rivoluzione mistica. E’ il caso di John Coltrane.  Il sassofonista nato ad Hamlet in North Carolina nel 1926, fu realmente il primo a proporre un linguaggio nuovo. Nel disco Kind of Blue registrato con Miles Davis nel 1959 Coltrane iniziò ad esplorare le strade dell’improvvisazione modale. Continuò poi la propria ricerca con gruppi propri, il più famoso vide come suoi compagni di viaggio Mc Coy Tyner al  pianoforte, Elvin Jones alla batteria Art Taylor e Jimmy Garrison al contrabbasso e l’immancabile Erich Dolphy al clarinetto basso. Coltrane fu uomo estremamente religioso  affascinato dalle religioni indiane  , la sua ricerca espressiva  si concentrò  proprio sullo studio delle tecniche strumentali indiane. Tanto che dopo l’incisione di capolavori come Africa Brass, Spiritual o Alabama,  legate ancora alla radici blues e  comunque comprese nell’area free, nel 1965 e nel 1966 realizzò  A love supreme (a cui partecipò anche lo stesso Archie Shepp),   Ascension , OM.  Opere ispirate al misticismo orientale. Fu la prima volta nella storia del jazz che delle incisioni si staccassero completamente delle radici africane e afroamericane.  La rivoluzione mistica fu tipica anche del linguaggio dell’allievo di Coltrane   Farrell “Pharoah” Sanders.  A differenza del R&B il free non ebbe mai una presa e una diffusione tale da trasformarlo  in una bandiera per la lotta di un popolo che stava combattendo duramente per la propria dignità.  Il Free jazz era indubbiamente una musica “contro”, qualificata non solo dalle dinamiche musicali ma anche dalle dichiarazioni e dagli atteggiamenti dei jazzisti che lo suonavano. Citiamo ancora Archie Shepp: “ Il jazz è contro la guerra, contro quella del Vietnam, perché è per Cuba, per la liberazione di tutti i popoli . Perché il jazz è una musica nata essa stessa dall’oppressione, è nata  dall’asservimento del mio popolo”.  Una musica così smaccatamente “contro” negli Stati Uniti  naturalmente venne presto  cancellata  dai circuiti musicali, costringendo i suoi interpreti a trasferirsi in Europa. Qui a differenza degli Stati Uniti il movimento giovanile studentesco del ’68, in particolare in Francia, si riconosceva pienamente negli stilemi anticonformisti e dissacratori del free. Non solo in Francia il nuovo jazz trovò diritto di cittadinanza. In Danimarca il Jazhus Montmatre di Copenaghen sarebbe diventato un punto nevralgico per la diffusione della musica d’avanguardia. Stesso successo si ebbe in Germania dove l’etichetta discografica ECM, si incaricò di  dare spazio in sala d’incisione, a tanti  freeman. Anche in Italia, il movimento d’avanguardia ebbe un buon successo, esprimendo musicisti notevoli , Enrico Rava, Paolo Diamani, Gianluigi Trovesi, fra gli altri.


Morale della favola

Siamo dunque giunti alla fine di questo percorso musicale. La black music negli anni ’60 in America costituì una svolta culturale di rottura come poche  altre. Il filone free continuò anche negli anni ’70 con gli Art Enesemble of Chicago,  il trombettista Don Cherry, e altri musicisti, ma la  granitica società borghese americana, basata sui valori consolidati della razza bianca e di un ipocrita perbenismo conformista,   aveva ancora una volta imposto la sua  dura legge.  Il R&B, pur lasciandoci molte incisioni memorabili si consegnò allo  show business , prese ogni sua forza d’urto diventando uno dei filoni che generarono il miliardario, per agenti e musicisti,  rock  and roll . Il  free jazz fu praticamente sfrattato dagli States costringendo gli artisti  o a ritirarsi dalla scena o ad emigrare in Europa.  Al di la di ogni considerazione di tipo artistico, sociale e politico è un fatto che da quel decennio di conflittualità nacque una forza  musicale creativa senza pari.   Archie Shepp nel 1965 ebbe a dire  “Le manifestazioni del jazz debbono essere sviluppate per farle coincidere con un contesto artistico, culturale, sociale ed  economico completamente nuovo.  Non si può negare che la nostra musica e i suoi successivi sviluppi abbiano le radici nelle strutture sociali”. Lo sviluppo auspicato da Shepp non si è ancora realizzato e forse mai si realizzerà  .   E’  un fatto però  che la forza creativa del free condizionò tutta la musica che venne dopo,  anche  quella colta europea. Per  un’espressione folklorica  come quella afroamericana questo tipo di colonizzazione di ritorno è estremamente significativa  sulla ineluttabilità  della contaminazione culturale e dell’abbattimento dei confini   espressivi ed artistici. Questi muri sono stati abbattuti, ora si aspetta di abbatterne altri, quelli   razzisti che stanno ingolfando  i confini della Nazione americana  con il Centro America  e degli Stati Europei. Barriere  innalzate  per evitare   che immigrati, vittime delle guerre e delle privazioni ordite dall’imperialismo occidentale  giungano a turbare il quieto e ipocrita scorrere della vita borghese di tutti i giorni.  

Di seguito abbiamo selezionato tre brani espressione del R&B del free politicizzato e del free mistico. Muddy Waters, Archie Shepp e John Coltrane ne sono i protagonsti.
Good Vibrations.





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