lunedì 12 settembre 2016

L'impeachment di Dilma: “Non piangere per me, Brasile”

Alejandro Iturbe Lit-Quarta Internazionale





Pochi giorni fa, il Senato brasiliano ha votato in modo definitivo l'impeachment di Dilma Rousseff. Cioè, l'ha rimossa dal suo incarico di presidente per assumere, ora come presidente costituzionale, Michel Temer.  
Questo fatto ha avuto forti ripercussioni non solo in Brasile ma in tutto il mondo. Nei giornali e neii mass media virtuali proliferano le analisi sul significato e sulle prospettive aperte da questo avvenimento. Il Pt, estromesso dal governo, denuncia quanto accaduto e se ne lamenta. Ma ciò che richiama l'attenzione è che la maggioranza della sinistra non petista (che fino a poco tempo fa si posizionava come “opposizione di sinistra” ai governi) ripete e perfino amplifica quei lamenti.  
È il caso del deputato federale Iván Valente, uno dei principali dirigenti del Psol che, nella sua pagina facebook, ha postato un video affermando che si è trattato di un “giorno di lutto per il Brasile”. Con lo stesso tono, dirigenti di altre organizzazioni hanno parlato di “un giorno molto triste” e “cupo”.
  
Il “discorso” del Pt  
Cominciamo con la fonte di questi lamenti, cioè lo stesso Pt. Quando fu avviato il procedimento giudiziario e parlamentare che avrebbe portato alla destituzione di Dilma, il Pt lo denunciò sin da subito come un “golpe di destra”; tesi che Dilma ha mantenuto fino alla fine, nel suo ultimo discorso come presidente nella sessione del Senato.
Si è trattato, in realtà, di un “discorso” nel senso che il filosofo e pensatore francese Michel Foucault dava a questo concetto. Per lui, la produzione del “discorso” consisteva in “un certo numero di procedimenti aventi la funzione di schivare la pesante e temibile materialità” dei fatti. Cioè, la vera realtà ed i suoi processi.
Quale “materialità” pretendeva di “schivare” il Pt? La prima è che, dopo anni di servizio fedele alla borghesia, quest'ultima lo scartava come strumento per esercitare il suo dominio dello Stato e del governo, nel quadro della crisi economica, sociale e politica vissuta dal Brasile. E lo faceva all'interno dei meccanismi dello stesso regime politico costituzionale borghese (che il PT medesimo aveva cercato di rafforzare), senza modificarlo nella sua essenza né sul piano istituzionale. 
La seconda è che, a causa della frustrazione e del malessere dovuti alle promesse disattese di “cambiamento”, a causa dei duri attacchi alle masse che la crisi economica lo obbligava a realizzare al servizio della borghesia (nonostante Dilma avesse promesso durante la campagna elettorale per la sua rielezione che “non lo avrebbe mai fatto”), le masse hanno smesso di considerare il Pt come il loro partito e il governo del Pt come un loro governo. Così, c'è stata una rottura di massa col partito ed il governo, ed è cominciata una lotta contro di essi.
Il discorso del “golpe” fu un tentativo di “schivare”, o attenuare, queste due realtà. Da una parte, il Pt cercava di convincere la borghesia di essere ancora necessario e, dall'altro lato, faceva appello alle masse affinché non rompessero (o comunque contenessero la rottura) paventando un “pericolo maggiore” da affrontare insieme. 
In realtà, in tutto questo processo, il Pt non ha mai agito come chi affronta un golpe reale: si è sempre mantenuto nel gioco “istituzionale”, e le mobilitazioni che invocava erano in realtà un elemento al servizio di quel gioco. Allo stesso tempo, non è riuscito a frenare la rottura delle masse, fondata sulla corretta percezione del tradimento subito. Le masse, che avevano votato per lei, non volevano il ritorno di Dilma. Per la combinazione di questi elementi, le mobilitazioni contro il supposto golpe si sono ridotte a fatti puramente sovrastrutturali riguardanti l'apparato del Pt e militanti di altre organizzazioni della sinistra. 
Scartato oggi dalla borghesia ed abbandonato dai lavoratori e dalle masse, il governo del Pt muore senza gloria (sebbene con tanta pena, ingiustificata, da parte dei suoi militanti e della maggioranza della sinistra). È l'unica spiegazione logica al fatto che un congresso corrotto e screditato abbia potuto destituire Dilma senza che le masse muovessero un dito in sua difesa.  
D'altra parte, la “maschera” del golpe è caduta di fronte ad altre “materialità” che mostrano la verità rispetto a quanto è accaduto. Una di esse, rispetto alla quale un'immagine vale più di mille parole, è la foto di Dilma che chiacchiera gentilmente col senatore Aécio Neves (una delle principali figure della “destra golpista”) in un intervallo della sessione del Senato che la destituì. La seconda, è il fatto che il Pt, in più di mille comuni, ha formato alleanze con partiti “golpisti” per le prossime elezioni municipali. La terza è che la destituzione si è avuta senza che siano stati tolti a Dilma i diritti politici per 8 anni (così come indica la Costituzione). Cioè, lei conserva i privilegi di ex presidente (un alto salario per tutta la vita, due auto ed otto impiegati pagati dallo Stato) e potrà candidarsi a ricoprire incarichi politici (ha già annunciato che si presenterà come candidata a senatrice per il Rio Grande do Sul nel 2018). Certamente, e da entrambi le parti, un modo molto speciale di realizzare un “golpe”.

E la sinistra non petista?      
La sinistra non petista ha assimilato e ripetuto il discorso del Pt. Addirittura lo amplifica e gli dà un tono più drammatico. Nella pagina già citata di Iván Valente, è pubblicato un articolo il cui titolo è di per sé molto eloquente: “Il golpe del 2016 segna il più grande regresso della democrazia in Brasile dal 1964” (data del golpe militare che abbattè João Goulart, instaruando una dittatura cruenta che durerà fino al 1985).
Altre organizzazioni attenuano un po' questa definizione e parlano di “golpe istituzionale” o “di palazzo” nel quadro di “un'onda reazionaria”. Ma le analisi e le conclusioni politiche vanno nello stesso senso: i lavoratori e le masse (e allo stesso modo la sinistra) hanno sofferto una dura sconfitta. Peggio ancora, si tratterebbe di una sconfitta senza lotta poiché le masse sarebbero state guadagnate alla prospettiva della destra o, come minimo, sarebbero passive e demoralizzate di fronte al “golpe”. Per questo motivo, la borghesia e la destra stanno “sull'offensiva”, noi stiamo “sulla difensiva” e dobbiamo agire di conseguenza.
  
Una catena di falsi ragionamenti  Le analisi e le conclusioni di questa sinistra rappresentano una catena di ragionamenti sbagliati.
Il primo di essi è che resta valida la caratterizzazione del “golpe”, perché il voto di 61 senatori è valso di più di quello dei 54 milioni di brasiliani che votarono per Dilma. Questo quadro verrebbe aggravato dal fatto che le accuse contro Dilma non sarebbero state provate. Qua, in maniera liscia e spontanea, si realizza un “abbellimento” della democrazia borghese e dei suoi meccanismi istituzionali. Si abbandona un concetto di Marx e Lenin: “perfino la più democratica delle repubbliche borghesi è una dittatura del capitale”.
Ovviamente, per le masse, una democrazia borghese con certe libertà ed il diritto di voto è molto meglio che una dittatura. Per questo, quando ci sono golpe reali difendiamo quel regime politico ed i suoi governi di fronte ai golpe. Ma questo non elimina la realtà, e cioè che ogni democrazia borghese si basa su “golpe” [nel senso generale di “colpi”; ndt] ed inganni permanenti ai desideri e alla volontà delle masse.
Dilma, per esempio, fu eletta nel 2014 dicendo che non avrebbe mai attaccato le conquiste ed i diritti dei lavoratori. Ma, appena eletta, nominò come ministri con portafogli molto importanti diversi rappresentanti dell'alta borghesia, come l'economista Joaquim Levy, alle Finanze, e la rappresentante del commercio agroalimentare, Katia Abreu, all'Agricoltura, ed iniziò ad attaccare le conquiste e i diritti. Fu o no un “colpo” alla volontà popolare dei 54 milioni che l'avevano appoggiata? Sia detto di sfuggita, ricordiamo che (realtà occultata dal discorso di Dilma) nel 2014 risultarono eletti, nelle liste col Pt, anche Michel Temer e tutta una parte dei deputati e senatori “golpisti”; cioè, in quelle elezioni, Dilma ed il Pt avrebbero cominciato a preparare il supposto golpe del 2016.
Il problema principale, tuttavia, è il metodo scorretto di analisi che utilizza questa sinistra per definire ciò che chiamiamo “rapporti di forze” tra le classi sociali. È un'analisi che considera solo i fatti sovrastrutturali: si destituisce un governo che si suppone più progressivo e dotato dell'appoggio popolare, e lo si rimpiazza con un altro più reazionario e di destra. Abbiamo già detto che, per noi, questo non significa un golpe, perché si dà all'interno dell'attuale regime politico e senza modificarlo. Ma il punto principale è che a nostro avviso i rapporti di forza non vanno misurati sul terreno della sovrastruttura bensì su quello della lotta di classe.
E la realtà indica che dalle grandi mobilitazioni del giugno 2013 il regime di dominio della borghesia brasiliana dimostra profondi elementi di crisi. Situazione che né le elezioni del 2014 né l'impeachment di Dilma è riuscita a chiudere. Al contrario, il governo di Temer, per le sue stesse contraddizioni ed il suo scarso appoggio di massa, è più debole e fragile di quello di Dilma.
L'altra componente centrale della questione è che i lavoratori e le masse non sono state sconfitte nella lotta. Dal 2013 esiste un processo di aumento considerevole del numero di scioperi e conflitti. E se questo processo non avanza ulteriormente e non dà un salto non si deve alle masse, ed alla loro supposta sconfitta o demoralizzazione, bensì alla politica delle direzioni delle principali organizzazioni della classe, come la Cut ed altre centrali sindacali.
Questo fatto (la lotta delle masse) è accompagnata da uno degli elementi più progressivi e positivi della realtà: la rottura dei lavoratori e delle masse col Pt e la sua politica di collaborazione di classe con la borghesia e l'imperialismo. Sta cadendo il grande ostacolo che impediva la crescita e lo sviluppo di una vera sinistra socialista rivoluzionaria. 
Risulta ovvio che il primo processo non implica automaticamente il secondo, tuttavia offre  condizioni molto migliori in quel senso. Eppure, invece di appoggiarsi su questo corso progressivo della coscienza delle masse, la maggioranza della sinistra, con gli argomenti della lotta contro il golpe e l'onda reazionaria, si abbraccia al Pt ed ai suoi governi, nel momento della sua agonia e caduta. Da qui, i suoi toni mesti di fronte alla destituzione di Dilma. In questo modo, la maggioranza della sinistra, al di là delle sue intenzioni, finisce per svolgere un ruolo di diga di contenimento e di freno nella costruzione dell'alternativa rivoluzionaria di cui hanno bisogno i lavoratori. 
Ed ora?  
Questi dirigenti ed organizzazioni sostengono che per il momento la priorità consiste nel lottare contro le misure governative e per cacciare Temer. Siamo totalmente d'accordo con questo ed agiamo di conseguenza, spingendo ed intervenendo (senza alcun settarismo) in ogni lotta che vada in quella direzione (come l'azione unitaria delle centrali sindacali dello scorso 16 agosto o la lotta contro i licenziamenti nell'impianto della Mercedes Benz nell'Abc).
In questo quadro, vogliamo fare delle considerazioni. La prima è che per noi occorre tentare di lottare sul serio per sconfiggere le misure di Temer e lo stesso governo. Ad esempio, attraverso la costruzione di un sciopero generale che permetta di condurre questa lotta alla vittoria.
Poiché anche nella cornice dell'unità d'azione contro il governo è necessario differenziarsi dal Pt e dalla Cut che “lottano” al servizio della loro vera politica: lasciare che il governo Temer faccia lo sporco lavoro di accomodamento e preparare il fronte elettorale affinché Lula torni ad essere eletto nel 2018. La maggioranza della sinistra non petista ritiene che questa differenziazione sia “settaria”.
Allo stesso tempo, la lotta contro il governo Temer e le sue misure deve posizionarsi all'interno di una prospettiva strategica molto più offensiva: la presa del potere per i lavoratori e le masse oppresse. Cioè, non solo la sconfitta del governo Temer bensì quella dell'insieme di questo regime corrotto e putrefatto al servizio del capitalismo, per installare un nuovo regime (sulla base di istituzioni completamente differenti) ed iniziare la costruzione di un nuovo tipo di Stato, al servizio dei lavoratori e delle masse popolari. Cioè, la prospettiva strategica della rivoluzione socialista.
Gran parte della sinistra non petista ha abbandonato, o non ha mai avuto, questa strategia e pertanto, tenta solo di “resistere” e “radicalizzare la democrazia” (nelle cornici delle istituzioni della democrazia borghese). Un'altra parte afferma di tener presente la suddetta prospettiva strategica, ma che i “rapporti di forza” ed il “ritardo della coscienza delle masse” impedirebbero di porla come strategia presente. In entrambi i casi, le proposte si limitano allora a “resistere” per obiettivi molto più limitati e per un lungo periodo.
Non siamo “religiosi” né volontaristi: sappiamo che la rivoluzione socialista può darsi solo attraverso la combinazione di una serie di fattori oggettivi e soggettivi. Sappiamo anche che le masse cominciano la loro lotta non sulla base di obiettivi strategici ma delle loro necessità più immediate. Quello che intendiamo dire è che le masse brasiliane non sono sconfitte e che stanno facendo un'esperienza accelerata della realtà del capitalismo e delle sue conseguenze. Pertanto, ci fidiamo tanto delle sue forze come della sua capacità di imparare dalla realtà ed avanzare nella sua coscienza ed organizzazione. In questo quadro, la strategia della rivoluzione socialista dev'essere più presente che mai e non va posticipata a un futuro indeterminato, così come ci propone la maggioranza della sinistra brasiliana coi suoi lamenti e brontolii.
In questo processo, la destituzione di Dilma sarà appena un episodio e non la “tragedia” o la grande sconfitta dipinta da quella sinistra. Parafrasando l'opera Evita, diciamo: “Non piangiamo per lei, Brasile”.
(Traduzione dallo spagnolo di Mauro Buccheri)

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