Il ricordo di un dei più noti critici musicali Usa. Autore
di saggi, romanzi e vera anima “radical" , è stato anche tra gli inventori
delle note di copertina.
Quando nel maggio 1963, il Signor Robert Zimmermann di
Duluth, Minnesota, fece uscire per la Columbia Records il suo The
Freewheelin’ Bob Dylan, il disco della consacrazione che fece del ragazzo approdato
al Greenwich Village un profeta (uso malgrado) di risposte che “soffiano nel
vento”, le note di copertina di quel difficile secondo disco vennero affidate a
qualcuno che se ne intendeva davvero di materiale folk nordamericano di prima e
seconda mano, ovvero di faccende molto “traditional” , e di nuove canzoni
profumate di trad che filtravano il mercuriale “zeitgeist”, lo spirito dei
tempi di un’America in subbuglio. Di lì a poco quell’America si sarebbe trovata
a fare i conti con la rivolta di Berkeley, e poi con tutto il reticolare
pulviscolo di iniziative di una gioventù tutt’altro che spensierata e desiderosa
di andare a lasciare la pelle nel fango del Vietnam, e di milioni di neri americani ancora privi dei
più elementari diritti civili. Comrpesi i giganti del jazz che, nel ’63, ancora
dovevano entrare dalla porta di servizio per suonare in un teatro. A stilare
quelle note dylaniane venne chiamato Nat
Hentoff, un nome che forse ai primi appassionati di rock diceva poco ma fece
fare un salto sulla sedia a chi seguiva le vicende complesse, intricate e
affascinanti del mazzo di musiche africane ed europee confluite nel folk a
stelle e strisce, e, soprattutto, a chi
seguiva le vicende del jazz. Nat Hentoff era una delle menti qualificate a stenderle
quelle note, coniugandole, sulla macchina da scrivere , a uno stile secco,
nervoso, affilato come un rasoio nei giudizi, ponderato nelle idee di fondo
fino all’ultima considerazione. Nat Hentoff se ne è andato sabato scorso a
novantuno anni, un bel traguardo. In piena attività. Lasciando decine di libri,
centinaia di note di copertina di dischi importanti che ancora oggi fanno da
spina dorsale alle discoteche più rilevanti del jazz (e del folk), ma soprattutto
lasciando un patrimonio di migliaia e
migliaia di articoli e interviste in cui ha scandagliato , decennio dopo
decennio, l’evoluzione della musica afroamericana in relazione alle spinte della
società, della cultura, della politica. Senza mai far venir meno le ragioni dell’estetica musicale, anche: i
suoi giudizi potevano essere severi ma erano sempre vincenti, alla prova dei
fatti del passare del tempo. E dunque il mero dato anagrafico dell’età ragguardevole deve cedere il passo subito a tutt’altra
considerazione , per rendere omaggio a un grande leone “radical” della sinistra
culturale statunitense che certo deve aver salutato con piacere l’avvento alla
presidenza si un avvocato con la pelle scura, e contemporaneamente aver provato
una pervasiva sensazione di amarezza nel vedere l’avvento di un presidente miliardario e reazionario
pronto a cavalcare ogni luogo comune
razzista e sessista, quel brodo primordiale “veleno e pancia” che spesso
l’America da cui è stata espunta a forza l’idea di classe fa balenare, sul
luccichio affascinante e perverso delle
armi libere. Nat Hentoff era nato a
Boston, una delle città più “intellettuali” d’America nel 1925. Era dunque,
anagraficamente, di quella generazione che ereditò direttamente il pensiero e la capacità di lavoro di quei
manager, giornalisti, intellettuali bianchi (soprattutto ebrei, perlopiù di ascendenza marxista, e assai
vicini al Partito comunista americano) che soprattutto a New York crearono e appoggiarono alla fine degli anni Trenta l’ìdea
di un jazz che potesse essere contemporaneamente (all’opposto di quanto credeva il filosofo Adorno) musica d’arte e musica di mercato. E’ un dato
poco conosciuto nella storia della
musica jazz, ma i vari John Hammond (peraltro
scopritore del citato Bob Dylan , di Billie Holiday , di Charlie Christian, di
Bruce Springsteen), Marshall Stearns, Norman Granz furono veri valorizzatori
del jazz e delle sue spinte progressiste in epoca non sospetta, convogliando
sull’impegno concreto e fattivo- ad esempio in favore della causa repubblicana
nella Guerra di Spagna- musicisti che oggi ci fanno apparire solo come levigati e eleganti intrattenitori:
Benny Goodman, Fats Waller, Lionel Hampton. Nat Hentoff ereditò quella visione
del jazz, la rilanciò , la seppe
adeguare a tempi ancor più stringenti, per ansia di libertà della gente tutta,
e di chi aveva la pelle un tono più scuro degli altri. Incoraggiando ed
indirizzando ogni svolta estetica nel jazz che sapesse anche tener conto della
spessa coltre di valenze sociali che il jazz significava per la gente
nera. Sulla carta, ai microfoni della
stazione radio WMEX . Un workaholic
delle buone ragioni della musica che seppe tenere la barra dritta sul jazz per
il Village Voice per un buon
cinquantennio , articolo dopo articolo, una firma costante del Wall Street Journal , del Washington Post, del New
Yorker , di Jazz Times. Un
pilastro di Down Beat, la rivista che
fa opinione nel jazz. Pronto ad entusiasmarsi anche per le infinite possibilità
che aveva saputo intuire per il jazz Su Internet, e a regalare sapere: quando
dal sito “Jerry Jazz Musician” gli chiesero di poter usare parte del magnifico
testo da lui scritto assieme a un altro grande , Nat Shapiro, per descrivere il
jazz di New Orleans (l’uragano Katarina aveva appena messo in ginocchio la
città del jazz) , lui ripsose che potevano usare liberamente i primi cinque capitoli di Hear Me Talkin’ To Ya: The Story of Jazz as Told
by Men Who Made It. Costo? Zero
dollari. Nat Hentoff s’è detto ha
lasciato un’opera imponente, poco tradotta nella lingua di Dante: una ventina
abbondante di saggi sul jazz, due libri di memorie, nove romanzi in cui c’entra
molto la musica, addirittura, ma scritti in un arco di tempo che spazia tra il 1965 e il 1985. Qui è bello
ricordarlo, però, per il coraggio di schierarsi, di prendere posizione e di
fare, al di là e oltre ogni comoda firma
di petizioni da lontano, su quanto atteneva al suo jazz, e andava a irritare
ferite già ulceranti della storia musicale degli Usa. Rischiando sulla propria
pelle e carriera. Ad esempio quando, nel 1960, nel pieno delle lotte dei neri
per rivendicare i diritti civili negati,
fondò assieme a Archie Bleyer la Candid Records, libero spazio discografico
senza censure per far circolare idee nuove. Durò poco più di sei mesi ma fu un
periodo di superlavoro e di creatività estrema: trenta dischi registrati, più
di uno alla settimana. Con gente come Don Ellis, l’adorato Charles Mingus (che
qui potè fare ascoltare la sua versione “uncensored”
di Fable of Faubus , dedicata al
governatore razzista dell’Arkansas), Cecil Taylor, Steve Lacy. Il colpo più
bello e più odiato dai razzisti a stelle
e strisce lo piazzò all’inizio pubblicando l’imponente We
Insist! Freedom Now Sweet di Max
Roach e Abbey Lincoln, ospite un vecchio poderoso leone del jazz classico,
Coleman Hawkins. Erano i tempi in cui i giovani neri improvvisavano flash mob
ante litteram sedendosi nei bar nei
posti riservati solo ai bianchi: Hentoff, che naturalmente firmò anche le note
di copertina del disco, volle come cover un bancone di bar in cui un barista
bianco serviva tre persone con la pelle scura
e l’espressione accigliata. E chi voleva capire capisse. Qualche tempo fa, in un intervista, chiesero
a Nat Hentoff cos’altro avesse in mente di fare
ormai attempato e stanco. Lui rispose: “ Fino a quando avrò una macchina
per scrivere, e un giornale che ospiti i miei scritti sarò felice. Credo di
essere stato una persona fortunata nel poter fare quello che davvero volevo.
Uno dei miei brani preferiti è di Duke Ellington, e si intitola Per cosa sono al mondo? . Io credo di
essere al mondo per questo, per scrivere delle cose che mi piacciono. O di quelle che detesto con
tutto il mio essere”.
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