sabato 14 gennaio 2017

Nat Hentoff, le parole del jazz

Guido Festinese


Il ricordo di un dei più noti critici musicali Usa. Autore di saggi, romanzi e vera anima “radical" , è stato anche tra gli inventori delle note di copertina.



Quando nel maggio 1963, il Signor Robert Zimmermann di Duluth, Minnesota, fece uscire per la Columbia Records  il suo The Freewheelin’ Bob Dylan, il disco della consacrazione che fece del ragazzo approdato al Greenwich Village un profeta (uso malgrado) di risposte che “soffiano nel vento”, le note di copertina di quel difficile secondo disco vennero affidate a qualcuno che se ne intendeva davvero di materiale folk nordamericano di prima e seconda mano, ovvero di faccende molto “traditional” , e di nuove canzoni profumate di trad che filtravano il mercuriale “zeitgeist”, lo spirito dei tempi di un’America in subbuglio. Di lì a poco quell’America si sarebbe trovata a fare i conti con la rivolta di Berkeley, e poi con tutto il reticolare pulviscolo di iniziative di una gioventù tutt’altro che spensierata e desiderosa di andare a lasciare la pelle nel fango del Vietnam, e  di milioni di neri americani ancora privi dei più elementari diritti civili. Comrpesi i giganti del jazz che, nel ’63, ancora dovevano entrare dalla porta di servizio per suonare in un teatro. A stilare quelle note dylaniane  venne chiamato Nat Hentoff, un nome che forse ai primi appassionati di rock diceva poco ma fece fare un salto sulla sedia a chi seguiva le vicende complesse, intricate e affascinanti del mazzo di musiche africane ed europee confluite nel folk a stelle e strisce, e,  soprattutto, a chi seguiva le vicende del jazz. Nat Hentoff era una delle menti qualificate a stenderle quelle note, coniugandole, sulla macchina da scrivere , a uno stile secco, nervoso, affilato come un rasoio nei giudizi, ponderato nelle idee di fondo fino all’ultima considerazione. Nat Hentoff se ne è andato sabato scorso a novantuno anni, un bel traguardo. In piena attività. Lasciando decine di libri, centinaia di note di copertina di dischi importanti che ancora oggi fanno da spina dorsale alle discoteche più rilevanti del jazz (e del folk), ma soprattutto lasciando un patrimonio di  migliaia e migliaia di articoli e interviste in cui ha scandagliato , decennio dopo decennio, l’evoluzione della musica afroamericana in relazione alle spinte della società, della cultura, della politica. Senza mai far venir meno  le ragioni dell’estetica musicale, anche: i suoi giudizi potevano essere severi ma erano sempre vincenti, alla prova dei fatti del passare del tempo. E dunque il mero dato anagrafico  dell’età ragguardevole  deve cedere il passo subito a tutt’altra considerazione , per rendere omaggio a un grande leone “radical” della sinistra culturale statunitense che certo deve aver salutato con piacere l’avvento alla presidenza si un avvocato con la pelle scura, e contemporaneamente aver provato una pervasiva sensazione di amarezza nel vedere l’avvento  di un presidente miliardario e reazionario pronto a cavalcare ogni luogo comune  razzista e sessista, quel brodo primordiale “veleno e pancia” che spesso l’America da cui è stata espunta a forza l’idea di classe fa balenare, sul luccichio affascinante  e perverso delle armi libere. Nat Hentoff  era nato a Boston, una delle città più “intellettuali” d’America nel 1925. Era dunque, anagraficamente, di quella generazione che ereditò direttamente  il pensiero e la capacità di lavoro di quei manager, giornalisti, intellettuali bianchi (soprattutto ebrei,  perlopiù di ascendenza marxista, e assai vicini al Partito comunista americano) che soprattutto a New York crearono  e appoggiarono  alla fine degli anni  Trenta l’ìdea  di un jazz che potesse essere contemporaneamente  (all’opposto di quanto credeva  il filosofo Adorno)  musica d’arte e musica di mercato. E’ un dato poco conosciuto  nella storia della musica jazz, ma i vari John Hammond  (peraltro scopritore del citato Bob Dylan , di Billie Holiday , di Charlie Christian, di Bruce Springsteen), Marshall Stearns, Norman Granz furono veri valorizzatori del jazz e delle sue spinte progressiste in epoca non sospetta, convogliando sull’impegno concreto e fattivo- ad esempio in favore della causa repubblicana nella Guerra di Spagna- musicisti che oggi ci fanno apparire  solo come levigati e eleganti intrattenitori: Benny Goodman, Fats Waller, Lionel Hampton. Nat Hentoff ereditò quella visione del jazz, la rilanciò , la  seppe adeguare a tempi ancor più stringenti, per ansia di libertà della gente tutta, e di chi aveva la pelle un tono più scuro degli altri. Incoraggiando ed indirizzando ogni svolta estetica nel jazz che sapesse anche tener conto della spessa coltre di valenze sociali che il jazz significava per la gente nera.  Sulla carta, ai microfoni della stazione radio WMEX .  Un workaholic delle buone ragioni della musica che seppe tenere la barra dritta sul jazz per il Village Voice per un buon cinquantennio , articolo dopo articolo, una firma costante del Wall Street Journal , del Washington Post,  del New Yorker , di Jazz Times. Un pilastro di Down Beat, la rivista che fa opinione nel jazz. Pronto ad entusiasmarsi anche per le infinite possibilità che aveva saputo intuire per il jazz Su Internet, e a regalare sapere: quando dal sito “Jerry Jazz Musician” gli chiesero di poter usare parte del magnifico testo da lui scritto assieme a un altro grande , Nat Shapiro, per descrivere il jazz di New Orleans (l’uragano Katarina aveva appena messo in ginocchio la città del jazz) , lui ripsose che potevano usare liberamente  i primi cinque capitoli di Hear Me Talkin’ To Ya: The Story of Jazz as Told by Men Who Made It.  Costo? Zero dollari.  Nat Hentoff s’è detto ha lasciato un’opera imponente, poco tradotta nella lingua di Dante: una ventina abbondante di saggi sul jazz, due libri di memorie, nove romanzi in cui c’entra molto la musica, addirittura, ma scritti in un arco di tempo che spazia  tra il 1965 e il 1985. Qui è bello ricordarlo, però, per il coraggio di schierarsi, di prendere posizione e di fare, al di là e oltre  ogni comoda firma di petizioni da lontano, su quanto atteneva al suo jazz, e andava a irritare ferite già ulceranti della storia musicale degli Usa. Rischiando sulla propria pelle e carriera. Ad esempio quando, nel 1960, nel pieno delle lotte dei neri per rivendicare i diritti civili  negati, fondò assieme a Archie Bleyer la Candid Records, libero spazio discografico senza censure per far circolare idee nuove. Durò poco più di sei mesi ma fu un periodo di superlavoro e di creatività estrema: trenta dischi registrati, più di uno alla settimana. Con gente come Don Ellis, l’adorato Charles Mingus (che qui potè fare ascoltare la sua versione  “uncensored” di Fable of Faubus , dedicata al governatore razzista dell’Arkansas), Cecil Taylor, Steve Lacy. Il colpo più bello e più odiato dai razzisti  a stelle e strisce lo piazzò all’inizio pubblicando l’imponente  We Insist! Freedom Now Sweet  di Max Roach e Abbey Lincoln, ospite un vecchio poderoso leone del jazz classico, Coleman Hawkins. Erano i tempi in cui i giovani neri improvvisavano flash mob ante litteram  sedendosi nei bar nei posti riservati solo ai bianchi: Hentoff, che naturalmente firmò anche le note di copertina del disco, volle come cover un bancone di bar in cui un barista bianco serviva tre persone con la pelle scura  e l’espressione accigliata. E chi voleva capire capisse.  Qualche tempo fa, in un intervista, chiesero a Nat Hentoff cos’altro avesse in mente di fare  ormai attempato e stanco. Lui rispose: “ Fino a quando avrò una macchina per scrivere, e un giornale che ospiti i miei scritti sarò felice. Credo di essere stato una persona fortunata nel poter fare quello che davvero volevo. Uno dei miei brani preferiti è di Duke Ellington, e si intitola Per cosa sono al mondo? . Io credo di essere al mondo per questo, per scrivere delle cose  che mi piacciono. O di quelle che detesto con tutto il mio essere”.

fonte “alias”14 gennaio 2017

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