lunedì 17 luglio 2017

Un momento magico : Billie Holiday nello studio 58, New York 8 dicembre 1957

 a cura di Luciano Granieri

Il 17 luglio è una data terribile per tutti gli appassionati di jazz. Oltre a John Coltrane,  morto il 17 luglio del 1967 ,  anche Billie Holiday ci lasciava in un 17 luglio, era il 1959. Il mese scorso tradussi dal  sito  americano "Jerry Jazz Musician" uno straordinario articolo su un momento magico, fra i tanti, che Billie Holiday regalò agli appassionati nel dicembre del 1957. Lo ripropongo per ricordare degnamente Lady Day


Nel nuovo brillante libro di Martin Torgoff “Bop Apocalypse” – una larga esplorazione nelle connessioni fra jazz, letteratura  e droghe, con un’analisi di  come  gli stupefacenti  abbiano  inciso nella vita e nel lavoro di artisti come Charlie Parker, Jack Kerouac, Lester Young, William Burroughs  e Allen Ginsberg -Torgoff dedica un capitolo al travaglio   che soffrì Billie Holiday per  l’abuso di droga.  Mette anche  in risalto come la stessa Holiday ammetta  pubblicamene  di fare uso di stupefacenti  nella sua autobiografia “Ladies sings the blues”   pubblicata  nel 1956.

L’ autobiografia  contiene errori che hanno lasciato molti dubbi in critici e biografi sulla sua veridicità.  Come Torgoff scrive con molto rispetto: “il libro è molto  attendibile in relazione ai primi anni di Billie  a Baltimora e circa il  periodo in cui si prostituiva. E’  ricco di notizie sulla sua vita segnata dalle droghe e dalla tossicodipendenza”. Nel libro, Billie scrisse: “Ho patito per quindici anni molte difficoltà a causa della dipendenza , con l’alternanza di momenti si e momenti no. Mi sono esalata e mi sono abbattuta.  Come ho detto prima quando ero veramente euforica nessuno mi importunava. Ho avuto guai entrambe le volte che ho provato a distruggermi . Ho   dilapidato una piccola fortuna per la roba. Ho lottato,mi sono disintossicata  ho subito le mie sconfitte  e ho dovuto lottare di nuovo contro tutto e tutti per raddrizzare le cose”.

Queste erano le drammatiche  parole  scritte   nell’autobiografia uscita  nel 1956, un periodo in cui ogni  dichiarazione o  ammissione sull’uso delle droghe ti rendeva un emarginato. Torgoff  ci ricorda come  pubblicazioni   che riportavano  vicende legate all’uso dei narcotici  fossero state bandite  dal Motion Picture Production Code del 1930 e nessuna major cinematografica o casa editrice avrebbe voluto pubblicare  soggetti legati alla tossicodipendenza,   ma il personaggio  del jazzista tossico-dipendente che Frank Sinatra  interpretò  nel film di Otto Pirminger “ The man of the golden arm” trasgredì la regola .  Lady Day (così veniva anche chiamata Billie ndr)  capì  così che forse i tempi erano maturi per raccontare la sua storia.

Billie Holiday si trovava nella scomoda posizione di essere la criminale scrittrice  di un libro dedicato ad  una vicenda  per la  quale era stata condannata, reclusa in cella, per cui   aveva subito di recente l’ennesimo     arresto per uso di stupefacenti- naturalmente faceva ancora uso di droghe”,  scrive  Torghoff e prosegue:“L’autobiografia  si conclude con capitolo interamente focalizzato  sui  narcotici… con una parte finale dedicata    ai    più recenti problemi  che Lady Day  aveva avuto con a legge”. Il libro in ultima analisi “ fu la prima vera  testimonianza confessionale di una celebrità tossicodipendente dell’era moderna” e contribuì al sorgere della  “leggenda di una  Billie Holiday grande cantante americana tossico dipendente devastata dal dolore.   Leggenda che si trasformò in un marchio indelebile ”

Nel novembre del 1956 in un intervista alla radio Mike Wallace chiese a Billie:” Perché tanti grandi jazzisti sembrano morire così presto- Bix Beiderbecke, Fats Waller, Charlie Christian, Charlie Parker?” La sua pronta replica divenuta famosa fu: “ Posso rispondere a questa domanda in un solo modo Mike . E’ perché tentiamo di vivere cento giorni in un giorno solo e perché dobbiamo cercare di piacere a tante persone. Io voglio forzare   questa  nota ma anche    quell’altra  nota ,cantare in questo modo ma anche  in un  altro  modo,  voglio prendermi tutto il feeling, mangiare tutto il buon cibo e viaggiare per tanti luoghi, tutto  in un solo giorno, e  non puoi farlo”.

Quando la Stazione  televisiva CBS decise  di produrre “ The Sound of jazz” una selezione speciale della loro serie “The Seven Lively Arts” il produttore  Robert Herridge chiese a  critici di jazz Nat Hentoff e  Whitney Balliet di riunire i più grandi jazzisti del periodo per farli esibire in uno show che sarebbe andato in onda l’otto dicembre del 1957. Fra questo gruppo di musicisti,ovviamente, c’era Billie Holiday,ma  il marchio di cantante tossico-dipendente devastata dal dolore convinse  lo sponsor della trasmissione a richiedere la sua esclusione dal programma. “ Non possiamo portare nelle case degli americani , specialmente di domenica, qualcuno che è schiavo  degli stupefacenti”. E’ questo il  contesto in cui si sviluppa  l’estratto da Bop Apocalypse. Il  “momento magico” impresso indelebilmente nelle menti di coloro che onorano questa grande donna e l’accompagnarono a questo appuntamento.

Forse nessuno ha mai  descritto lo spirito fondamentale e la sensibilità della vita da jazzista   con più realismo  o più onestamente.  “ Nel vivere cento giorni in un giorno” Lady Day ha posto l’accento su  quella  forza  vitale molto  romantica, ed enigmatica che ha permeato il jazz , creato molte delle sue  innovazioni e trionfi. Ma, allo stesso tempo, è sembrato generare quel tipo di tossicodipendenza e alcolismo che avrebbero  consumato alcuni dei suoi più grandi artisti. Nessuno  ha personificato questo spirito meglio di Billie Holiday.

Quando  Herridge, Balliet ed Hentoff  valutarono  l’ipotesi di fare lo show senza di lei  capirono semplicemente che  non avrebbero potuto accettare tale  prospettiva. Herridge diffuse un comunicato in base al quale, se a Billie Holiday   fosse stato impedito di esibirsi,   loro avrebbero cancellato lo show. Lo stratagemma funzionò e l’otto dicembre del 1957 il set fu così  introdotto da Bing Crosby: “Billie Holiday  è una delle poche cantanti di jazz veramente grandi. I suoi blues sono poetici estremamente intensi. A suonare con lei  oggi ci sono alcuni dei musicisti che l’anno accompagnata in passato, negli anni trenta, in alcune delle più belle incisioni mai realizzate”

Ed erano li posizionati in semicerchio attorno ad uno sgabello dello studio 58: Roy Eldridge e Doc Cheatham alle trombe, Lester Young, Ben Webster, e Coleman Hawkins, tre dei più grandi sassofoni tenori della storia del jazz, Gerry Mulligan, il più giovane del gruppo, al sax baritono, Mal Waldrom al pianoforte, Milt Hinton al contrabbasso, Vic Dickenson al trombone, e Ossie Johnson alla batteria.

Ci sono due tipi di blues, c’è un blues allegro e uno triste” osservò Billie   mentre  raggiungeva lo sgabello e si posizionava davanti al microfono. “Io non lo so, il blues è una sorta di miscuglio di cose, devi solo sentirle. Qualsiasi cosa io canti è parte della mia vita”

Anche se  fu spesso etichettata  come cantante di blues, Lady Day  ha registrato solo tre brani nella classica forma delle dodici battute tipica del blues. La band attaccò proprio   uno di questi pezzi: “Fine and mellow”. Il lato B di “Strange Fruit”, il  famoso pezzo  o registrato nel 1939.  Lei si predispose al canto e non appena apri bocca nello studio si diffuse magia.

My man don’t love me
Treats me oh so mean

Lady Day  indossava un vestito di lana chiaro, semplice,  che copriva appena le ginocchia, i suoi capelli erano  raccolti all’indietro in una coda di cavallo che lasciava scorgere  due orecchini debolmente rilucenti nello studio. La sua figura appariva minuta, soprattutto se paragonata  alla corporatura massiccia che la contraddistinse in gioventù : “Era una piccola e delicata donna” osservò Roy Eldridge scioccato da quanto fosse cambiata.  Nonostante tutto  era  un mistero come potesse apparire ancora più luminosa e più bella di prima dopo i drammatici momenti che aveva passato.

Ben Webster prese il primo assolo, come altri nello studio aveva avuto una storia  con Lady Day “una piccola illuminazione intima”, Roy Eldridge la descrisse così. Nel caso di Webster si trattava di un fugace innamoramento che risaliva agli anni ’30. Una vicenda  che si concluse quando Webster picchiò Billie procurandole   un occhio nero. La madre della Holiday si arrabbiò  così tanto  quando vide l’occhio tumefatto di sua figlia che inseguì Webster, dal loro appartamento fino in strada sul taxi  picchiandolo con un ombrello.

Lester Young,  fu il secondo a suonare –l’amico prediletto di Billie-   Sin da quando  Prez  (soprannome di Young ndr) arrivò,  due giorni prima per le prove, divenne  malinconicamente ovvio a tutti che stava peggiorando. Egli  si prese con calma  tutto il tempo necessario, indossava  delle pantofole perche i piedi gli facevano molto male. Quando  Lady Day invitava i musicisti nel suo appartamento  per un piatto di costolette e verdura lui non andava  mai. Venti anni erano passati da quando avevano diviso la loro prima esperienza, quando Prez suonava così  brillantemente accompagnandola in “I must have the man” la canzone che aveva dato inizio al loro romantica storia musicale. La relazione fra i due alternò  momenti esaltanti  e periodi di crisi,  una lungo menage  alienante  che lasciò entrambi molto tristi. All’età di 48 anni  Prez  si specchiò,  afflitto, nei suoi    occhi verdi carichi di malinconia.  Ma  quando dalle sue labbra uscirono le note del sassofono  e  suonò tutto quello che il ricordo di quella passione  aveva lasciato dentro di se, Billie sentì forte tutto l’amore che lui provava per lei. Nat Hentoff descrisse così l’assolo: “ Eseguì i più cristallini e puri accordi di blues che abbia mai sentito, Billie sorridendo e seguendo con il dondolio  della testa il beat che si diffondeva,  guardava negli occhi  Prez, e lui lei. Lady Day  stava rivivendo il passato con  malinconico  rammarico, così come stava facendo Prez. Qualsiasi cosa avesse rovinato la loro relazione fu dimenticata nella condivisione della musica. Seduto nella stanza del mixer sentii le lacrime salirmi  negli occhi  e vidi le stesse  lacrime sul viso di molti fra quelli che erano li” Nel vivere quei momenti Hentoff rimase impressionato . Invece della   “buccia avvizzita  che era prima ” Lady Day “ si mostrava  in pieno controllo, swingava sinuosamente con quello straordinario strumento che era la sua voce”.  Alternò  suggestive  linee melodiche con gli sfarzosi assoli di Mulligan, Falco, Dickenson, ed Eldridge. “L’amore è come un interruttore,  gira di tanto in tanto” cantò con un sorriso nostalgico, portando il brano nella sua dimensione personale, non lasciando dubbi sul fatto che stesse raccontando la  storia della sua vita  come sempre aveva fatto. “A volte quando pensi che sia acceso, baby,  si spegne  e tutto finisce

E con quella esibizione la signora che voleva vivere cento giorni in un giorno scivolò via .

Il resto del programma procedette regolarmente” ricordò Hentoff” ma questo era stato il climax, l’anima autentica del jazz” E’ una performance che rimane,  forse, il più grande momento mai registrato in un video. Tutto in questa esibizione profuma d’amore. Amore reciproco  e per la musica. Emerge   il grande legame musicale che tutti loro avevano condiviso durante un era che stava scivolando  via lungo le loro vite. 

traduzione di Luciano Granieri.

good vibrations.



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