sabato 26 agosto 2017

Jeanne Lee, arte in movimento

Diana Torti.

Diana Torti  è una vocalist e psicologa che ha dedicato a Jeanne Lee un approfondito studio (sinora inedito)



“No words/only a feeling/ no questions/ only a light a being a light, no sequence /only a being, no journey/ only a dance” (“Nessuna parola/solo una sensazione, nessuna domanda/solo una luce, nessuna sequenza/ solo un essere, nessun viaggio/ solo una danza”).

Questi sono i versi con cui apre Conspiracy , album pubblicato a nome di Joanne Lee per la Earthforms Records nel 1974. Queste liriche, scritte da David Hazelton, poeta esponente della Jazz Poetry e primo marito della cantante afroamericana, ben esprimono a parole ciò che la musica rappresenterà attraverso suoni, immagini, colori. Nonostante i quarantasette anni appena compiuti dalla pubblicazione (a cui purtroppo non è seguita una meritata ristampa) le suggestioni dei brani proposte dalla Lee evocano emozioni e stimoli sonori che ancora stupiscono e incantano, regalano proposizioni musicali più che mai attuali: materiale prezioso da rileggere e approfondire.

Jeanne Lee nel 1974 aveva trentacinque anni (era nata a New York il 29 gennaio del 1939). Sin dalle prime esperienze , la Lee mostra una direzione fortemente innovatrice rispetto all’immagine tradizionale della cantante jazz. A partire dal suo primo album , nel quale vengono completamente ridimensionati il tradizionale modo di cantare gli standard e la pronuncia jazz, la sua ricerca vocale proseguirà esasperando il rapporto tra il testo e l’improvvisazione in una costante esplorazione della possibilità di scomposizione  e ricostruzione delle parole o di frammenti di esse, di reiterazione delle stesse, di vocalizzazioni non necessariamente riconducibili al linguaggio parlato.

The Newest Sound Around  (RCA Victor 1961), rappresenta l’esordio sia per lei che per Ran Blake, suo compagno di studi alla Bard College di New York (si erano conosciuti nel settembre del 1956). Jeanne si impone subito con la sua vocalità calda e suggestiva, fatta di inaspettate variazioni di suono e di fraseggio, fresca e coraggiose nell’interpretazione . Blake è un pianista sobrio ed essenziale, che accoglie e comprende sia le influenze del jazz contemporaneo che quelle del repertorio classico e che possiede uno straordinario senso armonico e ritmico. Il duo è fuori dagli schemi e presenta una nuova estetica dell’esecuzione degli standard di jazz. Il repertorio viene rivisitato in chiave quasi completamente improvvisata, e viene presentato offrendo una visione che va ben oltre i confini delimitati sia dalla tradizione del duo piano voce, sia dei canoni delle singole discipline. Il repertorio da loro esplorato è fatto di standard (tra cui una versione di Straight Ahead , che sancisce la forte  connessione tra Lee e Abbey Lincoln; un arrangiamento spaziale e rarefatto di Where Flamingos Fly e una suggestiva interpretazione di Laura, ma anche dei brani apparentanti a diverse tradizioni musicali.

Critici e pubblico rimangono senza parole. Nella prima recensione datata 1962, uscita sula prestigiosa rivista statunitense Down Beat, la voce della Lee viene considerata troppo ampia e il pianismo di Blake eccessivamente eclettico: c’è troppa sperimentazione che per molti addetti ai lavori oltrepassa il limite accettato nella ricerca musicale di quell’ambito. I due musicisti coerentemente alle loro esigenze interpretative  ed esecutive, hanno semplicemente cominciato ad esplorare le infinite possibilità dei loro singoli strumenti  della combinazione tra essi, inseguendo una direzione originale e innovativa.

VIAGGIO IN EUROPA
Nel 1963 realizzeranno un inaspettato ed appagante tour in Europa che soddisferà la loro tenacia identitaria. Suoneranno in Germania, Norvegia, Danimarca, Olanda, Gran Bretagna e nel mese di maggio anche in Italia. I critici europei rivisiteranno le poche entusiasmanti attenzioni finora rivolte al duo, accogliendo con interesse la nuova proposizione di ricerca musicale, e saranno pressoché concordi nel considerare quella giovane cantante una preziosa rarità, orientata nella completa disgregazione di confini tra la voce umana e uno strumento a fiato che improvvisa, senza perdere di vista la fusione con il testo.

Negli anni a seguire Lee parteciperà a diverse registrazioni a nome di illustri colleghi con cui collaborava stabilmente: Blasè  di Archie Shepp (BYG /Actuel 1969), The 8th of July di Gunter Hampel (Birth 1969), In Sommerhausen (Calig 1969) di Marion Brown, Escaletor Over the Hill a nome di Carla Bley (JCOA/Ec, 1971), Town Hill  di Anthony Braxton (HatArt 1972), solo per citarne alcuni (la discografia completa di tutta la sua carriera ne comprende settantasette).

Con Conspiracy arriva un momento chiave per la artistica della Lee.  Per la prima volta si propone al contempo  compositrice ed esecutrice, ben consapevole del fatto che il pubblico poteva finalmente ascoltarla  in tutti i suoi aspetti. E più che mai la sua vita artistica era fortemente connessa con il vissuto privato. La sua formazione artistico-culturale l’aveva portata a confrontarsi con la danza, la coreografia, la musica, la psicologia e la letteratura, grazie anche ad un contesto familiare che le aveva consentito di crescere in un ambiente sensibile all’arte e alla libera espressione di sé. La madre , Madeline, è stata una delle prime donne afroamericane a lavorare per un impiego governativo  ed è stata socialmente molto attiva nella comunità dove viveva nella famiglia. Il padre S.Alonzo Lee era un cantante specializzato  sia in repertori classici che in musica da chiesa e spiritual. Jeanne Lee è dunque cresciuta maturando un approccio di apertura e curiosità verso qualunque stimolo che potesse aggiungere valore alle sue esperienze. Una ricerca che, presumibilmente, era un’esigenza innanzitutto umana, come emerge della figlia Cavana Hazelton, in un’intervista che mi ha generosamente rilasciato nel gennaio 2013: “Posso immaginare che il suo messaggio fosse l’espressione autentica di sé (…) Era interessata nell’esprimere ciò che sentiva o ciò di cui sentiva l’esigenza che fosse rappresentato, sia se questo veniva fatto attraverso le rime durante un campo scuola, che attraverso discussioni sulla politica  o per esperienza umana”.

VERITA’ ESPRESSIVA
Questo aspetto della personalità della Lee consente di contestualizzare il lavoro esplorativo della cantante , orientato verso la ricerca di una verità espressiva sempre più autentica, senza le catene limitanti delle forme di comunicazione costruite. Basterebbe cominciare pensndo al periodo storico-culturale in cui si collocano gli esordi, gli anni Settanta, che sono stati culla delle avanguardie sia di matrice afroamericane che europea. La storia in cui la donna è immersa diventa per lei un’opportunità: i linguaggi e le proposte che attraversano la cultura di quegli anni diventano per lei strumenti con cui poter trasmettere la propria urgenza espressiva, in modo spontaneo, equilibrato e coerente. Quale mezzo migliore per farlo se non la musica, vissuta come espressione connessa ad ogni cosa, al di là di un luogo o persino del tempo stesso. Fortemente radicata nella propria cultura  d’origine, la famiglia Lee  discende dai Seminole, uno dei numerosi gruppi tribali di nativi americani dell’America Settentrionale e dell’area culturale sudorientale, dotato di un senso d’appartenenza  e della comunità piuttosto caratterizzante. La storia di ogni popolo ha qualcosa da offrire alla storia del mondo intero, siamo tutti connessi gli uni agli altri. Secondo la visione estetica dei Seminole, il patrimonio culturale e le tradizioni orali dei nativi americani e afroamericani costituivano gran parte del processo di apprendimento. Spesso Lee utilizzava così racconti, movimenti di danza o canzoni attingendo a questo patrimonio per trasmettere nozioni o valori.

Jeanne Lee rivendica il collettivo come esigenza di realizzazione attraverso cui poter produrre arte e cultura. Non bisogna dimenticare che è vissuta in un periodo storico in cui gli afroamericani hanno impresso una forte accelerazione  al processo di lotta per il riconoscimento dei propri diritti. Tale impulso si è spesso concretizzato in varie forme aggregative , che hanno aggiunto un significato concreto al senso del collettivo di una comunità di individui. Questo aspetto è sempre stato un forte collante della vita della cantante, che ha frequentemente vissuto  e realizzato questa dimensione  sia nel privato che nella sfera artistica (aderendo, ad esempio, all’Aacm e alla jazz composers’s Orchestra di Carla Bley)  e che ha sviluppato un impegno politico e civile coerente e costante nel tempo.

Il rapporto con l’Europa è stato altrettanto caratterizzante per la sua vita, complice anche la ricca collaborazione artistica con il secondo marito, il polistrumentista tedesco Gunter Hampel, conosciuto nel 1967. Il connubio è perfetto. A  partire dalla fine degli anni ’60 il sodalizio tra i due porterà alla luce diversi progetti e numerose registrazioni. L’Europa, all’epoca recettiva verso le più disparate forme  di sperimentazione, li accoglie con interesse. Arriveranno anche in Italia, al festival jazz di Pisa nel 1978. Un palco che regala un’immagine ricca di significato avvolti in un’atmosfera al contempo affascinate e contrastante per il periodo: la coppia, lei nera e lui bianco, suona sulla scia di quel lento ma avviato processo di fusione fra il free jazz  degli afroamericani e la musica d’avanguardia europea. Alla fine degli anni Sessanta, non era così facile vedere collaborare insieme esponenti del free jazz con musicisti dell’avanguardia europea. La fusione dei due  mondi musicali è stato un processo di adattamento e di sviluppo più lento di quanto si possa pensare. Grazie alla sua vocalità originale e unica nella fusione tra le due tradizioni culturali, John Cage la invita a partecipare alla performance del suo Apartment House 1776 (opera scritta per 24 musicisti e 4 voci) commissionata nell’anno del Bicentenario Americano per il “National Endowment  for the Arts”. L’opera è stata diretta nella prima performance da Pierre Boulez.


La poetessa cantante, come lei stessa amava definirsi, attraverso la voce diventa ricercatrice  ad esempio per costruire una strada nuova che non annulla, anzi,  comprende e va oltre la realtà in cui è immersa.  Lo fa con una certezza: non ha paura del proprio suono.

Il coraggio espresso nella ricerca sonora e questa coerenza di identità rendono il suo gesto vocale ricco di significato. E dunque la parola riconoscibile come tale , diventa un’altra cosa: possibilità di enunciazione, frammento, scomposizione, vocalizzazione, sillaba, suono vocalico o consonantico, tutto diventa musica e assume un nuovo significato espressivo. La parola è fusa con la musica. Esemplificativa a riguardo l’interpretazione del suo In These Last Days , poema da lei scritto e magicamente interpretato nell’album Nuba  del 1979 (Black Saint  Records), uscito a nome del batterista  Andrew Cyrille e con Jimmy Lions al sax alto (album che è stato ripubblicato nel 2013 in un cofanetto della Cam, The Complete Remastererd Recordings on Black Saint & Soul Note Andrew Cyrille 7 cd set). Il brano può essere visto come una sorte di manifesto della cantante newyorkese, rappresentazione del suo impegno , in quanto musicista, verso il cambiamento sociale

LINGUAGGI INESPLORATI
Chissà se la cantante aveva intuito la possibilità di linguaggio inteso solo come puro suono, a prescindere dal linguaggio articolato. Per certo la poesia e il testo per lei rappresentavano un punto di partenza per l’improvvisazione, suggerendo possibilità fino ad allora inesplorate nelle improvvisazioni vocali. E anche in quest’ambito Jeanne Lee ha sempre un carattere lirico e armonioso, rispettando una fluidità melodica e un’eleganza sonora che convivevano anche nel contesto di ricerca più estremo, come quello del free jazz.

Straordinaria nella ricerca improvvisativa, coraggiosa nelle acrobazie ritmiche e nelle esplorazioni timbrico-cromatiche, appassionata poetessa, unica nella sua ricerca interpretativa attraverso cui aggiungeva significato a ogni fonema pronunciato. Difficile immaginare le sue caratteristiche sonore scisse dalla sua personalità: l’autentica espressione del sé immersa in una dimensione totale, dalla quale la sua voce non poteva prescindere. Tutto questo la rendeva sinceramente umana e dunque autenticamente bella.

Una storia che si consiglia di ripercorrere, sperando di poter al più presto vedere ristampati alcuni degli album ai quali ha collaborato: la bellezza della condivisione si arricchirebbe di un tesoro in più.

Fonte: alias del 26 agosto 2017.

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