sabato 4 marzo 2017

Gli arrabbiati se ne vanno gli dei restano

Luciano Granieri




Gli arrabbiati se ne vanno gli dei restano”. In realtà questa è un’inversione del titolo dell’ultimo disco degli Area  in cui cantò Demetrio Stratos. Il titolo dell’LP, registrato nel 1978,  a dieci anni dalla mitica stagione sessantottina,  è  gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano. “Mo', questo ci vuole ammorbare con le suo solite elucubrazioni di critica musicale”, potrebbe  osservare chi si accinge a leggere questo intervento. Niente di più sbagliato. 

Infatti, gli arrabbiati se ne vanno gli dei restano, potrebbe essere il titolo delle vicende che hanno contraddistinto le lotte di un gruppo di arrabbiati politicamente attivo nella città di Frosinone. Ve lo posso assicurare costoro erano molto arrabbiati. Hanno sempre denunciato lo scempio perpetrato sulla nostra città da vent’anni di giunte di centro destra e centro sinistra. Le politiche di asservimento al potere speculativo-fondiario, vero dominus del Capoluogo, sono state sempre  fortemente contrastate dagli arrabbiati. Le dinamiche d’impoverimento della popolazione frusinate, espropriata puntualmente e costantemente di servizi  sociali, luoghi di aggregazione, diritto alla salute e all’istruzione,  sono state inesorabilmente denunciate , imputando alle varie consiluature l’asservimento ai padroni muratori. 

Non è mancato il coraggio agli arrabbiati nell’ indicare con nomi e cognomi gli amministratori responsabili di tale sfascio: Domenico Marzi, Michele Marini  e alleanze varie  (centro sinistra) Nicola Ottaviani (centro destra). Come non è mancato il coraggio agli arrabbiati di denunciare la sciagurata gestione finanziaria della città gestita dal centrosinistra che, per regalare gli oneri concessori ai palazzinari, ha prodotto un debito tale da consegnare la cittadinanza al giogo del piano di riequilibrio economico e finanziario. Un piano lacrime e sangue  che ha consentito ad Ottaviani, sotto il ricatto della denuncia alla Corte dei Conti degli artefici del debito, di silenziare l’opposizione. Gli arrabbiati  sono riusciti ad aggregare un minimo di consenso proprio perché si sono mostrati senza peli sulla lingua, individuando i burattinai che dietro le quinte gestivano gli affari della città e del territorio  sulla pelle dei cittadini e anche in questo caso sono stati fatti nomi e cognomi: Abruzzese (centro destra), De Angelis, Buschini, Scalia(Pd) , Schietroma  (Psi). 

Le lotte degli arrabbiati, ovviamente, hanno avuto un risvolto elettorale e sempre compatti si sono battuti, sia contro il centro destra che con il centro sinistra, con esiti elettoralmente scarsi, ma con l’orgoglio di approfittare del clamore di una campagna elettorale per denunciare ancora più efficacemente il marcio . 

Cinque anni fa però all’alba del ballottaggio, cui erano giunti il sindaco uscente Michele  Marini e Nicola Ottaviani, era il 6 maggio del 2012,  gli arrabbiati diventarono dei. Non tutti evidentemente.  Alcuni di loro, dopo aver sbandierato  in campagna elettorale l'astensione al ballottaggio, perché l’uno e l’altro pari erano, dopo aver  detto peste e corna di Michele Marini accusato di essersi alleato con movimenti teodem, ed aver lasciato un debito mostruoso, gli dei  si convertirono , folgorati sulla via di Damasco,  alla  realpolitik,  e  spinsero per l’endorsement al candidato del Pd con l’obbiettivo di ottenere almeno un posto in consiglio comunale , per fare cosa  non è dato sapere.  Dopo una notte di contrasti, gli  dei cacciarono gli arrabbiati, ma la mossa non fu sufficiente a decretare la vittoria di Marini. 

Finito il regolamento di conti post elettorale, gli dei tornarono ad essere arrabbiati e a riaggregarsi con colori i quali incazzati lo erano stati da sempre. Gli ultimi cinque anni hanno visto riemergere un nuovo e rinvigorito attivismo degli arrabbiati contro le politiche dispotiche di Nicola Ottaviani e contro l’ignavia della minoranza guidata dal Pd, mai in grado di portare avanti una reale opposizione. Anzi  Si disse che la vera opposizione era svolta dagli stessi  arrabbiati nelle piazze. 

Una gestione creativa della finanza cittadina da parte dell’amminstrazione Ottaviani -divisa fra la privatizzazione dei servizi, l’aumento delle tariffe per accontentare i giudici contabili, e il finanziamento di sbicchierate elettoralistiche - non ha visto, a parte poche grida, alcuna azione oppositiva degna di nota. La rabberciata armata Brancaleone a trazione Piddina, si è guardata bene perfino dal  chiedere le dimissioni del sindaco, a seguito della vicenda giudiziaria sulla questione dei rifiuti che coinvolse   il suo vice  Fulvio De Santis.  Gli arrabbiati, una parte dei quali perse il lavoro, a seguito del sacrificio sull’altare del piano di rientro della società Multiservizi, hanno continuato la loro lotta contro maggioranza e opposizione convinti che fino a quando a governare Frosinone sarebbero stati i soliti noti, dell’una e dell’altra fazione, nulla sarebbe cambiato. 

Ma inesorabilmente arriva il mese vicino all’aprile (cioè maggio)  tempo in cui si tengono  le elezioni. E puntualmente tornano gli dei. Fortunatamente, questa volta, gli dei si sono palesati prima che iniziasse la campagna elettorale. La  realpolitik ha colpito ancora, per cui il Pd tanto bistrattato - quello degli Scalia, dei De Angelis, dei Buschini, gente contro cui si è appena conclusa una vittoriosa battaglia referendaria e accusata di essere la rovina del territorio - è diventato partner ideale per sconfiggere Ottaviani. E’ bastato che alla guida della coalizione comprendente i Dem ciociari  si candidasse, Fabrizio Cristofari. Il cardiologo, presidente dell’ordine dei medici di Frosinone, per conquistare gli dei si presenta con una sua lista civica, schifando il Pd, che pure è nella sua coalizione e di   cui è stato dirigente in passato. Nel frattempo  stringe accordi con la nomenklatura  socialista. Tradotto: De Angelis, Scalia, Schietorma, avranno molta voce in capitolo sulle dinamiche gestionali di Frosinone qualora dovesse vincere Cristofari, checché ne dica il candidato presidente dell’ordine dei medici. 

Agli dei questo non preoccupa, convinti  di poter imporre le loro istanze nel programma della cosiddetta forza progressista. Fortunatamente tutto ciò si è consumato prima dell’inizio della campagna elettorale, e ha consentito agli arrabbiati di andarsene  e rimanere coerentemente arrabbiati.  Gli arrabbiati se ne vanno gli dei restano.

 Noi arrabbiati, non ce l’abbiamo con gli dei, anzi auguriamo loro che l’obbiettivo, unico e debole, di mandare a casa Ottaviani e di contare all’interno del consiglio senza essere stritolati dai pezzi da novanta, si realizzi. Però non ce la facciamo ad allearci con coloro che abbiamo sempre considerato complici dello sfascio cittadino, anche se guidati da una faccia nuova (si fa per dire). 

Certo è che ogni cinque anni, quando  incombe il mese vicino all’aprile, gli arrabbiati soffrono il protagonismo degli dei. “Guardati dal mese vicino all’aprile”, dicono i contadini del meridione d’Italia che hanno imparato a temere i rovesci improvvisi del mese di marzo. Noi arrabbiati invece, facendo nostra una frase riportata proprio sul disco degli Area gli dei se ne vanno gli arrabbiati restano, diciamo “Guardati, compagno, del mese di maggio, noi non siamo più gli eredi di nessuno, bisogna ricominciare tutto da capo!

Good vibrations!



PROCESSO SUGLI INCENERITORI DI COLLEFERRO: ESCLUSE ASSOCIAZIONI ED ENTI TERRITORIALI

Comitato Residenti Colleferro, Associazione Mamme Colleferro, Associazione Raggio Verde, Associazione Rete per la Tutela della Valle del Sacco, Associazione Unione Giovani Indipendenti 


Il processo sugli inceneritori di Colleferro è stato agli onori della cronaca per molto tempo per l'estrema scientificità delle condotte criminose contestate. Risulta dal capo di imputazione che gli imputati hanno bruciato nell'inceneritore rifiuti non consentiti, arrivando, per non far emergere le loro responsabilità, a far falsificare i certificati relativi e a penetrare nel sistema informatico di monitoraggio in continuo, onde non far risultare lo sforamento delle soglie per inquinanti emessi in atmosfera. Ad oggi, la popolazione colleferrina non sa che cosa sia stato bruciato prima del 2008 nell'inceneritore, ma i dati per asma pediatrico e patologie alle vie respiratorie parlano -purtroppo- da soli.
Fatti di tale gravità hanno suscitato lo sdegno della popolazione e delle associazioni che a suo tempo venivano ammesse parti civili nel processo dinanzi al Tribunale di Velletri.
Il Tribunale di Velletri, dopo quattro anni di processo, dichiarava la propria incompetenza funzionale: il processo veniva trasmesso al Tribunale di Roma e, dopo quasi due anni, il GUP Fattori, dopo alcune udienze, ha deciso di escludere tutte le parti civili: enti territoriali ed associazioni.
E' questa dunque l'ultima evoluzione di un processo evidentemente nato male: la maggior parte dei capi di imputazione è già caduta o cadrà in prescrizione e forse una condanna civile sarebbe stato l'unico effetto pregiudizievole derivante agli imputati condannati per la loro condotta, ma neanche questo deve accadere, se si è deciso di escludere anche i Comuni che sono per legge deputati a tutelare il territorio e la salute dei loro cittadini!
Il messaggio dunque che passa, a vedere il decorso di questo processo, è che in Italia chi inquina, non paga. 

PARTITO DELLA RIFONDAZIONE COMUNISTA X CONGRESSO - CIRCOLO DI SORA

CIRCOLO “A.GRAMSCI” SORA 


Il giorno 5 marzo a Sora, presso la sede “U.I.” in via Lungoliri Della Monica 16,  si terrà il congresso del circolo di Sora e paesi limitrofi a partire dalle ore 10:00. Il congresso provinciale invece è stato convocato per il giorno 12 di marzo a partire dalle ore 10 presso l’Auditorium New Orleans a Isola del Liri.
La fase congressuale è la massima attività interna del Partito in quanto da essa scaturisce non solo la linea politica ai diversi livelli, territoriale e nazionale, ma anche l’aggiornamento delle pratiche politiche e il modo di essere dell’insieme della comunità degli iscritti e del come questa si connette con il moto della società.
L’intellettuale collettivo, ovvero il partito, che si interroga su se stesso con lo sguardo rivolto al futuro chiama a raccolta non solo i militanti, ma anche i simpatizzanti e comunque chiunque fosse interessato a partecipare ai momenti di confronto. E’ questo il senso più ampio del congresso. La forma dell’assemblea che prevede la presenza fisica e la vicinanza fra i compagni va oltre la separazione che di fatto oggi sancisce l’uso della rete e della “relazione” telematica che, per quanto efficace e veloce, però hanno un limite: impedire alle persone di realizzare una comunicazione globale. 
Comunicazione globale fatta non solo di parole scritte, ma di parole pronunciate e da volti che si guardano negli occhi. E’ questo, per noi comunisti, un valore aggiunto a cui non possiamo rinunciare.
Ospiti del congresso, Giovanni Russo Spena, già capogruppo Prc  alla Camera del Senato e Bruno La Pietra di Sinistra Unita Sora.
Invitiamo la cittadinanza pertanto a partecipare alla assise di circolo  e provinciale per poter contribuire in maniera diretta alla costruzione di questi momenti di ampia riflessione collettiva.

venerdì 3 marzo 2017

Storie di jazz, storie di espropri creativi.

Luciano Granieri


Spesso quando si discetta sulla genesi della musica jazz, si identifica  la nascita di questa straordinaria espressione come il frutto di una contaminazione fra la tradizione musicale africana, con qualche venatura di armonie arabe, e il composito patrimonio armonico occidentale, melodramma,tradizione bandistica e altro ancora. E’ però un fatto  che l’influsso non europeo, il blues,  la scala pentantonica e la metrica in 12 battute, siano  state predominanti nell’evoluzione del linguaggio jazz, e non solo, almeno fino allo spegnersi del secolo breve. Molti addirittura tendono a trasformare la creativa e atossica contaminazione, in un conflitto fra le due tradizioni, quella africano-araba e quella europea.  Ciò è vero se allarghiamo la visione oltre il progetto creativo e consideriamo le condizioni economiche e sociali in cui è cresciuta e si è evoluta la musica jazz. E’ innegabile come , in ogni fase della storia del jazz, ci sia stato il tentativo, spesso riuscito, di esproprio da parte dei bianchi,  a capo dell’industria musicale, di ciò che veniva creato dai musicisti neri. Tale appropriazione indebita, non si è esplicata solo in senso affaristico, ma anche nell’annacquamento delle forme  rivendicative  della musica afroamericana , così  da depotenziare il messaggio di rivolta sociale che questa esprimeva. Da un lato  hanno agito  le mire di profitto  delle case discografiche sulla musica dei neri, dall’altro il tentativo di ridurre la proposta musicale afroamericana  in semplice momento asettico di evasione e spettacolo.   Ripercorriamo in un rapido excursus le varie tappe di tale appropriazione indebita,  culturale,  economica e sociale.  

Race Record
Il blues fu la prima  e più longeva  fonte di tali colonizzazioni.  Lo sfruttamento del linguaggio in 12 battute si  è sviluppato ed evoluto nel corso di tutto il’900 per cui l’intuizione creativa dei neri, provenienti dall’africa, ha contribuito alla nascita del rock e all’arricchimento smisurato di personaggi bianchi  come Elvis Presley o gruppi come i Beatles e i Rolling  Stones. Tutto iniziò quando al sorgere degli anni ’20  alcune case discografiche,  cercando nuovi sbocchi commerciali scoprirono la redditività del canale nero. Nacquero così collane discografiche  chiamate “race record” (dischi di razza), riservate al solo mercato dei neri. Sui solchi di  questi dischi, fu fissato il ricchissimo patrimonio musicale del blues  vocale,ed orchestrale in particolare . Le Roi Jones nel suo libro  “Il popolo del blues” scrisse:”…. se osserviamo il fenomeno dei race record da un punto di vista più pratico,  come dovettero certamente fare i proprietari della Okeh, i dischi di Mamie Smith rivelarono l’esistenza di un mercato ancora non sfruttato. Di Crazy Blues se ne vendettero per mesi  circa 8000 copie alla settimana, del primo disco di Vittoria Spivey (Blake Snake blues), registrato sei anni più tardi, se ne vendettero in una anno 150.000 copie: ciò dimostra, se ce ne fosse bisogno, che la decisione delle case discografiche di estendere e potenziare il repertorio dei race record non era dettata da motivi altruistici  o artistici. Ma semplicemente dalla convinzione  che si trattasse di un ottimo affare”. Bessie Smith , ingaggiata dalla “Columbia” grazie al fiuto del discografico Frank Walker, contribuì a far realizzare alla casa discografica tali utili di vendita da risollevare il suo conto economico prossimo al fallimento. 




Swing Era

 Se il fenomeno dei race record fu solo  sfruttamento economico della creatività nera, limitando la sua azione  al profitto senza intaccare il patrimonio musicale del blues , completamente differente fu la devastante influenza dell’era dello swing . La chiusura delle case di piacere di Storyville,  la  militarizzazione del porto di New Orleans, in concomitanza con gli eventi della prima guerra mondiale,  costrinsero  i musicisti neri, che sulla città del Delta avevano costruito il linguaggio della nuova musica, a trasferirsi in cerca di un ingaggio nelle grandi metropoli ed essere inglobati nelle grandi orchestre bianche. Le sofferenze subite dopo le peripezie del ’29 orientarono la borghesia americana del New Deal, verso un ideale di vita basato sull’evasione. Il jazz, come al solito, non potè che essere espressione di quel sentimento. Le  orchestre furono le indiscusse protagoniste della scena musicale, ma la spinta propensione verso le sdolcinatezze proposte da alcune formazioni bianche non era  del tutto appropriate al musical business, che pretendeva anche quel pizzico di esoticità presente nelle formazioni  neworleaniste.  Ma New Orleans significava nero e tutto le critiche implicazioni sociali che dietro questa parola si nascondevano. L’ideale sarebbe stata un’orchestra bianca, o comunque con esecutori ben pettinati in frak e papillon, che nel suo dna avesse quel pizzico di esotismo nero tanto gradito.  Nel quartiere nero di Harlem a New York, sorsero un buon numero di locali, gestiti da bianchi, in cui lo strumentista afroamericano, proveniente da New Orleans, da Kansas City o anche dalla Chicago infestata da gangster, non era altro che l’attrazione esotica di un’orchestra formata da musicisti bianchi.  Nacque l’era dello swing, che al di la dell’esaltazione della pura evasione, vide l’affermazione di orchestre anche di buon livello. Il re della swing craze fu senza dubbio Benny Goodman. La chiave del successo di  Goodman fu , riproporre, lui che era bianco,  musica nera. Il fatto che un bianco suonasse  una musica che leader neri avevano creato prima di lui  dava ad essa una patina di rispettabilità mitigando certe  ruvidezze africane. I musicisti neri nella swing era furono costretti, per sopravvivere, a entrare come attrazione nelle orchestre bianche. Teddy Wilson al piano e Lionel Hampton la vibrafono furono le prime stelle di Goodman. Artie Shaw seguì l’esempio ingaggiando la straordinaria Billie Holiday.  Un’altra stella assoluta fu quel Roy “Little” Eldridge che Gene Krupa convinse ad esibirsi con lui offrendogli  150 dollari a sera rispetto ai 50 che Eldridge già guadagnava in un'altra orchestra. 

Dalla frustrazione di questi artisti, costretti a esibire la loro maestria tecnica come se fossero fenomeni da baraccone, e a subire umiliazioni come quella di entrare dalla porta secondaria dei locali dove suonavano, nacque il vento che portò ad una vera e propria rivincita nera. Il bebop, uno stile che espresse un concetto musicale  completamente opposto a quanto narrato dalla swing craze, a cominciare dall'idea  che quella non era più musica da ballo o d’evasione.  Intorno al 1940 solo pochi erano ottimisti sul futuro del jazz che pareva aver concluso il suo ciclo trasformandosi, nel giro di un trentina d’anni, o poco più, da musica folklorica legata a un certo ambiente e a certe condizioni storiche e sociali, a musica di svago destinata alle masse . La rivoluzione bebop fu la salvezza del jazz. Charlie Parker, Dizzy Gillespie, Kenny Clarke e tutti gli altri grandi strumentisti della bop era furono dei veri e propri rivoluzionari. Quei musicisti neri, o non bianchi, intesero, creando la loro musica, rompere con i valori consolidati, con la ferrea routine imposta nelle orchestre da ballo, che in nome del musical business, chiedevano al  jim crow di turno, sia che  suonassero  uno strumento, o  cantassero , o ballassero , solo di divertire il pubblico. Smaccato  era  Il rifiuto di ogni concessione spettacolare,  marcato era il disprezzo  per    l’applauso,  molte esecuzioni erano irridenti verso la borghesia ricca. Un tale atteggiamento,creativo, venne spazzato via dalle regole del profitto musicale. Nonostante le straordinarie novità del linguaggio boppistico , che posero la basi su cui poggerà tutto  il jazz  futuro, il be bop fu ben presto cancellato dal panorama musicale americano e molti musicisti, andarono a cercare fortuna in Europa. 




West Coast

In piena era bebop, dove il jazz stava mostrando una verve rivoluzionaria, autenticamente nera, ma osteggiata dal pubblico e dal mercato discografico, l’orchestra di Woody Herman parve una sorta di restaurazione  conservatrice di valori artistici, ma anche sociali e politici. L’operazione musicale di Herman consistette nel recuperare il dixieland, esaltandone lo spirito blues. La sua orchestra suonava un blues vestito di bianco. Dunque si ripropose l’ennesima appropriazione di caratteri afroamericani  assimilati e trasformati ad uso e consumo del musical business.  In questa fase tornò preponderante la forma dell’orchestra la scrittura in luogo dell’improvvisazione . Gli stilemi boppistici divennero parte del linguaggio Hermaniano, ma furono levigati e addolciti. Un  dato emergeva incontrovertibile, la nuova musica doveva contrapporsi alla rabbia dei boppers e soprattutto al loro disprezzo e rifiuto del pubblico. Anzi  doveva presentarsi accettabile,  accattivante e magari un tantino ammiccante. In quel periodo la California fu l’elemento naturale in cui crebbe il nuovo jazz. Questa era il simbolo di un mondo privilegiato, Santa Monica, Long Beach, Hollywood vedevano circolare masse di denaro ingentissime e locali come l’Hangover, il Down Beat, il Tiffany, lo Zardis, offrivano sovente ospitalità ai musicisti di jazz, i quali avevano l’obbligo oggettivo di offrire al ricco pubblico musica non aggressiva, comprendente  solo esecuzioni gradevoli, accettabili, niente orchestrazioni dure o hot, urlate, ma sonorità aeree, climi eterei con il rifiuto aprioristico di ogni violenza sonora e comportamentale. L’elemento blues si sciolse negli arrangiamenti classici. I tempi erano ormai maturi perché al pubblico americano si offrisse una musica più “accettabile”, e soprattutto che fosse bianca, . Stan Kenton,  con la sua orchestra, composta da soli elementi  bianchi,   può essere assunto, senza forzature, a simbolo del conservatorismo più smaccato tra i musicisti di jazz di ogni tempo. Nelle sue formazioni ebbero fondamentale importanza “le sezioni” piuttosto che i singoli solisti, comandava il leader, le improvvisazioni erano bandite.  Esplicita  fu l’invettiva  razzista che Kenton mosse contro il bebop nero, considerato frenetico e alieno alla vera musica che, ovviamente, era quella della sua orchestra. Non è da sottovalutare comunque che molti esponenti bianchi delle orchestre di Herman di Kenton, ma anche di Claude Thornill, e di altre formazioni,  furono jazzisti di assoluto valore. Stan Getz, Gerry Mulligan, Paul Desmond, Dave Brubeck , Chet Baker,  Lee Konitz, Art Pepper, Kay Winding,   per citarne solo alcuni, non eliminarono o ridussero ai minimi termini la lezione bebop, ma l’integrarono e arricchirono attraverso un utilizzo delle pause e dei fraseggi, più meditati, meno istintivi. Nacque un nuovo stile,  il cool jazz dove  cool  sta per "calmo" e non, contrariamente a quanto si pensi “freddo”. In realtà caposcuola della nuova forma jazzistica fu un nero, Miles Davis. Il trombettista proveniente da East Sanit Louis  agli anni passati affianco di Charlie Parker sovrappose il tempo passato  alla Juillard School of Music di New York. Ai fiammeggianti fraseggi di Parker la poetica di Davis, mescolava le dinamiche armoniche della musica classica. Il cool non era un processo di edulcoramento del linguaggio nero, ma consisteva in una sorta di  nobilitazione formale del bebop. Il risultato fu assolutamente straordinario e divenne  patrimonio di musicisti sia bianchi che neri. Non è da trascurare il fatto che il nuovo stile si rese appetibile anche al musical-business, il quale vendeva questo tipo di musica non come elemento esclusivamente evasivo, ma come forma alta, da eseguirsi nelle sale da concerto. 



L’anomalia degli anni ’50 fra hard bop e R&B
Non fu un caso che preminenti esponenti del cool jazz ospitarono nei propri gruppi, o furono essi stessi, gli animatori di un ritorno alle spericolate evoluzioni bop.  Fu la rivincita della New York nera sulla Los Angeles bianca, o marrone, volendo usare una forzatura. I primi  protagonisti del nuovo bop,  come il trombonista Jay Jay Johnson, il sassofonista Sonny Rollins, i batteristi Philly Joe Jones e soprattutto Max Roach, provenivano tutti dal cool jazz. Alcuni di loro avevano partecipato all’incisione manifesto del ’49 “Birth of the cool” o avevano militato, fra il ’54 e il ’59 nelle piccole formazioni di Miles Davis. Si replicò in certa parte della comunità jazzistica nera, la stessa frustrazione che colse 10 anni prima i congiurati del Minton’s. Quella frustrazione  nata dalla consuetudine di  adagiarsi nella consunta routine imposta dallo strapotere del” business world”, in un paese lacerato da mille e pressanti problemi, la cui soluzione  si sarebbe potuta realizzare, o almeno così si riteneva,  solo con rabbiosa decisione e con una rinnovata determinazione nelle lotte civili. Il linguaggio musicale che ne scaturì  era saldamente legato al passato, non solo a quello più recente di Parker e Monk, ma anche a quello più remoto delle radici della musica afroamericana, il blues .  Vennero riproposti gli stilemi parkeriani  inaspriti   da una decisa determinazione esecutiva , talmente rocciosa, da far definire il bop che veniva suonato “duro”, hard.  L’obbiettivo era scaldare, eccitare, aggredire chi ascoltava, insomma farlo partecipe di un mondo  che di dolce e lieve – non solo ad Harlem – aveva ben poco.  Il trombettista Clifford Brown fu il faro attorno al quale si radunarono  i musicisti neri newyorkesi  che per anni avevano  dovuto subire lo strapotere bianco ed un emarginazione forzata. Proprio con Max Roach,  Brown  costituì un quintetto considerato la   vera anima dell’hard bop. Disgraziatamente la prematura scomparsa del trombettista di Wellington, a soli 26 anni, pose fine alla vita di quell’esperimento, ma ormai il solco era tracciato. E  in quel solco si inserirono molti altri jazzisti che pure provenivano dalle formazioni dell’inventore del cool Miles Davis, e che di li a poco avrebbero stravolto ogni convezione musicale con il free jazz.  Ci riferiamo,  fra gli altri, a John Cotrane, allo stesso Max Roach, a Freddie Hubbard. L’orgoglio nero si ripropose con forza non solo nell’hard bop, ma anche in un ritorno preponderante del blues. Una forma però diversa, più urlata rispetto a quella nata nel  sud. Per le  strade di Harlem risuonava una nuovo  blues:  il rhythm and blues, una    straripante  forza comunicativa di rabbia per le condizioni  di vita drammatiche  quali erano  costretti i neri dei ghetti.  Si trattava di  una derivazione più elementare ed epidermica del blues classico. Nella nuova espressione  alla filosofia della rinuncia, propria dello stile d’origine, si sostituì  un ben diverso approccio alla realtà.   Chi ascoltava o suonava R&B voleva superare la lamentosa accettazione di una situazione ritenuta immutabile . La voce urlante dei cantanti neri, necessaria a superare in decibel il frastuono delle chitarre elettriche, era assimilabile all’urlo di chi voleva ribellarsi ad una vita di stenti e sottomissione. Non fu un caso che in quegli anni sorsero e si svilupparono case discografiche di proprietà dei neri, le quali si incaricarono di far incidere e diffondere la nuova musica. Il nuovo blues suonato e cantato  da Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Mahalia Jackson, Etta James, e Chuck  Berry, Ray Charles, Aretha  Franklin  dilagò ad Harlem e in tutti gli altri ghetti, da Detroit, a Chicago, a Filadelfia, a Baltimora  grazie anche alla storica etichetta discografica Tama Motown. E’ doveroso  sottolineare come gli stessi combattenti neri del Black Panther Party e di altre simili organizzazioni si riconoscevano  proprio nella forza espressiva del R&B. La semplicità esecutiva, la  fragorosa forza ritmica, erano caratteristiche che decretarono immediatamente il successo economico  della nuova musica . Una fonte di guadagno che, dopo un primo momento di smarrimento, venne fagocitata  dall’industria dello spettacolo per confluire  nel mare sterminato del rock’n roll . E fu proprio un bianco borghese a riempirsi le tasche di dollari, sfruttando la  vena creativa africana, Il mito  di Memphis, Elvis Presley. Quella stessa vena creativa che in Europa arricchì i Rolling Stones, i Beatles e tutti gli esponenti del rock’n roll espressione di pura evasione e fonte di guadagni milionari. Si potè assistere, ancora una volta, all’ennesima appropriazione da parte del musical business di un’espressione tipicamente nera. 




L’invendibile free
L’evoluzione jazzistica che si sviluppò  attraversò parte degli anni ’60 e i successivi ’70,   non corse mai il pericolo di essere edulcorata, o  diventare oggetto di attenzione da parte del musical business. Ci riferiamo al free jazz. Qui la rivoluzione nera  si espresse, non con l’adozione di ritmi martellanti e voci urlanti, ma con la destrutturazione sistematica degli elementi musicali: melodia, armonia, tonalità. Un’operazione  di abbattimento degli steccati sonori,  possibile solo attraverso   lo studio approfondito della musica, che riverberandosi nella società, acquisiva il significato di abbattimento della segregazione, dell’ingiustizia sociale, dell’arroganza imperialista, veri e propri steccati al dispiegamento di una  vita dignitosa e libera. Free appunto. Lo straordinario disco del sassofonista  Ornette Coleman, icona del nuovo linguaggio, si intitolava semplicemente “free jazz” e sulla copertina era ben descritto cosa si sarebbe ascoltato “A collective impovvisation by the Ornette Coleman double quartet” Un’improvvisazione collettiva dunque, senza leader e  tracce guida. Cosa fu e cosa volle essere il free jazz è  Archie Shepp, uno  dei maggiori esponenti della New Thing, a  descriverlo” E’ finita per i figli dei bianchi: non balleranno più con la musica  del pagliaccio nero. E’ finita con i battelli del Mississippi  e le sale da ballo di Chicago o di Manhattan, con lo sfruttamento, con l’alcool, con la fame, con la morte. E’ durato cinquant’anni il viaggio del nero verso il Nord. I figli del battelliere  e dell’emigrante hanno valicato i confini folkloristici dl jazz”  E’ utile ricordare comunque che notevoli esponenti del free furono anche musicisti bianchi, i quali attraverso la completa libertà esecutiva ed improvvisativa esprimevano il rifiuto della società borghese e  dell’imperialismo americano. Nonostante  il  free rappresenti nella storia del jazz uno dei capitoli più carichi di significato, in virtù degli avvenimenti che, nel periodo in cui si sviluppò,  segnarono la storia, non solo degli Stati Uniti, ma di tutto il mondo, questo movimento subì un notevole riflusso, soprattutto nella terra dove era nato.Qui il rifiuto del pubblico fu eclatante, per cui molti musicisti , furono costretti o a cercare fortuna in Europa o, addirittura, ad abbandonare l’attività musicale per dedicarsi ad altre professioni. Una musica così smaccatamente “contro” negli Stati Uniti  naturalmente venne  cancellata  dai circuiti musicali, costringendo i suoi interpreti a trasferirsi in Europa. Qui a differenza degli Stati Uniti il movimento giovanile studentesco del ’68, in particolare in Francia, si riconosceva pienamente negli stilemi anticonformisti e dissacratori del free. Non solo in Francia il nuovo jazz trovò diritto di cittadinanza. In Danimarca il Jazhus Montmatre di Copenaghen sarebbe diventato un punto nevralgico per la diffusione della musica d’avanguardia. Stesso successo si ebbe in Germania dove l’etichetta discografica ECM, si incaricò di  dare spazio in sala d’incisione, a tanti  freeman. Anche in Italia la nuova musica trovò molti adepti ed eccellenti esecutori. Gli anni ’70, con l’avvento del jazz-rock, l’ennesima  trovata  di Miles Davis, portarono verso il dissolvimento di un confine ben definito fra stili  invisi  al mercato e musica commerciale. E’ indubbio che il jazz-rock fu musica commerciale, ma è sufficiente ascoltare Bitches Brew di Miles Davis per capire come la qualità rimanesse sempre molto elevata. Oggi il jazz basato sul blues è un linguaggio entrato nella storia della musica. L’evoluzione post moderna identifica un espressione improvvisata colta che spazia in altre aree oltre il blues. Sperimenta forme  tonali ancora più rivoluzionarie  senza però addentrarsi in messaggi politici. Rimane comunque un espressione di nicchia. Ciò che resta, è comunque preda del mercato, del profitto, anche se fenomeni come il progressive rock  hanno regalato  pagine di grande musica. Possiamo dunque affermare che questa storia degli espropri musicali finisce con il finire degli anni ’70. Da qui  in poi sarà sempre il mercato a decidere, anche sulle sorti di nuove espressione nere come l’hip hop o il rap.





giovedì 2 marzo 2017

8 marzo Appoggiamo lo sciopero delle e con le donne di tutto il mondo!

Dichiarazione della Segreteria Internazionale delle Donne
Lega internazionale dei Lavoratori – Quarta Internazionale
 


Questo 8 marzo le donne nel mondo scriveranno un'altra pagina importante nella storia della lotta per i loro diritti; con un'azione senza precedenti, in più di 20 Paesi, in questa giornata internazionale della donna lavoratrice si sta convocando ad uno sciopero e per riconquistare le strade.
Nel corso degli ultimi anni abbiamo visto che giorno dopo giorno le donne si pongono alla testa della resistenza, le donne lavoratrici e povere ci insegnano come sconfiggere i piani dell’imperialismo, come resistere alle invasioni (Siria, Palestina, Kurdistan), come lottare per l’istruzione (Messico), come difendere ciò che si è conquistato (Polonia), come reclamare l’uguaglianza salariale (Islanda), come combattere per le nostre vite (India, Argentina), e così via.
Un anno e mezzo fa, il 3 giugno, con lo slogan #NiUnaMenos, un gruppo di giornaliste argentine ha convocato alla mobilitazione contro il femminicidio e la violenza verso le donne. In quel 3 giugno le strade di Buenos Aires si sono rivelate troppo strette per accogliere la mobilitazione più grande cui questo Paese avesse mai assistito fino ad allora in difesa dei diritti delle donne. La mobilitazione ha avuto un impatto mondiale e lo slogan ha cominciato a ricorrere in altri Paesi. Mentre affrontavano la repressione, le donne messicane hanno gridato la stessa cosa ed hanno aggiunto: Vogliamo vivere! E così ha cominciato ad espandersi nel mondo la lotta femminile, sostenuta da migliaia di lavoratori.
Nel 2016, molte donne hanno ripreso a manifestare; grandi mobilitazioni hanno attraversato molti Paesi, ma lo sciopero di donne che hanno fatto le donne polacche per il diritto all’aborto, così come lo sciopero di ottobre in Argentina, hanno segnato una nuova prospettiva. La grande spinta che mancava, l’hanno data le donne nordamericane che in centinaia di migliaia hanno manifestato per affrontare Donald Trump il primo giorno del suo mandato.
A differenza di quanto dice la gran parte dei gruppi femministi nel mondo, questo non ha nulla a che vedere con un empowerment individuale delle donne o con la difesa della nostra “femminilità”. Ciò è accaduto perché la crisi del capitalismo è ogni giorno più intensa, i piani di assestamento dell’imperialismo e dei governi che lo servono, sono ogni giorno più duri e colpiscono con maggior virulenza le donne lavoratrici e povere, che non hanno altra alternativa che cominciare ad opporvisi. Ciò è accaduto perché questa situazione si associa alla violenza maschilista, che ci toglie anche la vita, provocando un’ondata di disgusto e di indignazione in tutto il mondo.
Come Lit-Qi noi abbiamo partecipato con molto entusiasmo a ciascuna di queste azioni, abbiamo condiviso le strade con migliaia di lavoratrici e lavoratori, abbiamo partecipato a riunioni per organizzare le giornate del 25 novembre e ci ha rallegrato il fatto che figure di peso internazionale come Angela Davis e Nancy Fraser, ne abbiano sostenuto la convocazione. Ci rallegra che si prepari uno sciopero di ogni attività contro la violenza maschilista, che i confini siano travalicati, che l’8 marzo sia veramente una giornata internazionale di lotta, che in molti angoli del mondo si stia parlando delle nostre esigenze.
Allo stesso tempo, questo entusiasmo non ci incanta e crediamo che sebbene questo sia un primo passo, dobbiamo ancora parlarne a lungo per evitare che la lotta per la nostra emancipazione si interrompa a metà strada. Siamo convinte che da sole non andremo molto lontano. Il passo avanti che le donne hanno fatto nella lotta, deve essere supportato dalla lotta che tutti i lavoratori e i popoli oppressi devono fare contro l’imperialismo. Dietro ai discorsi maschilisti, omofobi, razzisti e contro gli immigrati di Trump, si nasconde un piano completo per continuare a scaricare la crisi economica mondiale sulle spalle dei lavoratori, dei giovani senza lavoro, e soprattutto dei settori maggiormente oppressi. Tutto ciò serve a dividere la classe in modo che i ricchi possano recuperare i loro favolosi profitti. Trump colpisce per primi i più vulnerabili, ma poi arriverà anche ai diritti dei lavoratori bianchi.
I piani di assestamento e di austerità sono a carico di tutta la classe proletaria, anche se colpiscono con maggior intensità le donne, gli immigrati, i neri e la comunità LGBT. Noi siamo le prime ad avvertire l’aumento del costo della vita perché non possiamo garantire il cibo ai nostri figli, non abbiamo medicine e viviamo in zone sprovviste di servizi pubblici. I tagli, la mancanza di acqua potabile in molti Paesi dell’Africa, ad Haiti e nelle zone più povere del mondo, portano sofferenze terribili. Molte donne in India soffrono di malattie o vengono violate nelle zone rurali perché non possono accedere a servizi igienici e i bagni pubblici sono scarsi. I presupposti per combattere la violenza maschilista, dove esistono, sono scarsi e tendono a scomparire. Siamo alla mercé di noi stesse perché i governi invece di aumentare le tasse ai ricchi e sottrarre i beni rubati dai corrotti, aumentano le tasse e l’IVA ai lavoratori e ai poveri.
 

Tutti allo sciopero e nelle strade!
Le riunioni di preparazione dell’8 marzo in Argentina  si sono pronunciate in modo unanime per esigere che i sindacati convichino lo sciopero in questa giornata, allo stesso modo che in altri Paesi, movimenti di donne o raggruppamenti sindacali – come in Italia Non una di meno e il Fronte di Lotta No Austerity – hanno chiesto ai sindacati di base e al resto dei raggruppamenti di dare copertura alle donne per l’8 marzo. In Brasile, il Movimento delle Donne in Lotta (MML), legato alla CSP-Conlutas, non solo ha aderito alla convocazione dello sciopero internazionale ma ha anche fatto un appello perché lo facciano anche altri settori, come parte della preparazione dello sciopero generale che la classe lavoratrice ha necessità di fare per abbattere il governo di Temer e i suoi progetti di controriforme sociali e lavorative. Il sindacato degli insegnanti dello Stato di San Paolo ha chiesto alla corporazione, in maggioranza femminile, di scioperare in questo giorno.
Prendiamo atto di questi primi esempi e andiamo più in là, facciamo in ogni luogo di lavoro e di studio riunioni, assemblee in cui si discuta e si decida di partecipare allo sciopero mondiale. Tendiamo la mano ai nostri compagni di classe perché scioperino e scendano nelle strade con noi, perché ascoltino le nostre richieste che sono anche le loro richieste, perché gridino al nostro fianco alle organizzazioni sindacali che lo convochino, perché si cominci a combattere il maschilismo nelle nostre fila, perché le nostre richieste si sommino a quelle specifiche di lotta di ogni sciopero.
Facciamo in questa giornata migliaia di proteste davanti alle fabbriche, nelle piazze pubbliche, facciamo appello a mobilitazioni unitarie.
Cominciamo noi, mettiamoci alla testa e battiamoci per i nostri diritti, ma chiediamo che ci accompagnino tutti i lavoratori perché la nostra lotta è quella di tutti gli sfruttati. Perciò questo 8 marzo scioperiamo e lottiamo tutti con e per le donne, così come noi lottiamo contro i licenziamenti, contro le leggi che tagliano le nostre pensioni, per l’istruzione pubblica dei nostri figli, i figli dei lavoratori. Uomini e donne, noi che possiamo fermare la produzione siamo la classe lavoratrice, e sicuramente dovremo affrontare una minoranza di donne che, come Betsy De Vos, ministro dell’Istruzione del governo Trump, è una  multimilionaria, padrona della multinazionale Amway, e nemica dell’istruzione pubblica e delle lavoratrici. La gioventù studentesca, può anche fermare o mobilitare le università e i college e unirsi alle azioni che si stanno organizzando in ogni Paese in quella che può essere una grande giornata. Una grande giornata per le donne, una grande giornata di lotta di tutti gli oppressi e sfruttati. Diciamo ai padroni del mondo che siamo sul piede di guerra.
Questo 8 marzo, noi donne lavoratrici ritroveremo la nostra tradizione di lotta, quella tradizione che ha avuto inizio quando questa data fu dichiarata giornata internazionale della donna agli inizi del secolo XX, e che ha avuto un impulso straordinario con il trionfo della rivoluzione operaia nella Russia del 1917. Perché sono state le operaie russe che nel febbraio di quell’anno, nella giornata della donna, hanno cominciato la rivoluzione sociale più toccante della storia. Le operaie e gli operai, i contadini poveri e i soldati semplici compresero che perché la lotta contro la fame, contro la violenza, contro lo sfruttamento spietato e contro l’oppressione non si fermasse a metà strada, era necessario prendere il destino di tutta la società nelle proprie mani e cominciare a costruire una società nuova, una società socialista. E noi vogliamo ripetere questa storia in tutto il mondo.

Legge 194/78 , cosa vogliono le donne

 Il Segretario Prc-Se  Paolo Ceccano


La decisione di assumere, da parte della Regione Lazio, all’ospedale San Camillo di Roma due medici con un concorso al quale si può aderire solo se non obiettori rispetto alla legge 194/78 la riteniamo una decisione giusta.

L’iniziativa è stata presa per contrastare l’enorme ricorso all’obiezione di coscienza che in molte regioni d'Italia rende sempre più difficile accedere all’aborto.
Di fronte alle contrarietà manifestate in questo caso dalle diverse parti, CEI in testa passando per il ministro della Salute, più interessate all’applicazione della legge solo nel senso dell’obiezione che non alla tutela dei diritti alla salute e all’autodeterminazione, ci sentiamo di affermare che l’unico parere al riguardo veramente importante è solo quello delle donne.

Come partito politico possiamo esprimere una nostra posizione che deriva da un ragionamento squisitamente istituzionale vale a dire che a noi corre l’obbligo di porre l’attenzione sulla responsabilità delle istituzioni affinché operino per la legittima applicazione della legge 194/78 nel tutelare, ribadiamo, i diritti all’autodeterminazione e alla salute della donna. Ma non solo in termini di principio quanto piuttosto nel rendere effettivi tali diritti, definiti dalla Costituzione: fondamentali, rimuovendo tutti gli ostacoli che ne rendono difficile o addirittura impossibile l’attuazione.


La decisione della Regione Lazio va in questa direzione e pertanto il PRC è in totale accordo con tale decisione. Tutto ciò dimostra che non c’è nessuna intenzione discriminatoria nei confronti dei medici obiettori che sono la stragrande maggioranza.

mercoledì 1 marzo 2017

IL DRAMMA LAVORO

Il segretario provinciale del PCI Frosinone

Oreste Della Posta


Gli ultimi dati sulla cassa integrazione riferiti alla nostra provincia evidenziano un aumento delle ore di CIG del 40%; dal 2015 al 2016 si passa da 11.799.932  a 16.758.916 di ore di cassa. Questi dati dimostrano, senza ombra di dubbio, che la ripresa economica rimane solo un triste miraggio mentre lè famiglie in stato di povertà sono in continuo aumento.
Noi Comunisti da sempre sosteniamo che per il rilancio economico della nostra provincia occorrono una serie di interventi pubblici nei settori strategici in quanto se consideriamo i dati relativi alle ore di cassa integrazione nella regione Lazio solo la provincia di Frosinone, rispetto alle altre provincie, non ha una riduzione complessiva delle ore di CIG. Siamo praticamente il fanalino di coda del Lazio.Rimane il problema fondamentale di come far ripartire il sistema produttivo.
È chiaro a tutti che il nostro sistema imprenditoriale è incapace di portare avanti progetti credibili, di fare innovazione tecnologica, di ricercare nuovi mercati con prodotti sempre più innovativi. Sostanzialmente non è in grado di rispondere alle nuove sfide che i tempi della globalizzazione impongono. Politiche non attuabili in breve tempo ma indispensabili per la nostra provincia.
Nel frattempo i lavoratori che rimarranno senza alcun ammortizzatore sociale come faranno a vivere? La risposta è una sola: reddito minimo di cittadinanza, che in fase transitoria potrebbe arginare la povertà che attanaglia le famiglie della nostra provincia.
È evidente che da questa grave crisi economica nessuno può sentirsi sicuro e protetto in quanto tutti potrebbero incappare nel disagio sociale.
Pertanto invitiamo i cittadini a valutare bene alle prossime scadenze elettorali chi in realtà propone un reddito minimo di cittadinanza e chi si batterà in futuro per ottenerlo, soprattutto per quanto riguarda la città di Frosinone. Noi Comunisti da sempre siamo da una parte sola: quella del Lavoro e dei Lavoratori.

martedì 28 febbraio 2017

Hop Frog -appunti di vita- il sogno realizzato di Stefano Testa.

Luciano Granieri


Qualche giorno fa ho  incontrato  al supermercato Stefano. Stefano Testa, una persona squisita con cui, ai tempi del liceo, ho  condiviso interessi e passioni, la musica in particolare  . C’eravamo  rivisti tempo dopo per questioni di lavoro, ma  più o meno da  una quindicina d’anni il caso ci aveva  tenuto lontani. Mi ha fatto dunque molto piacere rincontrarlo, nonostante fossimo fra gli scaffali di un supermercato, luogo non certo ameno. 

Stefano, salutandomi   con calore, mi chiede di aspettarlo qualche minuto perché deve darmi una cosa. “Vado in macchina e prenderla” dice , e scappa via. In quei pochi minuti di attesa, mi arrovello per capire   cosa sarà mai ciò  che Stefano vuole darmi. Ammetto di aver vagato nei meandri più reconditi della mia immaginazione, rimanendo immerso nell’incertezza. Dopo pochi minuti l'amico ricompare  e  mi consegna un Cd. “E’ il mio Cd.  Ci tenevo a dartelo perché ti ho citato nelle note di copertina. Se sono riuscito a realizzare il  sogno di incidere un disco in parte lo devo anche a te a molti altri amici che insieme a te ho ringraziato nelle due righe scritte a corredo dell’incisione  - poi   aggiunge-  la mia musica non è quella che preferisci ma è giusto che tu abbia questo Cd dove compare anche il tuo nome”. Rispondo, non senza sorpresa, che la musica, quella vera, è bella tutta oltre gli steccati degli stili. Ci salutiamo e nel stringergli la mano faccio fatica  a nascondere un po’ d’emozione per l’inaspettato regalo.  “Hop frog –appunti di vita” è il titolo del cd. 

Sui ringraziamenti scritti  nelle note tornerò alla fine del testo. Vorrei in prima battuta  soffermarmi sul disco. Si ascoltano 18 tracce composte da Stefano, arrangiate dal tastierista  Fabio Raponi in collaborazione con il chitarrista  Silvio Urbini, Sandro Assante e lo stesso Stefano Testa. Il numero dei musicisti coinvolti nel progetto è nutrito, la qualità eccellente: Silvio Urbini ed Andrea Rivera alle chitarre, Fabio Raponi al pianoforte e alle tastiere,  Claudio Campadello al basso elettrico e al contrabbasso, insieme ad un altro contrabbassista, Carlo Sabellico, e Roberto Pistolesi alla batteria, formano la sezione ritmica. La voce di Stefano Testa,  Filiberto Palermini al sax soprano, Corrado Angeloni, fisarmonica, Loreto Gismondi violino, Luigi Mattacchione, armonica e  il fischiettio di Sandro Assante si occupano di costruire armonia e melodia. 

Appunti di vita” recita la seconda parte del titolo e mai definizione fu più azzeccata. Nel succedersi dei brani si squadernano intonse, e mirabilmente descritte in musica,  le passioni di  un’esistenza vissuta intensamente. La vena romantica è preponderante in tutte le sue forme: la  felicità dell’amore che sboccia, la disillusione per un rapporto stagnante, la  delusione per un amore finito. L’arguta  e brillante ironia,  tipica di Stefano, è un altro elemento preponderante insieme alla passione per  il jazz, la musica sudamericana e mediterranea.  Il pezzo Matador è un sontuoso richiamo al tango di Astor Piazzolla. 

Spostando  l’attenzione  sulla musica  mi ha molto colpito  la qualità delle composizioni e degli arrangiamenti. Ogni brano è cesellato, curato fin nel  più piccolo risvolto, melodico, armonico e ritmico. Non si spreca una nota. L’attenzione per l’equilibrio sonoro e timbrico non intacca minimamente la valenza emotiva che  risulta molto  intensa. Una sofisticata ed elegante onda di passione  trasuda da tutti e 18 i brani. I pezzi che ho apprezzato maggiormente, oltre al già citato Matador, sono:  Ricorderò, una bellissima, ed eterea bossanova,   Vuoti di memoria, un brano stilisticamente notevole con l’intervento  alla chitarra di Silvio Urbini che ricorda il migliore Jim Hall. Non so se sia un caso ma entrambi i titoli chiamano in causa  il ricordo, ora presente, ora  assente. Ovviamente tali valutazioni sono assolutamente personali. Il disco è  molto bello  nella sua interezza e merita di essere ascoltato attentamente per apprezzarne ogni sfumatura. Complimenti sinceri a Stefano a tutti i suoi musicisti per il bel sogno  realizzato.  

Tornando ai ringraziamenti delle note di copertina, devo ringraziare  a mia volta Stefano, perché alcuni di  quei nomi citati affianco al sottoscritto (Claudio Campadello, Gianluca Pacciani, Vincenzo Martorella) evocano un momento particolare della vita culturale della nostra città. Era un periodo in cui tutti suonavano con tutti. Un gruppo allargato di ragazzi , appassionati di musica, s’incontravano nei garage nei sottoscala per suonare ore ed ore fino allo sfinimento. Da li usciva di tutto, jazz, country music, progressive, rock, musica d’autore. Non c’erano steccati ne confini stilistici, era bello suonare, improvvisare, su tutto. 

Personalmente ricordo quando con Stefano entrammo per la prima volta in una sala di registrazione. Era una studio di Roma  dalle parti di San Giovanni i brani venivano incisi su grossi nastri, (i cosiddetti master), da cui si ricavavano i dischi e le audio cassette. Ci trovammo, improvvisamente immersi nell’asetticità di una studio professionale, dove non si poteva sbagliare, pena la ripetizione del pezzo che poteva continuare per ore. 

Un’esperienza particolare ed esaltante per chi come me continuava senza ritegno  a schiattare le pelli di una batteria nelle cantine della città. Sono dunque  grato a  Stefano, non solo per aver inciso un ottimo disco, ma anche per aver suscitato il ricordo di bel periodo della mia vita  e per avermi reso partecipe della realizzazione del suo sogno.

Good vibrations.

lunedì 27 febbraio 2017

1917 - 2017 Una «rivoluzione spontanea»? La Rivoluzione di febbraio e i suoi insegnamenti

Matteo Bavassano



Nell’anno del centenario della Rivoluzione russa è già cominciata quella farsa prevedibile, ma non per questo meno fastidiosa, per cui tutti coloro che si ritengono, a vario titolo, di sinistra cominciano ad «osannare» – a parole, beninteso – la Rivoluzione d’ottobre, pur non applicando nella pratica le lezioni di quella fondamentale esperienza della storia dell’umanità, né, nella maggior parte dei casi, conoscendone davvero i fatti e gli eventi fondamentali, senza essere in grado di fare un’analisi coerente, cioè marxista, della dialettica dello sviluppo della rivoluzione. Non furono soltanto i rappresentanti della borghesia espropriata dalle masse rivoluzionarie a falsificare la storia della rivoluzione: per anni, per ragioni parzialmente differenti nel tempo, coloro che si professavano – falsamente – eredi della Rivoluzione d’ottobre hanno tenuto all’oscuro i loro militanti su ciò che era realmente accaduto, sia per quanto riguarda l’insieme della Rivoluzione, sia per quanto riguarda la Rivoluzione di febbraio nello specifico. Che Guevara, nel quaderno di appunti che aveva con sé durante la guerriglia in Bolivia, parlando della Storia della Rivoluzione russa di Lev Trotsky, scrisse: «fa luce su tutta una serie di eventi della grande Rivoluzione che erano rimasti offuscati dal mito» (Ernesto Che Guevara, Prima di morire, p. 94). Se riguardo all’Ottobre le falsificazioni sono rivolte dagli stalinisti a ridimensionare il ruolo di Trotsky e a costruire un inesistente ruolo di primo piano per Stalin, oltre che a distruggere l’idea fondamentale per cui la Rivoluzione russa era per Lenin solo il primo anello della rivoluzione socialista mondiale, riguardo al Febbraio le falsificazioni sono state addirittura più profonde, perché sono servite agli staliniani a bloccare l’estendersi della rivoluzione, almeno a partire dalla seconda rivoluzione cinese. Ciò si aggiunge alla falsificazione dei borghesi, che presentano la Rivoluzione di febbraio come la rivoluzione della maggioranza del popolo russo contro lo zar e l’apparato repressivo dell’autocrazia, contrapponendola al «colpo di Stato» dei bolscevichi contro la democrazia. Cercheremo in questo articolo di richiamare, e di sfatare, le principali falsificazioni sulla Rivoluzione di febbraio, dandone una coerente interpretazione marxista.

Uno sciopero che nessuno voleva «proclamare»
Il 23 febbraio 1917 (8 marzo secondo il calendario occidentale), la Russia si trovava nel trentaduesimo mese della Grande guerra: le prospettive della fine della guerra erano ancora lontane, e ciò era più di una condanna a morte per i soldati al fronte, era una condanna a una lenta agonia nelle trincee che falcidiavano innumerevoli vite; nelle retrovie, i riservisti temevano enormemente il loro turno di essere fagocitati dalle trincee; la popolazione civile, stremata dalle ristrettezze di guerra e dal lavoro massacrante necessarie per sostenere lo sforzo bellico, cominciava a non poterne più delle file per il pane e di perdere i propri cari per il profitto di quei borghesi che continuavano ad arricchirsi, che non soffrivano per la guerra, che continuavano a vivere nel lusso e negli agi di ieri. È bene notare, sia pure en passant, che prima dello scoppio della guerra, tra il 1912 e il 1914, il movimento operaio russo si era ripreso dal periodo di reazione successivo alla sconfitta della Rivoluzione del 1905 ed aveva dato vita a centinaia di scioperi di massa: lo scoppio della guerra e la primitiva ubriacatura patriottica avevano spezzato l’ascesa del movimento, ma questi scioperi furono una scuola fondamentale per i lavoratori che faranno la rivoluzione.
Il 23 febbraio era il giorno in cui in Russia si celebrava la Giornata internazionale della donna (all’epoca ogni sezione della Seconda Internazionale celebrava la ricorrenza in una data diversa, solo in seguito verrà fissata internazionalmente questa data, cioè l’8 marzo secondo il calendario occidentale): Trotksy, nella sua Storia della Rivoluzione russa ci dice che «nei circoli socialdemocratici si pensava di celebrare questa giornata nelle forme abituali: riunioni, discorsi, manifestini. Ancora alla vigilia, nessuno si sarebbe sognato che questa “Giornata della donna” potesse inaugurare la rivoluzione. Non una sola organizzazione aveva preconizzato uno sciopero quel giorno». Ma lo stato d’animo nei quartieri operai era ormai all’apice della tensione, tanto che l’organizzazione bolscevica del quartiere di Vyborg sconsigliava qualsiasi sciopero, perché questo avrebbe potuto trasformarsi in uno scontro aperto. Ciononostante, il 23 mattina gli operai tessili lasciarono il lavoro e, con le operaie alla loro testa, si dirigono da Vyborg attraverso le grandi fabbriche fino al sobborgo di Pietrogrado ed alla Duma per chiedere pane: «è dunque stabilito che la Rivoluzione di febbraio fu scatenata da elementi di base che superarono la resistenza delle loro stesse organizzazioni rivoluzionarie e che l’iniziativa fu presa spontaneamente da un settore del proletariato oppresso e sfruttato più di tutti gli altri – i lavoratori tessili – tra cui indubbiamente si contavano non poche mogli di soldati»,(2) un particolare, quest’ultimo, da non sottovalutare assolutamente. Una delle grandi incognite che preoccupavano i dirigenti in quei giorni, infatti, era cosa sarebbe successo quando gli operai scesi in sciopero avrebbero incontrato i soldati nelle strade, quegli stessi soldati che avevano represso il Soviet di Pietroburgo e l’insurrezione del dicembre 1905 a Mosca. Ma gli anni di guerra avevano mutato profondamente l’esercito: le necessità della guerra, l’ampliamento dell’esercito, la lunga durata del conflitto aveva fatto sì che l’esercito non fosse più un «corpo separato» dalla società civile, ma che diventasse una specie di crogiuolo in cui negli anni si era forgiata tutta l’insofferenza delle masse popolari, specialmente i contadini, verso l’autocrazia e la guerra imperialista. Ed infatti non solo i normali soldati dimostreranno una benevola neutralità verso gli scioperanti, ma anche i temuti cosacchi si asterranno dal caricare le masse lavoratrici, ed anzi in alcuni casi ostacoleranno anche l’azione dei faraoni, la polizia a cavallo che pare essere la sola a tentare di contrastare gli operai. Il giorno successivo, il 24, lo stato d’animo delle masse non si calma: circa metà degli operai di Pietrogrado sono in sciopero, mentre la parola d’ordine del «pane» viene lasciata cadere a favore di slogan come «abbasso l’autocrazia! Abbasso la guerra!», ma ancora vi sono solo scontri con la polizia e non sparatorie con l’esercito (o, per meglio dire, dell’esercito sugli scioperanti). Secondo un piano già pronto da tempo, commissionato dal governo ed eseguito dal generale Cebykin, comandante in capo della riserva della guardia, nei primi giorni non si sarebbe schierata la fanteria, ma solo la polizia e successivamente la cavalleria; dal giorno 25, a fronte dello sciopero che si estendeva, venne impiegata anche la fanteria, seppure manteneva ancora una benevola neutralità, non aprendo ancora il fuoco. Ma il governo aveva intenzione di farla finita con la protesta: nella notte tra il 25 e il 26 vennero arrestati un centinaio di militanti rivoluzionari, tra cui alcuni membri del Comitato dei bolscevichi di Pietrogrado. Domenica 26 febbraio gli operai cominciano a convergere verso il centro della città e ad incontrare gli sbarramenti e i plotoni dell’esercito, i quali avevano ricevuto l’ordine di sparare, ordine che veniva eseguito particolarmente dagli allievi ufficiali: comincia quindi la battaglia degli operai per conquistare i soldati dalla loro parte, alla rivoluzione contro la guerra e l’autocrazia. «La pressione esercitata dagli operai sull’esercito si accentua, contrapponendosi all’azione dell’autorità sulle forze militari. La guarnigione di Pietrogrado diventa definitivamente il centro focale degli avvenimenti. Il periodo di attesa, durato quasi tre giorni, durante i quali la grande maggioranza della guarnigione poté ancora mantenere un atteggiamento di amichevole neutralità nei confronti degli insorti, volgeva alla fine. “Sparate sul nemico!” ordina la monarchia. “Non sparate sui vostri fratelli e sulle vostre sorelle!” gridano gli operai e le operaie. E non solo questo: “Marciate con noi!”. Così, nelle strade, sulle piazze, dinanzi ai ponti, alle porte delle caserme, si svolgeva una lotta incessante, ora drammatica, ora impercettibile, ma sempre accanita, per la conquista dei soldati. In questa lotta, in queste violente prese di contatto tra i lavoratori, le lavoratrici e i soldati, sotto il crepitare continuo dei fucili e delle mitragliatrici, si decidevano le sorti del potere, della guerra e del Paese».(3)
La vittoria dell’insurrezione: la nascita del soviet e del governo provvisorio
Frattanto, Rodzjanko, leader della Duma imperiale, presentatosi a Galicyn, presidente del Consiglio, per persuaderlo a dimettersi, al fine di nominare un nuovo esecutivo con ministri che godessero della fiducia popolare che mettesse fine alla rivolta, riceve l’ukase di scioglimento della Duma, a cui il giorno dopo, mentre l’autocrazia cadeva fatalmente e un nuovo potere nasceva a Pietrogrado, i membri della Duma si piegavano senza fiatare: il parlamentarismo russo non aveva altra base di forza se non le concessioni dello zar, e potrà prendere il potere solo grazie ai leader conciliatori. La mattina del 27 era carica di incertezze: cosa sarà successo nelle caserme durante la notte? Quali saranno le reazioni dei soldati agli scontri del giorno prima? Gli operai avranno ancora la necessaria fiducia nelle loro forze per tornare a scioperare? «Sin dal mattino gli operai affluiscono verso le fabbriche e in assemblee generali decidono di continuare la lotta. […] Continuare la lotta, oggi, significa fare appello all’insurrezione armata. Tuttavia, questo appello non è lanciato da nessuno. Ineluttabilmente gli avvenimenti lo impongono, ma non è messo all’ordine del giorno dal partito rivoluzionario».(4) Se infatti non si poteva certamente contare sui menscevichi e sui socialisti-rivoluzionari per chiamare all’insurrezione gli operai e i soldati, il centro dei bolscevichi, privato di Lenin, era pressoché paralizzato, con Sljapnikov (principale dirigente di Pietrogrado) che cercava di evitare gli scontri tra gli operai e l’esercito, lasciando di fatto a loro stesse le organizzazioni di quartiere: in una riunione di delegati di fabbrica a casa d un dirigente bolscevico del quartiere di Vyborg si decide a maggioranza per la continuazione del movimento. Ma ancora prima che l’esercito scendesse nelle strade, i primi reggimenti cominciarono ad ammutinarsi, ad andare nelle altre caserme per convincere gli altri soldati a unirsi all’insurrezione: sapevano bene che la loro salvezza dalla repressione stava nella vittoria della rivoluzione sull’assolutismo. «Il gruppo di Vyborg, in collaborazione con i soldati più decisi, ha abbozzato un piano d’azione: impadronirsi dei commissariati di polizia, dove si sono barricati i poliziotti armati, e disarmare tutti gli agenti; liberare gli operai incarcerati nei commissariati e i detenuti politici che si trovano nelle prigioni: schiacciare le truppe governative in città, guadagnare le truppe che ancora non si erano unite al movimento e gli operai degli altri quartieri».(5) Mentre i bolscevichi, spontaneamente, organizzavano la vittoria della rivoluzione nei quartieri di Pietrogrado, i menscevichi andavano verso la Duma, luogo in cui dal pomeriggio cominciarono a recarsi vari rappresentanti dei reggimenti insorti e, verso sera, gli operai e i loro delegati per avere informazioni su quanto stava succedendo, nonché direttive dal suo nuovo «stato maggiore rivoluzionario». «I menscevichi, membri del Comitato delle industrie di guerra, appena fatti uscire dal carcere, si incontrarono al Palazzo di Tauride con rappresentanti attivi del movimento sindacale e delle cooperative appartenenti anch’essi all’ala destra, come pure con i parlamentari menscevichi Cheidze e Skobelev, e costituirono seduta stante un Comitato esecutivo provvisorio del soviet dei deputati operai, comitato completato nel corso della giornata da vecchi rivoluzionari che avevano perduto il contatto con le masse, ma conservato un certo “nome”. Il Comitato esecutivo, che aveva incluso anche alcuni bolscevichi, invitò immediatamente gli operaia eleggere i loro deputati».(6) La prima seduta del Soviet di Pietrogrado ebbe luogo quella sera stessa: ratificò la composizione dell’Esecutivo, cominciò a creare delle commissioni per l’ordinaria amministrazione del potere, la prima e più importante è quella per i rifornimenti alimentari, inviò distaccamenti rivoluzionari a occupare istituzioni strategiche come la Banca dell’Impero, la Zecca, la Tesoreria ecc., e, cosa estremamente importante per lo sviluppo successivo della Rivoluzione russa, venne deciso che i soldati della guarnigione avrebbero eletto i loro rappresentanti allo stesso soviet degli operai, che divenne quindi il Soviet dei delegati operai e dei soldati. Non si sa esattamente da chi fosse stata avanzata questa proposta, ma Sljapnikov segnala che, significativamente, i socialpatrioti vi si erano opposti. Ma da subito il Soviet cominciò ad operare come nuovo potere rivoluzionario, nonostante i «socialisti» che erano alla sua testa non sapessero che fare e speravano che la borghesia prendesse il potere.
Nel frattempo, i membri della disciolta Duma avevano deciso di rimanere a Pietroburgo e di riunirsi in forma privata, dando vita al cosiddetto «Comitato provvisorio dei membri della Duma», al fine di monitorare la situazione. Iniziarono subito le trattative, anche se forse sarebbe meglio dire le suppliche, tra l’Esecutivo del Soviet e il Comitato della Duma perché quest’ultima prendesse il potere, cosa che si decise effettivamente a fare nella tarda serata del 27 febbraio, quando ormai era chiaro che non vi era nessuna possibilità per lo zarismo di riuscire a recuperare il controllo di Pietrogrado a breve. Ma con quale spirito e per quale fine prendono il potere? Secondo Rodzjanko se la Duma si fosse rifiutata di prendere il potere «sarebbe stata arrestata e completamente massacrata dalle truppe ammutinate e il potere sarebbe caduto nelle mani dei bolscevichi».(7) Prendevano dunque il potere per cercare di ripristinare l’ordine a Pietrogrado, se possibile quello monarchico: ai dubbi dello stesso Rodzjanko, che si chiedeva se il loro gesto non potesse essere interpretato come una rivolta contro lo zar, il monarchico Sulghin rispondeva: «Non c’è nessuna rivolta. Prendete il potere come suddito fedele… Se i ministri si sono messi in salvo, qualcuno deve pur sostituirli… Ci possono essere due vie d’uscita: o tutto si arrangerà, il sovrano designerà un nuovo governo e noi gli rimetteremo il potere. Se ciò non riesce, se non lo raccogliamo, il potere cadrà nelle mani di gente già eletta da una certa canaglia, nelle fabbriche…».(8) La Duma prese il «potere», che i dirigenti conciliatori del Soviet gli offriva, in nome della rivoluzione, ma col fine di sabotare il nuovo potere rivoluzionario, quello reale, quello nelle strade e nelle fabbriche, compito che sarebbe stato impossibile senza la complicità attiva dei socialtraditori: sapevano bene infatti che, disgregatasi la disciplina dell’esercito verso l’autocrazia zarista e con le masse armate, avrebbero dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Un professore liberale, Stankevic, prova a descrivere lo stato d’animo con cui i membri della Duma «presero» il potere dalle manie del Soviet: «Ufficialmente, erano vittoriosi, celebravano la rivoluzione, lanciavano degli evviva in onore dei combattenti della libertà, si adornavano di nastri rossi, marciavano con le bandiere rosse… Ma, nel fondo dell’animo e a quattr’occhi, si mostravano spaventati, fremevano e si sentivano prigionieri di elementi ostili che sia avviavano su strade ignote. Indimenticabile la figura di Rodzjanko, grosso proprietario dall’andatura pesante, gran personaggio, che attraversava la folla dei soldati malvestiti nei corridoi del palazzo di Tauride, guardando con altera dignità, ma anche con un’espressione di profonda sofferenza e disperazione nel volto impallidito. Ufficialmente, si era detto che “i soldati erano venuti a sostenere la Duma nella sua lotta contro il governo”, ma di fatto la Duma si trovò sciolta sin dai primi giorni. E si trovava la stessa espressione su tutti i visi, tra i membri del Comitato provvisorio della Duma e negli ambienti che li circondavano. A quanto si dice, certi rappresentanti del blocco progressista, una volta tornati a casa, avevano versato lacrime in crisi di isterismo provocate dalla disperazione e dall’impotenza».(9)
Lo zarismo tentò disperatamente di non crollare: il 2 marzo Nicola II abdicò in favore di suo fratello Michele, che però il giorno dopo rinunciava al trono, rimettendo all’Assemblea costituente la decisione riguardo al futura forma di governo della Russia. Nel frattempo, tra il 28 febbraio e il 2 marzo terminarono le trattative tra il Comitato esecutivo del Soviet e il Comitato provvisorio della Duma riguardo alla composizione del governo, caduta la pregiudiziale che Miljukov, capo del partito dei cadetti, aveva posto sulla forma monarchica del regime: nacque così il primo governo provvisorio, con a capo il principe Lvov, composto quasi interamente da borghesi, con l’unica eccezione del «socialista» Kerensky al ministero della Giustizia; Cheidze infatti aveva risolutamente rifiutato il ministero del Lavoro. La formazione del governo, i cui veri ispiratori erano l’ottobrista Guckov al ministero della Guerra e Miljukov agli Esteri, concludeva la Rivoluzione di febbraio, apriva il periodo del dualismo di poteri e fu la premessa della lotta dei bolscevichi e dell’avanguardia proletaria russa per la presa effettiva del potere da parte delle masse nell’Ottobre.

Il mito dello «spontaneismo» del Febbraio
La principale mitologia sulla Rivoluzione di febbraio, mito cui spesso non fuggono nemmeno alcuni sedicenti marxisti, è quella dell’origine spontanea della rivolta delle masse di Pietrogrado nel febbraio del 1917. Questo tipo di spiegazione del «meccanismo» che ha fatto scattare la molla della rivoluzione è molto cara e comoda a tutti i nemici dell’Ottobre e del bolscevismo: dai liberali democratici ai socialisti riformisti, fino ai centristi che a parole si dicono bolscevichi, ma che nei fatti rinunciano alla costruzione di un vero partito operaio di avanguardia di tipo bolscevico. Addirittura i monarchici reazionari, che spiegano la caduta dei Romanov con una congiura di palazzo, indirettamente danno una spiegazione spontaneista della Rivoluzione di febbraio: l’azione indipendente delle masse sarebbe infatti stata causata dai «disordini» ai piani alti del potere zarista, e non da un’azione cosciente degli elementi rivoluzionari, imputando così al liberalismo la colpa della distruzione dell’Impero russo. È assolutamente importante avere chiaro che cosa fu veramente quella rivoluzione, perché situazioni simili precedono l’apertura di quasi tutte le situazioni rivoluzionarie propriamente dette, e comprenderne le implicazioni è indispensabile per sfruttare al meglio le possibilità offerte ai rivoluzionari, sapendo che una situazione rivoluzionaria, e tantomeno una crisi rivoluzionaria, non può durare in eterno.
Furono determinanti i contrasti nella corte, e tra la corte e la borghesia, per lo scoppio della Rivoluzione di Febbraio? La verità è che non vi era nessun piano prestabilito per sostituire lo zar: «Non c’è niente che lo provi. Era troppo esteso questo “complotto”, comprendeva circoli troppo numerosi e troppo eterogenei per essere veramente una cospirazione. Si librava nell’aria come stato d’animo nelle alte sfere della società pietroburghese, come una confusa idea di salvezza oppure come una formula disperata. Ma non si concretizzò fino a diventare un piano effettivo».(10) Questo «stato d’animo» esisteva, era certamente alimentato dagli ambasciatori inglese e francese, scontenti della condotta di guerra di Nicola II e che forse temevano potesse accordarsi con il kaiser per una pace separata, ma non era questo una della cause degli eventi, bensì ne era un effetto: «La rivoluzione scoppia quando tutti gli antagonismi sociali hanno raggiunto la tensione estrema. Ma appunto per questo la situazione diventa insopportabile anche per le classi della vecchia società, cioè per le classi condannate a scomparire. Senza attribuire alle analogie biologiche un significato maggiore di quanto non convenga, è pertinente ricordare che il parto, a una certa data, diventa altrettanto inevitabile per l’organismo materno che per il suo frutto. L’opposizione delle classi privilegiate prova che la loro condizione sociale tradizionale è incompatibile con le esigenze di sopravvivenza della società. La burocrazia dirigente comincia a lasciarsi sfuggire tutto di mano. L’aristocrazia, sentendosi direttamente oggetto della generale ostilità, rigetta la colpa sulla burocrazia. Quest’ultima accusa l’aristocrazia e quindi queste due caste, insieme o separatamente, rivolgono il loro malcontento contro la monarchia, coronamento del loro potere. […] Secondo la nobiltà l’origine dei suoi mali risiede nel fatto che la monarchia è divenuta cieca o ha perduto la ragione. La casta privilegiata non vuol credere che non ci sia una politica in grado di riconciliare la vecchia società con la nuova; in altri termini, la nobiltà non si rassegna ad accettare la propria condanna e, nelle convulsioni dell’agonia, passa all’opposizione contro quello che vi è di più chiaro e di più sacro nell’ancien régime, contro la monarchia. La violenza e la irresponsabilità dell’opposizione aristocratica si spiegano con i privilegi di cui godettero storicamente le alte sfere della nobiltà e con il timore insopportabile di fronte alla rivoluzione. La mancanza di sistematicità e le contraddizioni della fronda aristocratica si spiegano in quanto si tratta dell’opposizione di una classe senza vie d’uscita. Ma, come una lampada, prima di spegnersi, proietta una fiammata vivida, anche se fumosa, la nobiltà, prima della sua estinzione, provoca il lampeggio di un’opposizione che rende i più grandi servigi ai suoi mortali nemici. Questa è la dialettica del processo che non solo si accorda con la teoria classista, ma anzi solo sulla base di questa teoria può essere spiegata».(11)
Il fallimento del regime autocratico russo nel 1917, durante la guerra imperialista, fornisce la cornice oggettiva entro cui si sviluppa la Rivoluzione di febbraio: i socialisti riformisti fanno discendere «automaticamente» la rivolta «nazionale» e «democratica» delle masse russe, raccolta dal liberalismo russo nella creazione di uno Stato democratico con il solo scopo di contrapporla alla rivoluzione compiuta da una «minoranza» nell’Ottobre. I centristi, nella misura in cui non contestano questa interpretazione spontaneista del Febbraio, si riducono a una semplice difesa «d’ufficio» della Rivoluzione d’ottobre, che però non ne difende le basi reali, cioè la funzione imprescindibile del partito rivoluzionario d’avanguardia, non solo per la presa del potere, ma anche per predisposizione delle masse ad agire in modo indipendente dalla borghesia: non si può posporre la creazione di un partito rivoluzionario indipendente a quando la situazione diventi rivoluzionaria, in parte perché, come scrive Trotsky nell’articolo Classe, partito, direzione, «durante una rivoluzione, cioè quando gli eventi mutano con rapidità, un partito debole può rapidamente diventare forte, purché capisca chiaramente il corso della rivoluzione e possieda dei quadri solidi che non si ubriacano di frasi e non si lasciano spaventare dalla repressione. Ma tale partito deve esistere prima della rivoluzione, perché il processo di educazione dei quadri richiede un periodo di tempo considerevole, e la rivoluzione non concede tale periodo», ma soprattutto perché l’azione del partito rivoluzionario è fondamentale nell’evoluzione degli avvenimenti sociali verso una situazione rivoluzionaria. Nel 1915, nel testo Il fallimento della Seconda Internazionale, Lenin indica le tre condizioni per cui si possa parlare di situazione rivoluzionaria, di cui la terza è particolarmente significativa riguardo lo spontaneismo del Febbraio e il ruolo del partito rivoluzionario: «3) in forza delle cause suddette, [impossibilità delle classi dominanti di governare come prima e aggravamento della miseria delle masse, NdA] un rilevante aumento dell’attività delle masse, le quali, in un periodo “pacifico” si lasciano depredare tranquillamente, ma in tempi burrascosi sono spinte, sia da tutto l’insieme della crisi, che dagli stessi “strati superiori”, ad un’azione storica indipendente».(12)  A chiunque conosca un minimo il pensiero di Lenin è chiaro che un’azione delle masse indipendente dalla borghesia è possibile solo nella misura in cui il partito rivoluzionario ha elevato la sua coscienza di classe, perché altrimenti la coscienza dominante rimane la coscienza della classe dominante.
Ecco come Trotsky giudica la teoria spontaneista riguardo la Rivoluzione di febbraio: «Resta però un grosso punto interrogativo: chi ha dunque guidato l’insurrezione? Chi ha mobilitato gli operai? Chi ha portato i soldati nelle piazze? Dopo la vittoria queste domande divennero un motivo di lotta tra i partiti. La soluzione più semplice consisteva in questa formula universale: nessuno ha guidato la rivoluzione, la rivoluzione si è fatta da sé. La teoria delle “forze spontanee” conveniva più di qualsiasi altra non solo a tutti quei signori che, ancora alla vigilia, avevano tranquillamente amministrato, giudicato, accusato, difeso, commerciato o comandato e che ora si affrettavano ad associarsi alla rivoluzione, ma anche a molti politici di professione e a ex-rivoluzionari che, avendo dormito durante la rivoluzione, desideravano credere che in tutta la faccenda essi non si erano comportati diversamente dagli altri. […] la rivoluzione, che nessuno in quei giorni si aspettava, si era estesa e, mentre nelle sfere superiori già si credeva all’estinguersi del movimento, il movimento di assicurava la vittoria con una violenta spinta e con potenti convulsioni. Da dove provenivano questa tenacia e questa aggressività senza precedenti? Non basta richiamarsi all’esasperazione. L’esasperazione spiega molto poco. Gli elementi operai di Pietrogrado, per quanto fossero stati diluiti nel corso della guerra in seguito all’immissione di elementi non dirozzati, recavano in sé una grande esperienza rivoluzionaria. Nella loro tenacia e nella loro aggressività, malgrado l’assenza di direzione e le resistenze dall’alto, c’erano una valutazione delle forze, non sempre espressa, ma basata sull’esperienza della vita e un calcolo strategico spontaneo. […] La mistica delle “forze spontanee” non chiarisce nulla. Per valutare correttamente la situazione e determinare il momento della sollevazione contro il nemico, era indispensabile che la massa, tramite i suoi elementi dirigenti, facesse una propria analisi degli avvenimenti storici e avesse i propri criteri per valutare questi avvenimenti. […] In ogni fabbrica, in ogni corporazione, in ogni compagnia militare, in ogni osteria, negli ospedali militari, in ogni accantonamento e anche nelle campagne popolate si sviluppava un lavoro molecolare del pensiero rivoluzionario. Dovunque esistevano commentatori degli eventi, specialmente operai, presso i quali ci si informava e dai quali si attendeva la parola necessaria. Questi dirigenti erano spesso abbandonati a sé stessi, si nutrivano di frammenti di generalizzazioni rivoluzionarie giunti a loro per diverse vie, scoprendo da sé, nei giornali liberali, leggendo tra le righe ciò di cui avevano bisogno. Il loro istinto di classe era acuito dal criterio politico e, se non sviluppavano sino in fondo tutte le loro idee, il loro pensiero lavorava egualmente senza tregua, ostinatamente, sempre nella stessa direzione. Elementi di esperienza, di critica, di iniziativa, di abnegazione penetravano tra le masse e costituivano il meccanismo profondo, che sfuggiva a uno sguardo superficiale, ma era comunque decisivo, del movimento rivoluzionario come processo cosciente. […] Alla domanda che abbiamo posto: “chi ha dunque guidato la Rivoluzione di febbraio?” possiamo quindi rispondere con la chiarezza necessaria: operai coscienti e ben temprati che erano stati formati soprattutto alla scuola del partito di Lenin. Ma dobbiamo aggiungere che questa direzione, se era sufficiente ad assicurare la vittoria dell’insurrezione, non era in grado di affidare sin dall’inizio all’avanguardia proletaria la funzione dirigente della rivoluzione».(13)

Il paradosso del Febbraio, ovvero che cosa è stata la Rivoluzione di febbraio?
Crediamo non ci sia assolutamente nulla da aggiungere alla chiarissima spiegazione di Trotsky su quale fu il vero motore della Rivoluzione di febbraio. Non ci resta quindi che affrontare, brevemente, un altro tema, non certo secondario, ma che speriamo risulti già sufficientemente argomentato da quanto abbiamo già sostenuto precedentemente, cioè il carattere della Rivoluzione. C’è chi considera il Febbraio una rivoluzione borghese, qualcuno addirittura la considera la realizzazione della dittatura democratica del proletariato e dei contadini, formula che Lenin aveva coniato dopo la Rivoluzione del 1905, successivamente abbandonata e attivamente combattuta nelle famose Tesi di aprile. Nel libro La rivoluzione permanente, Trotsky spiega polemicamente a Radek perché associare la formula leniniana alla Rivoluzione di febbraio era completamente senza senso, dato che i «compiti democratici» della rivoluzione, principalmente la riforma agraria, erano stati compiuti dalla dittatura del proletariato dopo la Rivoluzione d’ottobre; non crediamo sia necessario soffermarvisi, ma consigliamo a tutti la lettura o rilettura di quel libro. Ma fu una rivoluzione borghese? Ne Le lezioni dell’Ottobre, Trotsky scrive «La Rivoluzione di febbraio (1917), se considerata a sé, era una rivoluzione borghese» (corsivo nostro). Quel «se considerata a sé» è un inciso fondamentale, che indica un ragionamento che fa astrazione dal contesto storico e dallo svolgersi degli eventi, un punto polemico di Trotsky in un opuscolo diretto contro i «vecchi bolscevichi», cioè gli epigoni del leninismo, che consideravano realmente la Rivoluzione di febbraio come rivoluzione borghese e la contrapponevano allo sviluppo della rivoluzione proletaria, e infatti egli aggiunge subito dopo: «Ma come rivoluzione borghese essa venne troppo tardi e non poteva avere intima consistenza. Divisa da contraddizioni interne, che poi si espressero subito nel dualismo del potere, essa doveva o trasformarsi nell’avvio alla rivoluzione proletaria – come avvenne – oppure, sotto un qualche regime borghese-oligarchico, respingere la Russia in una condizione semi-coloniale».(14) Astraendo dai processi che la avevano determinata, senza guardare alle possibilità future che aveva aperto (che sappiamo poi essersi verificate), guardando solamente ai suoi «risultati immediati» come se fossero un’operazione matematica definita e non un’equazione con le incognite del vivo processo storico, allora la Rivoluzione di febbraio è stata una rivoluzione borghese: ha dato infatti vita a un governo borghese. Ovviamente questo modo di ragionare non ha nulla in comune con il marxismo. Come ci ha detto magistralmente Trotsky nel brano della Storia della Rivoluzione russa riportato poco sopra, non fu la borghesia il motore della rivoluzione, ma la classe operaia di Pietrogrado: il paradosso per cui la borghesia scippò la vittoria al proletariato è dovuto alla debolezza del partito rivoluzionario in quel momento e al tradimento dei socialisti piccolo-borghesi, non ad un carattere borghese della rivoluzione, né a una predisposizione benevola delle masse verso la borghesia. Sia detto di passata, dovrebbero ricordarsi di questa lezione tutti coloro che hanno, ad esempio, giudicato le recenti «Primavere arabe» molto severamente, non riconoscendo loro nemmeno il carattere di rivoluzioni, solamente per il fatto che la borghesia è riuscita a riprendere il controllo dei vari Paesi.
Esiste un solo modo marxista di analizzare la Rivoluzione di febbraio, e cioè vederla come parte di un processo iniziato dalla classe operaia, fecondata dalle idee rivoluzionarie, per farla finita con la vecchia società e lo sfruttamento, anche se, privata inizialmente della guida del partito, questa non aveva ancora chiaro dove e come trovare la soluzione dei problemi posti, e non risolti, dal Febbraio. E proprio qui sta l’importanza del partito rivoluzionario e di dirigenti, come Lenin e Trotsky, che siano in grado di vedere le potenzialità di un movimento, di una situazione rivoluzionaria, al di là delle difficoltà e delle debolezze momentanee. È questa la fondamentale lezione della Rivoluzione di febbraio per i rivoluzionari: prepararsi da subito ad essere lo strumento per infondere coscienza e coraggio alle masse proletarie, per far loro analizzare la situazione e i rapporti di forza, e sfruttare ogni occasione favorevole così determinatasi per dirigere la loro volontà verso la presa del potere e l’instaurazione della loro dittatura rivoluzionaria di classe. Solo questa può essere la soluzione dei presenti problemi di tutti gli sfruttati e di tutti gli oppressi del mondo nell’epoca dell’imperialismo decadente.

Note

1) Trotsky, Storia della Rivoluzione russa, Oscar Mondandori, p. 122.
2) Trotsky, op. cit., p. 123.
3) Trotsky, op. cit., p. 136.
4) Trotsky, op. cit., p. 141.
5) Trotsky, op. cit., p. 148.
6) Trotsky, op. cit., p. 182.
7) Trotsky, op. cit., p. 185.
8) Trotsky, op. cit., p. 185.
9) Trotsky, op. cit., pp. 187-188.
10) Trotsky, op. cit., p. 90.
11) Trotsky, op. cit., pp. 96-97.
12) Lenin, Il fallimento della Seconda Internazionale, in Lenin, Il socialismo e la guerra, Ed. Lotta comunista, p. 46.
13) Trotsky, op. cit., pp. 165-176.
14) Trotsky, Le lezioni dell’Ottobre, in Procacci (a cura di), La “rivoluzione permanente” e il socialismo in un Paese solo, Editori riuniti, p. 40.