“Noo… I’m marxist”,
rispose un tizio che suonava il piano, nella sua prima apparizione italiana al festival jazz di Bologna, a chi gli domandava se appartenesse al Black
Panther Party o ai Black Muslims. Era il 1968 e quel rutilante pianista era
Cecil Taylor. Ma perché i giornalisti erano così interessati alle opinioni
politiche di un jazzista, forse ancora di più che alla sua musica? Perché si
era nel 1968, un periodo - il cui cinquantennale viene ricordato in questi mesi con
diverse iniziative - nel quale tutto era politica, e perché stiamo parlando
di Cecil Taylor, una delle icone più significative del panorama free insieme ad
Ornette Coleman ed Archie Shepp. Ma soprattutto uno dei musicisti più politicizzati
dell’intero panorama jazzistico mondiale .
Ironia della sorte a cinquant’anni dal
suo esordio in Italia, proprio nel 1968,
il pianista newyorkese è venuto a
mancare. E’ morto giovedì scorso all’età di 89 anni nella sua casa di New York.
Era figlio di un domestico nero occupato
come cameriere in una ricca casa di Long Island, il nonno era
pellerossa, così come di origine americano-indiana erano la nonna e la mamma
che gli trasmise la passione per le arti in genere e in particolare per la
musica. Il sangue misto, africano/pellerossa, lo ha di fatto predestinato ad
esprimere, artisticamente e politicamente, il disagio e la rabbia della gente
discriminata e vessata non solo per ragioni razziali, ma anche per differenza
di censo. Un marxista a tutto tondo
inserito nella difficile questione dei diritti civili.
Ma la particolarità e la
genialità di Taylor nasce innanzitutto dalla sua singolare evoluzione musicale.
Da un lato ci sono gli studi classici, iniziati privatamente con un professore
dell’orchestra sinfonica dell’Nbc, poi proseguiti al New England Conservatory,
c’è l’amore per Bartok e Stravinsky. Dall’altro irrompe la fascinazione per le
percussioni ed in particolare per i batteristi Gene Krupa e Chuck Webb. Lo
stile pianistico che ne deriva è percussivo,incalzante , il pianoforte pare un
grosso tamburo parlante, ma al contempo propone delle concezioni armoniche
raffinate scaturite dalla profonda conoscenza di Schonberg e Milhaud. Uno stile, determinato dal
pianismo europeo moderno e dal beat di grandi batteristi, inserito nella voglia
di sperimentare tipica del free jazz, rendono il linguaggio di Taylor veramente
unico.
Nel 1958 è già nel quartetto di
Steve Lacy a suonare musica sperimentale,
due anni più tardi, nel 1960, collabora col suo amico, marxista anche lui,
Archie Shepp e John Coltrane. Ma l’evoluzione
di Taylor è senza soste. Sia che suoni in gruppo, da solo, in duo con Max Roach, in trio, ad esempio
con Jimmy Lyon e Sunny Murray, l’originalità del suo “Tamburo Parlante” tracima
in modo irrefrenabile, fino a conquistare l’Europa e l’Italia la cui frequentazione, come abbiamo
visto, comincia nel fatidico 1968 ma prosegue con gli album registrati per la
Soul Note e la collaborazione con l’Italian
Instabile Orchestra attraverso l’incisione
“The
Owner of a River Bank “.
Come è
noto, il free jazz, non ebbe la capacità di diffondere appieno il proprio messaggio rivoluzionario in
America. Da un lato osteggiato dal mercato, dall’altro giudicato forse troppo intellettuale,
a volte incomprensibile, per i neri del ghetto,
per cui Taylor, come altri protagonisti del free, nonostante avesse suonato ed inciso con i più
grandi jazzisti americani, ebbe il suo
maggior successo in Europa.
La voglia di
cambiare, di sperimentare, di rivoluzionare lo portò ad interessarsi, oltre alla musica, di danza, di recitazione, di tutto ciò che è
arte, ma lo spinse anche ad occuparsi di
politica, travalicando la dimensione insita nella lotta dei diritti civili per
la sua gente, per collocarsi in un
area molto più vasta. Una visione che lo
convinse della necessità di rovesciare una società globale piena di storture secolari.
Nella stessa intervista
di Bologna, sopra richiamata,
commentando una manifestazione organizzata dai Francesi contro la guerra in
Vietnam Taylor disse: “Ma come fanno i
francesi a giustificare le loro manifestazioni contro la guerra in Vietnam,
tenendo conto del loro atteggiamento , della loro condotta in Algeria, e quando
essi sono fra i maggiori fornitori di armi al governo razzista dell’Africa del
Sud?”.
Tutto sommato però, pur
impegnato ad estendere la lotta degli oppressi neri, a tutti gli oppressi del mondo vittime
dell’imperialismo e del capitalismo , pur possedendo una visione marxista della
società, pur avendo assimilato il linguaggio della musica colta europea, l’origine
dalla sua lotta proveniva dal ghetto. in un’intervista
rilasciata nel 1966 disse:” Io ho imparato di più nel ghetto che al
conservatorio , nella società americana io sono un uomo “invisibile” così come
invisibile era Ellington ai tempi di
Gershwin” Una dichiarazione
inequivocabile sulla ragione per cui aveva cominciato a battersi per una
società più giusta.
Un impegno e una lotta portata avanti con le armi della
cultura, della musica. Ciao dannato vecchio marxista, ci mancherai.
good vibrations
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