«Preferirei non cantare se devo cantare piano». Un destino ostile, avverso e queste parole, di Janis Joplin, profetiche, quasi una sfida alla sua stessa vita, forse, un gioco. La vita di una delle più grandi icone del rock blues di tutti i tempi, personaggio eversivo e ribelle, non sarebbe stata la stessa senza quella voce rauca e rabbiosa.
Janis Joplin – che ieri, 19 gennaio, avrebbe compiuto 75 anni – era la sua voce, che era la sua fede, la sua politica, il suo essere nel mondo. E come sarebbe stato questo mondo senza Janis Joplin? Suona quasi come una domanda scomoda, come una grigia profezia. Il mondo non sarebbe stato lo stesso senza di lei. Non solo perché è stata una delle più importanti cantanti di tutti i tempi, una delle poche donne di successo in un mondo maschile, fatto di droga, chitarre e groupies, ma perché, attraverso quella voce unica, fragile, imperfetta Janis era, a suo modo, il manifesto vivente della liberazione e della ribellione attraverso la musica.
Quando le chiedevano perché cantasse, rispondeva: «Amo la musica, perché si crea dalle emozioni e crea emozioni, perché entro in contatto con l’immaginazione e con la sua verità». La regina del blues bianco, che amava Bessie Smith, Ma Rainey, Otis Redding, Big Mama Thornton, è diventata una donna prima di rendersene conto e le sue corde vocali lo hanno fatto ancor prima di lei. La dose di dolore che la vita le ha imposto ha graffiato ripetutamente la sua anima, giorno e notte, fino a farla gridare forte, così forte tanto da sembrare, ogni volta, l’urlo di una rinascita.
TROPPO PRESTO
Janis Joplin è morta troppo giovane, a soli 27 anni. Il referto medico parlava di una morte accidentale da overdose d’eroina. È stata trovata esanime nella stanza n. 105 del Landmark Hotel di Hollywood, il 4 ottobre 1970. Così, un attimo dopo è entrata di fatto nel famoso e maledetto «club dei 27», nella «maledizione del J27». Il cerchio dannato dove la morte arriva sempre prima, beffarda. Sarebbe rassicurante pensare che la morte l’abbia colta piano, quel silenzio di cui lei parlava: l’assenza della voce, la fine.
Pochi mesi prima di lei, moriva Jimi Hendrix, un anno dopo Jim Morrison, e dopo ancora Kurt Cobain, infine Amy Winehouse. Un circolo di anime fragili e potenti che avevano incaricato la musica di sostenerle e proteggerle. Alla fine, anche la musica ha ceduto al loro peso. Personalità insolitamente grandi, inquiete, devastanti. Più di una volta il volto di Janis Joplin aveva attirato l’attenzione di molti per la sua mollezza, per i suoi lineamenti delicati, così diversi e distanti da quella sua rudezza intima, dalla sua capacità di trasformarsi ogni volta che saliva su un palco, rincorrendo con ostinazione la bellezza dell’improvvisazione, dell’imperfezione.
A Port Arthur in Texas, dove era nata il 19 gennaio 1943, era costretta a comportarsi come un maschiaccio, non volendosi omologare a un sistema predefinito e ribellandosi alle rigide costrizioni della società Usa.
«Come molti ribelli del suo tempo Janis Joplin rifuggiva dalle rigide categorie identitarie: nel suo mondo il colore della pelle e a volte la sessualità venivano disdegnate come fossero camicie di forza», scrive Alice Echols nel suo libro Scars of Sweet Paradise: The Life and Times of Janis Joplin. Nella sua libertà c’era un piacere selvaggio, primitivo, lontano dalla comprensione di tutti. Talvolta, però, affiorava un profondo e inconscio bisogno di essere accettata, che quasi andava oltre i suoi contrasti.
HAIGHT-ASHBURY
Janis aveva iniziato la sua carriera suonando nei club, mentre frequentava l’università del Texas a Austin e dopo esser stata votata dai ragazzi dell’università «l’uomo più brutto del campus», aveva deciso di partire alla volta di San Francisco.
Lì nell’enclave hippy di Haight-Ashbury aveva cominciato a frequentare i Grateful Dead e i Jefferson Airplane, subito dopo i Big Brother and the Holding Company. L’estate del ’67, con la band, si era esibita due volte al primo Monterey Festival, ottenendo il contratto discografico per il primo album. L’autunno seguente era arrivato Cheap Thrills e era andato dritto al numero 1 nelle classifiche Usa. Strano però che la morte avesse scelto quell’anno, il 1970 e non un anno prima, nel ’69, quando il suo gruppo storico, i Big Brother and the Holding Company si era sciolto. Con loro era stata la Janis di Bye, bye, baby, Ball and Chain, di Down on me, Summertime, Peace of My Heart: la voce nera nel corpo di una donna bianca.
C’era qualcosa di immorale, di brutale e di inarrestabile nella sua profonda espressività, resistente al tempo, immortale. «Quando canto è come se mi innamorassi per la prima volta, è un’esperienza emozionale e fisica suprema», dichiarava Janis. Il suo ero un atto d’amore incondizionato. Prima della rottura con la sua band il disco Cheap Thrills aveva smesso di vendere. Nonostante l’album avesse dominato le classifiche nel ’68 e le avesse permesso di essere definita dal Time, «la cantante più potente dell’emergente movimento rock bianco», Janis non riusciva a rialzarsi. Nemmeno i due nuovi gruppi che aveva arrangiato, i Joplinaires e la Kozmic Blues Band (con questi ultimi era apparsa a Woodstock), erano riusciti a sopravvivere. La sua passione demoniaca per la musica, la sua dipendenza dalle droghe, nell’America di Nixon della fine degli anni ’60, della controcultura e degli hippy, l’avevano completamente travolta. La sua alienazione era estraniamento personale, ma restava comunque un’esperienza di un’intera generazione.
Si diceva avesse perso il fuoco psichedelico dell’inizio, che era diventata la brutta copia del soul e di quel blues al quale tanto era legata. Al tempo stesso, la texana dalla pelle bianca, era sempre più preoccupata che i giornalisti si occupassero più della sua dissoluta vita privata che della sua musica. Così nella primavera del ’70 era riuscita a creare un nuovo gruppo, la Full Tilt Boogie Band, con la chitarra di John Till e le tastiere di Richard Bell, rinnovando il suo repertorio, i brani, il suono, e facendosi chiamare «perla».
FESTIVAL EXPRESS
Si era allontanata dall’eroina, ma purtroppo la sua reputazione sembrava arrivare sempre prima di lei. Nell’estate del ’70 ricominciò a sentirsi parte del suo mondo. Si esibì in una serie di festival in giro per il Canada con i Grateful Dead, The Band, Sha-Na-Na e altri, viaggiando su un treno che divenne il Festival Express.
A settembre era entrata ai Columbia Studios di Hollywood, pronta a registrare il nuovo disco. Era riuscita di nuovo a stregare tutti. «Era tornata la musa inquietante di due anni prima, la strega capace di incantare il pubblico del Fillmore, dell’Avalon, di Monterey, con le sue Ball and Chain e Summertime, la sacerdotessa di un rock estremo senza alcuna distinzione tra fantasia scenica e realtà», scrive Riccardo Bertoncelli nella sua Storia leggendaria della musica rock. Mancava poco a quel disco, che si sarebbe chiamato come quella fulminea rinascita, Pearl. Quel lunedì avrebbe dovuto registrare le parti vocali di un brano di cui esistevano già le basi, dal titolo Buried Alive in the Blues, Sepolta viva nel blues. Pearl uscì il 1 febbraio 1971 e vendette milioni di copie, perché era davvero una perla di rara bellezza. Rimase per 9 settimane in testa alle classifiche Usa e Buried Alive in the Blues restò l’ultimo brano del disco, solo strumentale, senza la sua voce, ma lasciava una traccia. Per sempre.
fonte alias 20/01/2018