domenica 7 aprile 2019

E' possibile un'altra Europa senza il rifiuto dei trattati?



Quando il coordinamento nazionale di Potere al Popolo, su mandato degli iscritti, avviò consultazioni con altre forze  per costruire una  coalizione in vista della  partecipazione alle elezioni europee, il pregiudizio  principale ed insuperabile per un accordo fu  la possibilità di avviare un processo di democratizzazione e uguaglianza sociale   della Ue puntando solo alla modifica dei trattati, senza prevederne l’abolizione. La posizione di Potere al Popolo fu chiara fin dall’inizio: non è pensabile alcuna evoluzione in tema di diritti se non al di fuori degli attuali trattati, i quali, scritti per creare e regolare un grande mercato sovranazionale, non ammettono alcuna opzione sociale. L’esito delle consultazioni come è noto fallì. Ci tacciarono di essere sovranisti di sinistra e antieuropeisti, per cui non si raggiunse alcun accordo. Personalmente, e credo che la mia posizione possa essere condivisa da molti altri compagni, sono più che europeista.  Sono internazionalista prefigurando una comunità  internazionale in cui ad essere globalizzati  siano i diritti umani, sociali e civili,  il cui controllo sia a  carico della collettività attraverso processi di partecipazione  attiva e organizzata. Dunque né sovranisti, né di sinistra - se per sinistra s’intende la galassia dei partiti riformisti europei  strenui difensori  di questa Ue, e di tutte le politiche di austerity che la contraddistinguono, oppure i vari satelliti più o meno radicalmente distinti che, proprio per non escludere un aggancio alla galassia riformista,  non osano prendere una decisa posizione contro i trattati - . La tesi secondo la quale un’altra organizzazione sociale non è   possibile se non si rifiutano totalmente i trattati e l’attuale conformazione  politica della Ue, è supportata anche da autorevoli studiosi come Claudio De Fiores (Professore Ordinario di Diritto Costituzionale componente del collegio del dottorato in “Internazionalizzazione dei sistemi giuridici e diritti fondamentali) e Franco Russo (ex parlamentare, esperto di problemi istituzionali alla luce dei trattati comunitari, esponente di Eurostop). Riporto di seguito il loro contributo. Spero possa essere utile a creare  consapevolezza sulla reale natura della “questione” europea. Spero cioè si capisca  come la Ue non sia altro che un coacervo di trattati concepiti  esclusivamente per salvaguardare i diritti dei grandi potentati finanziari e che tutto ciò non c’entra nulla  con l’Europa che prefigurava Spinelli.

Luciano Granieri Potere al Popolo Frosinone

 Il Contributo di
Claudio De Fiores e Franco Russo




Un’Assemblea costituente per una democrazia costituzionale europea

E’possibile riformare i Trattati e avviare un processo di democratizzazione delle istituzioni dell’UE, per giungere a una vera democrazia parlamentare,  nel quadro della normativa UE vigente? Il  processo dovrebbe avvenire nel quadro dell’articolo 48 del TUE, che disciplina i processi di revisione dei Trattati. Senza qui stare a esaminare la procedura ordinaria e semplificata, basta richiamare che in ogni caso sono gli Stati membri che devono approvare le modifiche, rimanendo essi i ‘signori dei Trattati’. Dunque progettare un percorso di democratizzazione, nell’ambito delle attuali istituzioni significa affidarlo agli Stati, che, per definizione, come dimostra la storia dell’integrazione europea, si riservano, e non vogliono perdere, il monopolio della decisione politica, concentrata nel Consiglio europeo, nella Commissione e nelle diverse formazioni del Consiglio, oltre che nella tecnocrazia che trova la sua massima espressione nella BCE. Il ‘potere legislativo’ è di competenza del Consiglio condivisa con il Parlamento europeo, a voler tacere che le materie della politica estera, finanziaria, monetaria sono di esclusivo appannaggio o del Consiglio europeo, o del Consiglio dell’UE (ECOFIN),  o della BCE. Giova ricordare che il Consiglio europeo e il Consiglio dell’UE, nelle sue formazioni, sono composte dai capi di governo e di Stato e da ministri. Nell’UE i governi hanno competenza legislativa ‒ ahi  povero Montesquieu, e addio all’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789!  ‒, deliberano le norme la cui esecuzione è affidata alla Commissione, nominata anch’essa dai governi (con l’assenso del PE). Questi sono fatti noti, che vengono richiamati per porre alcune questioni di fondo, a cui il documento dell’esecutivo sfugge: è possibile un processo di democratizzazione nell’ambito dei Trattati (TUE e TFUE)? È compatibile un processo di democratizzazione con le disposizioni dei Trattati? E a monte di tale questione se ne pone un’altra: è possibile una democrazia senza Costituzione? È immaginabile, cioè, una democrazia fondata sui Trattati, i cui ‘signori’ sono gli Stati, più precisamente i loro governi? Sono compatibili Trattati e Costituzione democratica? A nostro parere no, e di seguito proviamo ad argomentare la nostra posizione.

1. La costruzione europea è guidata dal metodo del funzionalismo con lo scopo di realizzare e ‘governare’ un mercato sovranazionale.
È sufficiente leggere gli scritti di Jean Monnet, o i vecchi quanto lucidi saggi di David Mitrany o direttamente le norme fondamentali dei Trattati come interpretate dalla Corte di Giustizia nelle sue più famose sentenze, per avere chiaro che il fine della costruzione europea è un mercato sovranazionale, da attuare attraverso ‘realizzazioni concrete’, come disse Schuman.
Fu Davide Mitrany a teorizzare l’evoluzione spontanea delle istituzioni comunitarie branch by branch, perché ogni funzione avrebbe generato le altre gradualmente, ed è la stessa idea di Monnet quando elaborò il piano della CECA, che avrebbe dovuto condurre alla federazione politica attraverso l’integrazione successiva dei diversi settori economici. Questo metodo funzionalistico, che implicava successive attribuzioni di competenze per realizzare obiettivi in campi delimitati, ha guidato la costruzione della Comunità europea, e poi dell’Unione economica e monetaria.
Fin dall’inizio fu presente la consapevolezza che questo progetto di unione economica, fondata sul mercato sovranazionale, avrebbe richiesto istituzioni diverse da quelle della democrazia rappresentativa. Fu sempre Mitrany a teorizzare la contrapposizione tra una voting democracy e una working democracy, sostenendo che l’autorità nell’epoca contemporanea si legittima attraverso i risultati che consegue; è questa un’output democracy in quanto dipendente dall’efficienza del funzionamento delle istituzioni, in primo luogo del mercato dove quotidianamente il consumatore ‘vota’ con i piedi scegliendo la merce che soddisfa a più basso prezzo la sua domanda. L’output democracy è una versione aggiornata del ‘dittatore benevolo’, del ‘despota illuminato’.
Le istituzioni comunitarie non hanno mai trovato il fondamento della loro legittimazione nella democrazia rappresentativa, bensì nell’efficienza di un mercato inizialmente parziale con la CECA nel 1951, comune con la CEE nel 1957, ed unico nel 1986  che è sfociato nell’Unione economica e monetaria avviata con il Trattato di Maastricht del 1992. Per realizzare questi fini sono stati attribuiti sempre nuovi poteri alle istituzioni comunitarie (ora UE), le cui norme godono del primato su quelle nazionali e dell’applicabilità diretta (per quanto riguarda i ‘regolamenti’ e le ‘decisioni’). Le quattro libertà di circolazione – beni, servizi, capitali, lavoratori – sono stati i principi-guida delle normative e delle politiche comunitarie, e il rispetto della concorrenza è stato sempre sancito in tutti i Trattati e affidato alla competenza esclusiva della Commissione.
Le vicende pluridecennali dell’unificazione europea hanno mostrato che non si è formata una società dotata di una Costituzione democratica, al contrario si è creata una società di mercato con una costituzione economica che ha ribaltato i principi delle Carte costituzionali del Novecento. La costruzione delle Comunità e ora dell’Unione europea ha istituito il primato del mercato, divenuto l’ordinatore delle relazioni economiche, sociali e istituzionali. Il dominio dell’economia sulla società trova una sua strumentazione specifica negli articoli 101-109 del TFUE, da attuare secondo i principi di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza (articolo 120 TFUE), e nei Protocolli n. 12 e 13 del Trattato di Lisbona, che prescrivono la stabilità dei prezzi, il contenimento della spesa pubblica e le politiche di convergenza.

C’è un tratto originale dell’UE, quello di essere un ordine giuridico del mercato al di là degli Stati nazionali.
Per decenni la Corte di Giustizia dell’Unione Europea è stata il motore del processo d’integrazione, vigilando sull’abbattimento delle barriere tariffarie e non tariffarie al fine di costruire il mercato comune sulla base del Trattato di Roma, e in seguito il mercato unico e l’euro (sulla base dell’Atto unico europeo e del Trattato di Maastricht). Grazie alla giurisprudenza della Corte, la CEE si caratterizzò come ‘Comunità di diritto’, e i Trattati vennero posti a suo fondamento ‘costituzionale’.
La Corte di Giustizia è divenuta nel tempo il tribunale supremo per l’interpretazione e l’applicazione del diritto comunitario
La Corte di Giustizia non ha usurpato la fama di forza motrice dell’integrazione economica europea, avendo essa stabilito il primato del diritto comunitario e l’effetto diretto delle sue norme, che essa ha consolidato attraverso una lunga sequenza di conflitti con altre istituzioni – soprattutto con le Corti costituzionali nazionali e in particolare con quella tedesca e italiana – per affermare la sua competenza a essere interprete del diritto comunitario così da garantirne l’effettività e l’uniforme applicazione.
Questo ruolo di promozione, e di garanzia del funzionamento, del mercato unico è stato svolto dalla Corte di Giustizia anche durante la Grande Recessione, quando è avvenuta una ‘mutazione istituzionale’ (ripetutamente legittimata dagli stessi giudici). La BCE, soprattutto sotto la presidenza di Mario Draghi, ha assunto il ruolo di guida, attraverso le misure monetarie ‘convenzionali e non convenzionali’, che sono andate in parallelo con le politiche di austerità messe in atto dall’ECOFIN e dalla Commissione grazie ai meccanismi del Semestre europeo. La Corte di Giustizia ha avallato questo primato della Banca centrale con la sentenza sul caso Pringle e con l’Opinione dell’avvocato generale Villalón sul programma OMT.
Con la sentenza sul caso Pringle (27 novembre 2012), relativa al Trattato istitutivo dell’ESM, la Corte ha giustificato il ricorso degli Stati membri a patti internazionali, estranei quindi alla normativa UE, per istituire meccanismi di stabilità, ciò che comunque ha richiesto la revisione in via semplificata dell’articolo 136 TFUE. Ha confermato, inoltre, che l’assistenza finanziaria debba essere soggetta a ‘stretta condizionalità’, mediante memorandum e controlli esterni così da consentire il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri (punto 69). Per quel che concerne la BCE, la sentenza ha ribadito che essa ha il potere esclusivo di regolare l’offerta di moneta in condizioni di indipendenza e autonomia.
Con la sentenza Pringle è avvenuta la ‘costituzionalizzazione’ delle politiche di austerità, della stabilità finanziaria,  e della ‘stretta condizionalità’ relativa ai piani di assistenza finanziaria. È stata in questo modo ridefinita la ‘costituzione economica’ e con essa si è consolidato il ruolo degli ‘esperti’ cioè della tecnocrazia.

2.La gestione della Grande Recessione ha richiesto una mutazione istituzionale, cioè una trasformazione complessiva dell’UE per salvaguardare il mercato unico, e il suo funzionamento.
Si può anche individuare il punto di svolta di questa mutazione istituzionale – volta all’accentramento delle politiche economiche, fiscali e finanziarie, oltre che di quelle monetarie – nel Consiglio ECOFIN del 7 settembre 2010,  che ha modificato il Codice di condotta per l’attuazione del Patto di stabilità e crescita mediante le procedure del Semestre europeo, avviato nel gennaio 2011. Il Semestre europeo richiede che la discussione e la formulazione dei bilanci degli Stati membri avvenga in sede UE – ECOFIN e Commissione, specificatamente – prima che i Parlamenti li deliberino.
Le nuove procedure di bilancio sono state affinate e rese più stringenti con l’ emanazione del Six Pack, completato con il Two Pack, il tutto accompagnato da due Trattati internazionali: il Fiscal Compact e l’ESM. Questa ristrutturazione dei poteri decisionali, a partire da quelli economico-finanziari, in parallelo alle misure ‘non convenzionali’ della BCE, ha consentito all’UE di gestire la crisi dei mercati finanziari, dei debiti pubblici e dell’euro, e di riorganizzare l’intero tessuto istituzionale.

Il momento costituente, per usare una formula di Bruce Ackerman, si è  presentato negli anni 2004-2005 quando il no al Trattato costituzionale, espresso dai referendum popolari in Francia e in Olanda, aveva aperto la possibilità di contrapporre ai Trattati dei governi un processo costituente dal basso per giungere a varo di una Costituzione attraverso un processo democratico. Quell’occasione, prodotta anche dai movimenti europei del Social Forum, è stata dispersa, e, nelle spire della Grande Recessione, si è invece consolidata l’oligarchia europea.
Allora ben si colse che il Trattato ‘costituzionale’ operava un’irriducibile commistione dei due sostantivi (costituzione e trattato) racchiudendola in un sotterfugio lessicale: la costituzione europea non era una vera costituzione, bensì un Trattato posto in essere dagli Stati e, in quanto tale, soggetto esclusivamente alla loro volontà. Infatti, una cosa è procedere alla stesura di una Costituzione al fine di (ri)fondare l’unità politica di un popolo, o di popoli diversi; altra cosa è, invece, addivenire nelle forme ordinarie a un Trattato, a un’intesa fra più Stati, ciascuno dei quali espressione di una già sottostante unità politica.
L’UE è l’espressione di una ‘Costituzione senza popolo’: una mera astrazione dietro la quale si è tenacemente trincerato il neofunzionalismo europeo, particolarmente attento (per sua stessa natura) a evitare ogni sorta di contatto fra istanze democratiche e processo di integrazione. Costruire, però, un processo costituente al riparo dai popoli non è possibile. Fare una costituzione significa farsi carico delle grandi sfide della storia, rappresentare le aspirazioni di un’epoca, le passioni di un popolo (o di popoli che vogliono federarsi), produrre un testo coeso nei suoi principi e fondamentale in tutte le sue disposizioni. Solo una Costituzione, con la statuizione dei diritti fondamentali, è in grado di fondare una cittadinanza comune, un’appartenenza comune, un idem sentire dei/delle cittadini/e.
Ciò che il Documento dell’esecutivo del CDC non coglie è la netta contrapposizione fra Costituzione e Trattato, che era invece ben presente ad un europeista quale Altiero Spinelli.
Spinelli era ben consapevole della ‘lezione’ di Carl Friedrich, della necessità cioè di dar vita ad un’Assemblea costituente per  giungere a una «costituzione adottata liberamente dal popolo europeo in un referendum su una proposta preparata da un’assemblea costituzionale rappresentativa eletta liberamente dal popolo …» (C. Friedrich). Spinelli, nel 1956, sostenne che «il popolo europeo deve ottenere dagli Stati nazionali che essi convochino un’Assemblea Costituente direttamente eletta da tutti gli Europei e che le riconoscono il compito di redigere la legge fondamentale degli Stati Uniti d’Europa … La costituzione che l’assemblea costituente avrà votato, sarà ugualmente ratificata, non dai parlamenti che sono gli organi di selezione delle volontà politiche nazionali, ma da referendum popolari medianti i quali ciascuna nazione dovrà dire sì o no alla costituzione che sarà preparata dai deputati europei».
Spinelli riteneva che gli Stati avrebbero dovuto convocare un’Assemblea costituente, poi, convintosi che questi non l’avrebbero promossa, divenuto parlamentare europeo, presentò e fece approvare dal PE nel 1984 un progetto di costituzione; oggi, dopo altri decenni in cui gli Stati hanno proseguito nel processo di espropriazione dei poteri dei parlamenti e della loro concentrazione nelle proprie mani attraverso le istituzioni UE, si pone il compito di uscire dal solco dei Trattati e battersi per la convocazione di un’Assemblea costituente.
Perché la mobilitazione per la Costituzione europea non sia solo oggetto di proclami essa va accompagnata con lotte che puntino all’affermazione di taluni fondamentali diritti, che si vogliono stabilire in Costituzione. E la lotta per i diritti può aprire la via per istituire l’assemblea costituente europea. Di queste lotte dovranno essere parte integrante:

·         il principio della pace, contro la NATO e per la soluzione pacifica dei conflitti;
·         il principio di laicità;
·         il  diritto alle differenze;
·         il  diritto del lavoro  contro il suo sovvertimento realizzato con le politiche di workfare;
·         la cittadinanza di residenza, introducendo lo jus soli;
·         uno Statuto dei beni comuni a fondamento di una società ecologicamente sostenibile;
·         il principio della produzione e gestione pubbliche dei servizi a garanzia dei diritti sociali universali.

Sono possibili lotte intorno a principi e diritti capaci di provocare la rottura dei Trattati e di aprire al contempo una prospettiva sovranazionale. È il progetto di Silvio Trentin: ‘liberare e federare’ dal basso i luoghi della produzione e le istituzioni della partecipazione, per una democrazia sovranazionale.

Claudio De Fiores – Franco Russo



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