sabato 26 ottobre 2019

Con il popolo curdo contro l'aggressione della Turchia sostenuta da Trump

dichiarazione della Lit-Quarta Internazionale



Questo mese, per ordine del presidente Recep Tayyip Erdogan, l'esercito turco ha avviato un attacco e un'invasione nei cantoni curdi situati nel nord-est del territorio siriano (Rojava). L'azione è stata appoggiata dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che aveva precedentemente determinato il ritiro di 2.000 soldati statunitensi da quella regione e, di conseguenza, la rottura dell'alleanza che il suo Paese aveva con i curdi.
Questo segna un cambiamento nella politica dell'imperialismo yankee in Siria: dopo aver approfittato del generoso sforzo dei curdi nella lotta contro l'Isis (Stato islamico), simboleggiato dall'eroica difesa della città di Kobane, ora li abbandona per ristabilire buoni rapporti con un alleato storico (Turchia ed Erdogan). Questa inversione di rotta era già stata preparata da diversi mesi.
Non è il primo attacco da parte di Erdogan contro i curdi del Rojava. Alla fine del 2016 aveva eseguito l'operazione «Scudo dell’Eufrate» per «interrompere» il corridoio che i curdi stavano cercando di formare tra i cantoni di Afrin e Jazira. L'obiettivo fu raggiunto e le forze turche mantennero il controllo della città siriana di Yarabulus e di altre città minori. All'inizio del 2018, lanciò la «Campagna Ramo di Ulivo» che consolidò la sua presenza militare nella regione di Afrin.
Come nei casi precedenti, la nostra posizione di fronte a questa nuova aggressione è assolutamente chiara: sosteniamo e difendiamo il campo militare curdo contro l'attacco turco avallato da Trump. Ripudiamo l'attacco di Erdogan contro il popolo curdo e invitiamo a manifestare la solidarietà militante con il popolo del Rojava. Combattiamo e continueremo a farlo per il diritto all'autodeterminazione del popolo curdo nel suo insieme, per la costruzione di uno Stato confederato unificato del popolo curdo, attualmente disperso tra Siria, Turchia, Iran e Iraq.
Oltre a rilasciare questa dichiarazione, riteniamo necessario riprendere e approfondire le analisi e le considerazioni che abbiamo fatto in vari articoli negli ultimi anni, a causa dei complessi fattori internazionali e regionali che si combinano tra loro (e le modifiche al loro interno).
I curdi
Il popolo curdo è la più grande nazionalità mediorientale senza un suo Stato, poiché il trattato di Losanna (firmato nel 1923 per dividere i domini dell'Impero turco-ottomano, sconfitto nella prima guerra mondiale) negò loro quel diritto. I curdi risultarono divisi in quattro Paesi (Turchia, Iran, Iraq e Siria), in ciascuno dei quali costituiscono una nazionalità oppressa e gravemente repressa quando combatte per cercare di invertire questa situazione.
Nel territorio siriano sono ampiamente maggioritari nei cantoni di Afrin, Jazira e Kobane, nella fascia nord-orientale del Paese (al confine con la Turchia a nord e l'Iraq a est). Questi cantoni occupano un’area di circa 15.000 km2 e sono abitati da poco più di 2.000.000 di curdi (e coloni di altre origini). I curdi, per la maggior parte, provengono da migrazioni dalla Turchia. Come esempio dell'oppressione subita in questo Paese, ricordiamo che fino a pochi anni fa non avevano neanche il diritto di essere cittadini turchi.
Da marxisti rivoluzionari, se una nazionalità oppressa dichiara di volere la sua indipendenza, sosteniamo e difendiamo incondizionatamente questa decisione. Il caso curdo è speciale: è ovvio che si tratta di una nazione oppressa, ma non si trova in un singolo Paese, essendo divisa e oppressa in quattro Paesi. Per questa ragione, l'unico modo di esercitare la sua autodeterminazione è rompere quella divisione e riunificarsi. Pertanto, come punto di partenza, riconosciamo e difendiamo il diritto dei curdi di separare i loro territori storici dagli Stati che oggi li integrano e costituire il loro Stato indipendente (e sosteniamo pienamente la loro lotta in questo senso). Crediamo che, in questo caso, inoltre, non si tratterebbe di un'atomizzazione ma, al contrario, di una riunificazione progressiva.
Le autonomie curde
Negli ultimi anni, il popolo curdo ha ottenuto il controllo di due regioni autonome: una in Iraq (Basur) e un'altra in Siria (Rojava). In realtà, si tratta di due Stati o embrioni di Stati veri e propri. I processi che hanno portato a queste autonomie, guidati da Massoud Barzani e dal Pdk (Partito Democratico del Kurdistan) a Basur, e dal Pyd (Partito dell'Unione Democratica) nel Rojava, sono molto diversi. Entrambi i partiti (Pdk e Pyd) si contendono fortemente la direzione del popolo curdo nei loro territori e nei Paesi in cui vivono. Il Pyd è l'espressione del Pkk (Kurdistan Workers Party, fondato in Turchia) in Rojava.
Il Basur non ha rappresentato, fino ad ora, alcun problema per l'imperialismo e la Turchia. Il governo Barzani e il Pdk fanno affidamento su grandi risorse, sull’agricoltura e su un importante sviluppo capitalista. Sin dall'attacco dell’imperialismo contro il regime di Saddam Hussein, il Pdk si è strettamente legato all'imperialismo. È inoltre diventato il partner economico e politico di Erdogan, poiché fornisce quasi tutto il petrolio di cui la Turchia ha bisogno, mentre la borghesia turca investe a Basur. Come riflesso, Erdogan ha ricevuto Barzani ad Ankara con il massimo degli onori che vengono attribuiti a un capo di Stato. Inoltre, l'influenza di Barzani svolge un ruolo «pacificatore» nella borghesia e nei ceti medi curdi della Turchia, incoraggiandoli a integrarsi nelle «istituzioni» attraverso il partito Hdp.
Al contrario, l'autonomia del Rojava ha costituito un fattore profondamente destabilizzante per la Turchia, poiché oggettivamente la sua esistenza è un fattore che incoraggia la lotta dei curdi in Turchia. Inoltre, la borghesia turca è particolarmente preoccupata dal ruolo di direzione politica e dall'influenza del Pkk su entrambi i lati del confine (un «confine curdo armato» molto pericoloso). Pertanto, inizialmente, la politica di Erdogan è stata quella di incoraggiare e sostenere l'Isis nei suoi attacchi contro i curdi. Ma la politica americana (che analizzeremo più approfonditamente in seguito) aveva la necessità di affrontare l'Isis e di armare i curdi del Rojava come principale forza di supporto in tale compito.
La base economica del Rojava è molto diversa da quella di Basur: non vi era praticamente, all’atto della sua formazione, nessuna borghesia curda nella regione perché quasi tutta la regione era di proprietà dello Stato siriano. Nel quadro della rivoluzione iniziata nel 2011 contro il regime di Al Assad (e la successiva guerra civile), i curdi del Rojava dichiararono la loro autonomia e stipularono un accordo di «non aggressione» con il regime siriano. Nell'acquisire una regione di scarso sviluppo economico capitalista e con i suoi pilastri centrali nelle mani dello Stato, il Pyd ha dovuto adottare speciali forme istituzionali e un funzionamento economico centralizzato. Ciò ha portato vari settori della sinistra ad affermare che sarebbe nato un nuovo Stato socialista nel Rojava (o in transizione verso il socialismo). Pensiamo che questa sia un'opinione affrettata e soggettiva, data l'estrema debolezza economica del territorio, l'assenza della classe operaia e il disimpegno del Pyd da un qualsivoglia progetto socialista per un Kurdistan unito e per la regione.
Ma al di là di queste analisi, riteniamo che le autonomie raggiunte a Basur e Rojava siano un progresso nella direzione di uno Stato curdo unificato e, pertanto, debbano essere difese. Non devono essere considerate l'«obiettivo finale» ma devono essere messe al servizio della lotta per raggiungere quello Stato unificato e una confederazione socialista nella regione.
In tal senso, non abbiamo alcuna fiducia nelle attuali direzioni curde, sia per il loro carattere di classe (borghese o piccolo-borghese) sia per la loro politica di abbandono della lotta per lo Stato curdo unificato. Stiamo nel loro campo militare, ma combattiamo le loro politiche in relazione all'imperialismo Usa, ad Assad o ad Erdogan.
La svolta di Trump
L'amministrazione Trump completa la svolta che aveva già iniziato a prendere nel 2018, sostenendo la Turchia ed Erdogan e lasciando i curdi del Rojava al loro destino. Inoltre, secondo la stessa Casa Bianca, i curdi saranno obbligati a consegnare i prigionieri dell'Isis alle forze turche. Nel frattempo, centinaia di prigionieri dell'Isis hanno approfittato dell'attacco per fuggire.
La ragione principale di questa svolta degli Usa è, ovviamente, quella di riguadagnare buoni rapporti con un alleato storico (la Turchia) che, per vari motivi (incluso il sostegno ai curdi), si era deteriorato. Ma implica anche che il governo americano ignora il conflitto siriano e lascia che altri Paesi, in particolare la Russia, dirigano la situazione.
Questa svolta ha suscitato un intenso dibattito all'interno della borghesia imperialista. Negli Stati Uniti Trump non è stato criticato solo dai democratici, ma ha anche causato una crisi all'interno dello stesso Partito repubblicano.
Anche altri Paesi imperialisti lo criticano. Jonathan Marcus, corrispondente della Bbc per le questioni relative alla Sicurezza e alla Difesa, afferma che: «Il potenziale caos potrebbe facilitare una rinascita dello Stato islamico». Questa decisione «segna un tradimento di Washington nei confronti dei suoi alleati curdi, un tradimento che molti altri Paesi della regione percepiranno come un campanello d’allarme. Sia i sauditi che gli israeliani si stanno rendendo conto che la retorica di Trump non coincide quasi mai con le sue azioni».
Il dibattito che questa decisione di Trump ha scatenato, nell’ambito dell’imperialismo, è stato così acceso che il presidente degli Stati Uniti è stato costretto ad annunciare sanzioni economiche alla Turchia e a twittare minacce.
Al Assad si è avvantaggiato
Negli anni immediatamente successivi al 2011, il presidente siriano Assad è stato messo alle strette, ha perso il controllo di una parte importante del territorio siriano e stava per cadere di fronte all'offensiva militare dei ribelli. È sopravvissuto grazie agli «aiuti stranieri»: le milizie libanesi di Hezbollah e il sostegno in armi dell'Iran e, soprattutto, della Russia. Nel 2015, le forze militari russe sono entrate direttamente in guerra e ciò ha consentito ad Assad una forte offensiva verso Oriente, sfrattando le forze ribelli da molti dei territori e atomizzandole.
Gli attacchi turchi sono una violazione della sovranità siriana. Ma, nel 2018, il regime siriano non ha fatto nulla e non ha nemmeno chiesto a Putin di impedirli. Sebbene sembri contraddittorio, Bashar al Assad beneficia di questo attacco turco. La tregua di fatto che aveva istituito gli è servita a concentrarsi nella lotta contro le forze ribelli, mentre i curdi rallentavano l'avanzata dell'Isis in Siria.
Ma soprattutto, supportato dagli Stati Uniti, l'Ypg/Sds si è fortemente rafforzato militarmente e territorialmente, estendendo il suo controllo alle aree non curde, costituendo una minaccia strategica per il regime di Assad e per le sue aspirazioni a riprendere il controllo dell'intero territorio siriano. L'attacco turco indebolisce le forze curde, le costringe a ritirarsi e rompe l'alleanza tra gli Stati Uniti e Ypg/Sds.
Se ciò non avesse costituito un vantaggio per sé e per il regime siriano, Assad avrebbe cercato di prendere accordi con la leadership curda del Rojava per difendere il confine e limitare l'avanzata turca, patteggiando l'ingresso delle truppe governative. Si sostiene anche che le Ypg/Sds verranno integrate nell'esercito siriano. Ci sono già città, come Hasaka o Qamishli, sulla rotta delle raffinerie di petrolio del Paese, dove queste milizie agiscono assieme. Le forze russe presenti nel Paese accompagnano questo movimento, si sono stabilite nelle basi americane abbandonate e agiscono come una sorta di linea di divisione difensiva tra le forze di Ankara e quelle di Bagdad.
Il ruolo di Putin
A partire dall'ascesa di Trump alla presidenza degli Stati Uniti, era stato stabilito un accordo di fatto tra gli Usa e il governo Putin, che determinava «aree di responsabilità» in Siria: a ovest del fiume Eufrate la Russia e ad est gli Stati Uniti, per evitare scontri diretti tra le loro forze o tra i loro alleati. Ciò si è già manifestato durante l'attacco di Afrin nel 2018, quando le forze russe non hanno fatto nulla per impedirlo e hanno liberato lo spazio aereo per consentire l'azione dell'esercito turco.
L'obiettivo di Putin in Siria è la difesa del regime dittatoriale di Assad e della sua strategia di riguadagnare il controllo dell'intero territorio siriano, al fine di incrementare i benefici degli oligarchi russi nell'attività di ricostruzione del Paese e, soprattutto, nel rafforzare la Russia come potenza regionale. Il ritiro americano può solo favorire i suoi piani.
Il prezzo elevato di una politica di alleanze equivoche del Pyd
La situazione in Siria è quella di un «poligono di forze» complesso e mutevole. Queste forze intervengono e definiscono la loro politica in una combinazione di interessi strategici e bisogni congiunturali e specifici. La «scacchiera siriana» cambia non solo costantemente nei domini territoriali che ciascun settore mantiene, ma anche nelle alleanze e negli accordi che si stanno configurando. In quel gioco, non dobbiamo mai dimenticare che, come negli scacchi, ci sono re, alfieri e pedine.
Pertanto, nel contesto della sua complessità, se guardiamo la questione con obiettività, una cosa è chiara: dietro l'attacco turco è stato realizzato un accordo controrivoluzionario contro i curdi, tra Erdogan, Putin, Trump, Assad e gli ayatollah iraniani. È lo stesso accordo che ha contribuito a infliggere pesanti sconfitte a una parte importante dei ribelli siriani e a rafforzare Assad.
È una conclusione che i curdi devono trarre chiaramente: i «pezzi grossi» (Usa e Russia) sviluppano un loro gioco, in difesa dei loro interessi, in cui le «pedine» possono sempre essere sacrificate. La cecità strategica da un punto di vista politico e di alleanze della leadership del Pyd/Pkk (tregua con il regime di Al-Assad, rifiuto di un'alleanza con i ribelli siriani, impegno centrale a sostegno dell'imperialismo Usa) ora costringe i curdi a pagare un prezzo altissimo.
Non serve a nulla lamentarsi che Trump ora li avrebbe «pugnalati alle spalle». Era qualcosa che avrebbe potuto verificarsi molti anni fa. Manuel Martorell, autore del libro Kurdi, pubblicato nel 2016, aveva anticipato, prima dell'attacco turco dell'anno scorso: «Ciò che è accaduto ad Afrin si ripeterà nel nord della Siria… questo causerà un terribile disastro umanitario. Forse milioni di persone dovranno fuggire al confine con l'Iraq... Gli Stati Uniti hanno fatto come al solito, hanno risposto ai loro interessi strategici».
Di sicuro, il popolo e le milizie curde del Rojava combatteranno con l'eroismo che hanno avuto negli anni precedenti contro l'Isis. Ma la loro situazione è molto difficile: attaccati dall'esercito turco, di gran lunga superiore nelle truppe e nelle armi, indeboliti nelle loro provviste e costretti a stabilire un accordo con il regime di Assad e le forze russe.
La fine dell'oppressione subita dai curdi e la conquista del proprio Stato non saranno mai raggiunti con l'aiuto di Trump o Putin. Sebbene possano trarre vantaggio dalle loro contraddizioni, saranno sempre strategicamente i loro nemici e preferiranno sempre sostenere i loro «alfieri» (come Assad, Erdogan o gli ayatollah iraniani) invece che i loro pedoni. È stata la politica dell'alleanza seguita dal Pyd/Pkk che ha portato a questa situazione.
La lotta dei curdi potrà trionfare solo e prima di tutto attraverso l'unità del popolo curdo stesso, indipendentemente dal Paese in cui vengono oppressi. È necessario richiedere ai peshmerga del Basur di difendere i loro fratelli nel Rojava. È necessario chiedere che le milizie del Pkk in Turchia (per quanto possibile) vadano oltre le semplici dichiarazioni e le supportino da oltre confine.
La politica seguita dal Pyd-Ypg-Fds (fare una tregua con Assad e attaccare battaglioni di ribelli e popolazioni siriane da loro controllati) è stato un errore e un crimine politico. È necessaria una svolta a 180º in questa politica e si deve cercare un'alleanza con i settori più progressisti delle forze di opposizione ad Assad che stanno ancora combattendo. Infine, occorre invocare la solidarietà internazionale dei lavoratori e delle masse del mondo.
Sostegno incondizionato alla lotta dei curdi contro l'invasione turca
Riaffermiamo la nostra posizione di sostegno e difesa del campo militare curdo contro l'attacco turco approvato da Trump e ci uniamo alla campagna internazionale unitaria a favore di questa posizione.
Combattiamo per il diritto all'autodeterminazione del popolo curdo e per la costruzione di uno Stato federale unificato di quel popolo, attualmente disperso tra Siria, Turchia, Iran e Iraq.
Crediamo che il compito di costruire uno Stato curdo unificato potrà essere raggiunto solo in una lotta insieme a tutti i lavoratori e ai popoli del Medio Oriente, nella prospettiva di formare una grande federazione di repubbliche socialiste di nazioni arabe e musulmane.
Infine, di fronte alla direzione curda (sia il Pkk/Pyd che il Pdk) è più che mai necessario costruire una direzione rivoluzionaria curda che sia disposta a portare quella lotta alla sua vittoria.
Manifestazioni  a Sora e Frosinone


mercoledì 23 ottobre 2019

Le lotte crescono in tutto il mondo! Appello dei nostri compagni cileni

La lista è impressionante: insurrezioni in Ecuador, Cile e Haiti, università occupate in Costa Rica, manifestazioni gigantesche a Honk Kong, lotte rivoluzionarie in Libano e Sudan, le piazze di Barcellona invase da centinaia di migliaia di manifestanti.
E' la prova di quanto diciamo da anni: non è in corso nessuna "ondata reazionaria", a differenza di quanto predicano i profeti della sconfitta. Ciò che ostacola le lotte (anche qui da noi) non è l'assenza di volontà dei lavoratori ma le burocrazie sindacali e la sinistra riformista e governista. Qui traduciamo un appello dei nostri compagni del Mit (Movimiento Internacional de Trabajadores), sezione cilena della Lit. Proprio in queste ore, a fianco dei manifestanti entrano in campo anche i battaglioni della classe operaia cilena, a partire dallo sciopero proclamato dai minatori.


Appello del Mit

(sezione cilena della Lit-Quarta Internazionale)

Il governo Pinera ha decretato lo stato d'emergenza per tutta la regione metropolitana di Santiago. E' l'unica risposta che può dare questo governo corrotto e padronale all'enorme rabbia che è esplosa negli ultimi giorni nel Paese, a partire da Santiago, dove è in corso una autentica sollevazione popolare.
La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l'aumento dei biglietti dei mezzi pubblici. Ma dietro la rabbia esplosa questa settimana, guidata coraggiosamente dagli studenti liceali, c'è la rabbia di tutta la classe operaia, delle masse popolari e di tutti noi che viviamo quotidianamente gli abusi padronali.
In decenni di governi che hanno sempre e solo arricchito i padroni, abbiamo visto peggiorare le nostre condizioni di vita a un livello mai raggiunto prima.
Lo sfruttamento sempre più brutale nei posti di lavoro. La miseria negli ospedali e nelle scuole pubbliche. Le migliaia che sono morti aspettando inutilmente di essere curati. I nostri anziani condannati alla fame che moltiplica i suicidi. Il narcotraffico nei nostri quartieri. La persecuzione del popolo mapuche. La devastazione ambientale. E, come contropartita, un governo diretto da un presidente corrotto, le gigantesche frodi fiscali della borghesia, la repressione delle lotte da parte dei carabinieri.
E' quanto sta succedendo in tutti i Paesi dell'America Latina. Lo abbiamo visto pochi giorni fa in Ecuador, con la grande lotta alla cui testa sono gli indigeni e larghi settori della classe lavoratrice.
Noi stiamo prendendo esempio da loro.
Il governo e i mezzi di comunicazione non fanno che mostrare le devastazioni a Santiago. Sono state bruciate 16 stazioni della metro e l'edificio della multinazionale Enel, gli scontri con le "forze speciali" in ogni via.
Ma la reazione popolare è legittima ed è il risultato della provocazione del governo Pinera che, dopo averci attaccati con l'aumento delle tariffe dei trasporti e dell'energia, ha ordinato l'occupazione poliziesca dei licei e delle stazioni della metro per reprimere brutalmente i manifestanti.
Noi crediamo che la violenza che stanno utilizzando i giovani e i lavoratori è totalmente legittima. E' l'espressione di una massa popolare troppo a lungo repressa e che è consapevole che le proteste pacifiche non danno risultati.
In milioni abbiamo manifestato, negli ultimi anni, e l'unica risposta del governo è stata quella di fare una controriforma che arricchisce ancora di più chi specula sulle nostre pensioni.

Uniti per difenderci
La strada indicata dai liceali è quella giusta. Ma non possiamo lottare in modo disordinato, senza organizzarci. I lavoratori portuali ora ci indicano un cammino da seguire. Ormai la lotta sta diffondendosi in tutte le regioni del Paese. E altre città continuano ad aggiungersi contro gli attacchi padronali come l'approvazione in parlamento del trattato commerciale Tpp o come la dichiarazione da parte del governo dello "stato d'emergenza".
La destra nostalgica di Pinochet, come Kast e il suo Partito repubblicano, insieme al padronato, serra le file attorno al goveno Pinera e alle Forze armate. Noi, lavoratori e lavoratrici, studenti, disoccupati, masse popolari, dobbiamo a nostra volta stringerci in un solo fronte, perché già sappiamo che nessun partito politico di "opposizione" si schiererà realmente dalla nostra parte. Lo hanno peraltro già dimostrato col loro silenzio in parlamento e col silenzio delle direzioni dei principali sindacati tradizionali.
Il nostro primo compito è garantire la sicurezza dei manifestanti e organizzare l'autodifesa contro lo stato d'emergenza. Il governo lo ha decretato non per proteggerci dai "vandali" ma per dividerci diffondendo il terrore.
Abbiamo bisogno di organizzare comitati di vigilanza e di allerta nei quartieri e nelle occupazioni. Dobbiamo dibattere nei nostri luoghi di lavoro e in ogni organizzazione. Dobbiamo invitare ogni dirigente sindacale, di quartiere, studentesco a organizzare assemblee. I dirigenti che si sottraggono ai loro compiti vanno sostituiti.
L'organizzazione e l'azione unitaria di chi lotta è la nostra miglior difesa. Dobbiamo moltiplicare le manifestazioni in tutto il Paese, coinvolgendo tutte le organizzazioni dei lavoratori.

Il nostro appello
Come Mit facciamo appello a tutti i lavoratori, gli studenti, le popolazioni dei quartieri poveeri a stare in allerta permanente e a organizzare:
- assemblee in ogni luogo di lavoro, anche dove non ci sono sindacati
- comitati di vigilanza e autodifesa nei quartieri e nei luoghi di lavoro
- comitati contro la repressione nei licei, nelle università e nelle scuole
- dichiarazioni a favore delle mobilitazioni contro lo stato d'emergenza, contro le misure governative
- convocazioni di lotta dei sindacati che già si sono dimostrati disponibili, a partire dai portuali e dai lavoratori della metro
- nella capitale auto-organizzare il trasporto per lavoratori e studenti, per respingere la chiusura della metro ordinata dal governo
- no allo stato d'emergenza!
- via le milizie dalle strade!
- facciamo appello alla base delle Forze armate a disobbedire ai loro ufficiali e a non reprimere la popolazione!
- per la nazionalizzazione sotto controllo dei lavoratori dei mezzi di trasporto!
- per un sistema nazionale di trasporto pubblicato, gratuito, sotto controllo dei lavoratori!
- per il blocco di prezzi e tariffe!
- per la riduzione della giornata di lavoro senza riduzione del salario, fino a porre termine alla disoccupazione!
- per un aumento del salario minimo a 500 mila pesos!
- costruiamo un grande sciopero generale nazionale per rovesciare questo governo padronale e corrotto! Facciamo come le masse dell'Ecuador!
Facciamo appello a tutti i lavoratori e le lavoratrici, ai giovani, alle masse popolari, a unirsi a noi per costruire il Mit, un partito al servizio dell'organizzazione e della lotta della classe operaia, per porre fine allo sfruttamento capitalistico e riappropriarci delle nostre ricchezze. Un partito che lotta perché noi lavoratori possiamo realizzare quella rivoluzione che ponga fine al capitalismo e metta tutta la ricchezza prodotta dalla nostra classe al servizio delle necessità del proletariato

martedì 22 ottobre 2019

Tutti i colori di una notte frusinate

Luciano Granieri





























Strana notte quella di sabato di 19 ottobre a Frosinone. Una notte nera, certamente, perché giunta a conclusione di una settimana che ha visto l’estromissione definitiva della cultura dall’ottica amministrativa del Comune di Frosinone. Sotto il taglio draconiano del 40% delle spese per la cura sociale dei cittadini, cade pesantemente il servizio ai campi sportivi, la Villa Comunale non ospiterà più mostre ed eventi artistici, la Casa della Cultura marcirà  dentro   mura assediate dall’umidità, saranno dimezzati i fondi destinati alla biblioteca e al museo archeologico, i cui finanziamenti erogati dalla  Cassa depositi e Prestiti per riqualificarlo, sono stati destinati allo Stadio, un’opera  di un privato. 

Giova ricordare che l’alienazione di ogni opzione pubblica sulla promozione delle attività sportive  culturali, segue la falcidia di altri servizi tesi al benessere della collettività frusinate. Il servizio di scuolabus? Eliminato. Mense scolastiche per gli istituti primari? A pagamento.  Asili Comunali? Chiusi.  

Una notte nera perché proprio alla contemporanea  “notte bianca” - carnevalata  organizzata dall’amministrazione Comunale per mostrare una valenza culturale di facciata, fatta di sguaiate sbicchierate    a uso e consumo di un popolino ammaestrato   al campaccio dell’ ex Matusa - hanno partecipato i fascisti del terzo millennio dispensatori di farneticazioni razziste  nel loro covo  mascherato da Pub. 

Notte nera per i servizi alla cittadinanza, ormai falcidiati e svenduti agli interessi privati, notte bianca  per la cultura, nel senso che ogni prospettiva culturale è andata in bianco. Ma fra il nero ed il bianco in questa  notte così particolare ha spiccato un’oasi di colore. In piazza Garibaldi nel circolo, questo si,  artistico-culturale “Rigenesi  Spazio Arte” gestito da Riccardo Spaziani e Fabiana Fattori,  i colori della musica afroamericana - comprendente contaminazioni  fra il groove nero  del blues, del jazz, lo stile solare e diafano delle suggestioni sudamericane,  fra samba e bossanova, il rosso fuoco della passione spagnoleggiante - hanno levato alto la loro potente trasgressione sonora, grazie alla Whistle Jazz Band. 

Un gruppo di amici appassionati di jazz e di musica  (Alberto Bonanni  - sax tenore, Antonello Panacchia - basso, Raimondo Pisano - chitarra e il sottoscritto Luciano Granieri alla Batteria) hanno lanciato, con le armi della  creatività,   la propria invettiva in musica contro la grettezza di chi ha costruito su razzismo ,  odio verso gli altri, il proprio consenso. 

Abbiamo provato grande soddisfazione quando ad una certa ora “Rigenesi Spazio Arte” si è riempita di ragazze e ragazzi delusi dal grigiore della notte nero-bianca frusinate,  pronti a nutrirsi dei colori della tolleranza, della condivisione e socializzazione, anche culinaria:  da un lato una ciociarissima sagne e fagioli, dall’altra un’americana Chiffon Cake. 

Ecco noi speriamo che i cittadini ciociari tornino ad invocare una città con i colori della tolleranza e di una rinnovata condivisione sociale, lontana dal grigiore di un’amministrazione che ha solo badato ad allargare il tappeto sotto il quale nascondere cumuli d’immondizia e macerie risultato di una scellerata gestione della città.

Whistle Jazz Band