martedì 21 aprile 2020

Anche Lee Konitz, come altri jazzisti, si arrende al virus

Luciano Granieri





Dannato Coronavirus! Si è portato via anche Lee Konitz. Il sassofonista è’ morto il 15 aprile scorso a 92 anni presso il Lennox Hospital Hill d New York. 

Lui, nato a Chicago nel 1927, ha attraversato in punta di piedi  70 anni di jazz. In punta di piedi, perché la critica non se ne è mai occupata  in modo eclatante.  Forse per la sua innata voglia di rimanere all’interno di un progetto, collaborando per esso e non emergendo da esso. In realtà  Lee Konitz  ha percorso da innovatore gran parte della sua strada jazzistica. 

Al suo  debutto discografico nel 1947 con l’orchestra di Claude Thornill, con arrangiatore Gil Evans, molti, apprezzando la voce  del  suo sax alto, esclamarono: “Finalmente uno che non suona come Charlie Parker”. L’assolo in Yardbird Suite rivela comunque  una performance rivoluzionaria,   non basata sulle sortite infuocate  di un fraseggio alla Charlie  Parker, ma sulla particolarità del suono,  sulla ricerca di effetti cromatici mai proposti prima . Una costruzione influenzata  delle figure più asciutte e distaccate della poetica  di Lester Young e l’intellettualità del fraseggio del Bix Beiderbecke   nel periodo degli Wolverines.  

In realtà quel modo di concepire la musica scaturiva dalla stretta  frequentazione con il suo maestro, il pianista  Lennie Tristano. Un sodalizio didattico-creativo–sperimentale, condiviso con musicisti  come il tenor sassofonista Warne Marsh e il chitarrista Billiy Bauer,  nato per caso  a seguito di un incontro al Winkin’ Pup di Chicago nel 1943. E’ indubbio che le stratificazioni armoniche , le polifonie,  insomma le diavolerie di casa Tristano, abbiano forgiato l’originalità, non solo della voce strumentale di Konitz, ma anche il  modo di concepire il jazz e in generale la sua espressione artistica. 

In quel periodo per un sassofonista bianco la destinazione più naturale era quella di finire in un’orchestra swing, o comunque in un ensemble da ballo.  La  stessa orchestra di Thornill si divideva fra performance più prettamente jazzistiche, ai  cui arrangiamenti pensava Gill Evans, e quelle tipicamente da intrattenimento. Quell’intrattenimento in odio a Tristano, percepito come accettazione e consegna  incondizionata  ai diktat del mercato.   Odio condiviso da  Lee Konitz. Per questo  i riferimenti del sassofonista di Chicago   esulavano  dalla narrazione ludica dello  swing  per rifarsi  al   jazz degli anni venti,  Louis Armstrong e  Bix Beiderecke   (quello  svincolato dall’orchestra di Whitemann in particolare).  Non è un caso che Lee Konitz abbia riproposto pari pari, l’assolo di Louis Armstrong  in Struttin with some barbacue sia nelle esecuzioni in duo con il trombonista  Marshall Brown nel ’67  che e nel suo nonetto del ’77.  

La vita di Konitz in quel periodo si divideva fra Tristano e Gil Evans. Del primo abbiamo detto, del secondo giova ricordare che, interrotta la collaborazione con Thornill, coinvolse Konitz nella composizione di un nuovo gruppo di nove elementi  con l’inserimento del corno francese e del  basso a tuba. Nacque la “Tuba Band” che riuscì ad ottenere nel 1948 una scrittura per 15 giorni al Royal Roost  e che, con pochi ritocchi, fra il 1949 e il 1950,  fu protagonista dell’incisione di “Birth of The Cool”, per la Capitol , a nome di Miles Davis.  Al disco si    attribuisce la nascita dello stile "cool jazz", dove per “cool” non s’intende tanto  “freddo”, quanto   “distaccato”.  Era la forma di protesta dei, così detti, "coolster" i quali , a differenza di Parker e soci, tesi a destrutturare  il rapporto fra armonia e melodia, come metafora  della distruzione di una  società che discriminava i neri, contemplava una ricerca espressiva originale, intellettuale, scevra da implicazioni emotive.
Un “dissenso bianco” che combatteva il contesto sociale in cui operava, non contrastandolo , ma rifiutandolo,  estraniandosi completamente da esso .  In comune con il Be Bop questo stile subì il rifiuto  del mercato, per cui ai suoi protagonisti non rimase che cambiare registro per sopravvivere. Alcuni migrarono a Los Angeles per dar vita al West Coast  Jazz, altri proseguirono in un solco più propriamente mainstream, altri ancora,  come Tristano, si dedicarono completamente all’insegnamento. 

Lee Konitz  fu scritturato da Stan Kenton, nella cui orchestra militò dal 1952 al 1954. Fu un cambio di passo notevole:  dalla massima ricerca espressiva di Tristano alla rigida formalità del direttore d’orchestra californiano che aveva in odio i  neri e limitava al massimo il ricorso alle improvvisazioni. Nonostante ciò Konitz potè godere di una certa libertà nel dispiegare il suo linguaggio proprio in virtù delle  sue  capacità straordinarie. La militanza nell’orchestra di Kenton gli consentì di girare l’Europa e scoprire che molti sassofonisti europei  avevano lui come modello piuttosto che Parker. Come prevedibile però l’orchestra cominciò a stare stretta a Konitz, compresso in sonorità rigide e in strutture troppo preordinate.  

Tornò  così  a frequentare Tristano e i  vecchi amici.   Ma nel frattempo il suo rapporto con la musica era cambiato. Mal sopportava  il distacco  di un’improvvisazione eterea scevra da ogni concessione all’emozione.  Il critico  Nat Hentoff riferì un aneddoto rivelatore, in questo senso, raccontatogli proprio da Konitz  Stavo suonando con Lennie Tristano in un night. Ci allontanammo dal palco alla fine del set sottobraccio, e Lennie fa: “Come va”? “Così così” rispondo. “Dai” sbotta Lennie “hai suonato da Dio”. Mi urtò l’idea di questa distanza tra il mio stato d’animo e la mia resa musicale…  Ho scoperto che la cosa più importante è divertirsi suonando. Non sono più così determinato a sbalordire con la mia originalità. Se viene viene …… In diversi giovani jazzisti sento tutti gli ingredienti giusti, ma non sento una nota che abbia il feeling personale dell’artista. Viceversa io cerco di mettercelo quando suono”. 

 Dunque il nuovo stile di Konitz era diventato  rilassato, quasi conviviale in cui si rilevava  la tendenza a lavorare sugli standard, procedura che condivise  con Warne Marsh,  suo compagno in tante registrazioni. In quel periodo è ’richiesto da molti  musicisti e arrangiatori per suonare in vari progetti , espressioni  polifoniche,  come quelle proposte da Gerry Mulligan,  Jimmy Giuffrè a George Russell.  Alla  fine degli anni ’50 la sua attività subì un rallentamento , si trasferì  in California  nella Carmen Valley  abbandonando  quasi completamente la musica fino al 1961, quando un nuova sollecitazione creativa lo richiamava ad un contributo nuovo e rivoluzionario, tanto affascinante quanto precursore di nuove strade. 

E’  il   tema dell’improvvisazione  svincolata da gabbie armoniche, depurata dall’affollarsi di troppi accordi  fino al puro  incedere  melodico. Anche questa visione  è figlia delle frequentazioni con Tristano, ma è portata da Konitz all’estremo. Passa attraverso l’esperienza in trio, senza pianoforte  con Sonny Dallas al contrabbasso ed Elvin Jones alla batteria, (Motion per la Verve 1961),  le  registrazioni in duo con il chitarrista Jim Hall (Erb per la Milestone 1967) e il pianista franco-algerino  Martial Solal, (Duplicity per la Horo 1977) fino ad improvvisazioni in  solitaria il cui fraseggio influenzerà  diversi sassofonisti free da Rosce Mitchell ad Anthony Braxton  che lo considererà un suo ispiratore. Si moltiplicarono   i viaggi in Europa e soprattutto in Italia. Una testimonianza  della nuova fase sperimentale di Lee Konitz ebbe luogo proprio in Italia  con  il bellissimo “Stereokonitz” inciso nel 1968 per la Rca con Enrico Rava alla tromba, Franco D’Andrea al pianoforte, Giovanni Tommaso al Cotrabbasso, Gegè Munari alla batteria. 

Con il passare del tempo le apparizioni di Lee Konitz saranno improntante alle collaborazioni, piuttosto che ad un’esaltazione solistica. Condividerà dischi e palcoscenici con tanti musicisti, non solo di jazz: da Andrew Hill a Dave Brubeck, da Paul Bley fino a Michel Petrucciani, Ornette Coleman, Chick Corea Si fa prima a citare i musicisti con cui non ha collaborato. Molti jazzisti in Italia hanno suonato con lui e lo hanno apprezzato infinitamente come ad esempio Stefano Bollani ed Enrico Pieranunzi.  Perfino Ornella Vanoni  ha usufruito del suo valido contributo.

Insomma il Coronavirus ci ha privato di un musicista che ha contribuito in modo decisivo all’evoluzione del linguaggio jazzistico, ma lo ha fatto in punta di piedi e questa è stata la sua grandezza. 





Purtroppo il mondo del jazz,  come tutto il panorama artistico, deve piangere altre vittime straziate dalla Pandemia.

Ci riferiamo a  Ellis Marsalis, pianista, docente di musica   e grande personalità di New Orleans  oltre che  padre di    Wynton  e  Branford, e dei meno noti  Delfeayo e Jason,anch’essi musicsti.

Anche il chitarrista   Bucky Pizzarelli, è scomparso. Uno strumentista  considerato l’erede   di Django  Reinhardt , nonché apprezzato accompagnatore di Frank Sinatra.

Ellis Marsalis


  Desta impressione la morte del  cinquantanovenne  trombettista di Philadelphia  Wallace Roney. Artista di spicco in  quell’eletta schiera di musicisti, (i fratelli Marsalis, Terence Blancard, Kenny Garret, per citarne solo alcuni )  che, fattisi le ossa nei Jazz Messanger di Art Blakey animarono   la scena New Bob degli anni ’80 e ’90. La  poliedrica poetica di Rooney lo aveva portato a condividere esperienze free con Pharoah Sanders e Ornette Coleman.  Era considerato l’erede di Miles Davis, suo vero e proprio idolo con cui aveva avuto l’occasione di suonare insieme. Non a caso vinse un grammy nel 1994 per “A tribute To Miles” registrato  per la Qwest Record con il quintetto storico di Miles,  Wayne Shorter - sassofoni, Herbie Hancock-piano, Ron Carter – contrabbasso,Tony Williams-batteria.
 Il mondo dell’arte sta pagando un tributo pesante al virus. Speriamo che finisca presto.




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