sabato 27 giugno 2020

Se scuola e sanità fossero banche

Marco Bersani    fonte "il manifesto"



In oltre 60 piazze italiane si è espressa in questi giorni l’indignazione di famiglie, lavoratrici e lavoratori della scuola contro le linee guida del governo in merito alla riapertura delle scuole a settembre, per l’inizio del nuovo anno scolastico. A fronte di una situazione che ha visto pregiudicati per cinque mesi il diritto all’istruzione e alla socialità di otto milioni di minorenni, nessuno si sarebbe aspettato una tale dimostrazione di indifferenza e una totale assenza di soluzione di continuità.
Non è qui in discussione la necessità o meno dei provvedimenti presi dall’inizio di marzo ad oggi (sui quali i pareri sono diversi), ma la costante rimozione dei bisogni dei bambini, dei giovani e delle loro famiglie, conculcati dentro il lockdown e non riconosciuti come priorità neppure ora che la fase critica dell’epidemia appare finalmente superata.
A fronte della messa a disposizione di risorse pubbliche per centinaia di miliardi per il mondo delle imprese, sulla riapertura delle scuole -che vuol dire la riammissione simbolica e materiale dei bambini nella società- si fanno dichiarazioni fantasmagoriche a cui non seguono piani né risorse, personale né assunzioni di responsabilità.
Analogo scenario riguarda la sanità, rispetto alla quale, l’unico passo, fatto dopo decenni di misconoscimento, è stata la distribuzione della patente di eroi a medici e infermieri senza nessuna modifica sostanziale del quadro complessivo del loro lavoro e della salute dei cittadini (d’altronde, avete mai visto Superman o Wonder Woman firmare un contratto di lavoro?)
Al contrario, con l’abbuono alle imprese della rata Irap di giugno, si è fatto un ulteriore passo di definanziamento della sanità per 4 miliardi in piena pandemia!

Più che molti discorsi, basta un semplice passaggio del piano Colao di rilancio del paese per comprendere dove risiedano le priorità: in quel piano si dice che vanno messi a disposizione subito 54 miliardi per nuove autostrade e 113 miliardi per l’alta velocità ferroviaria, mentre per quanto riguarda i fondi alla scuola e alla sanità si propone di procedere ricorrendo ai «social impact bond», come innovativa (?) forma di finanziamento pubblico-privato.
E mentre si attendono miliardi dall’Unione europea – per ora tutti ipotetici, a debito e con condizionalità – piovono soldi sul sistema bancario, che, non più tardi di una settimana fa, ha ricevuto dalla Bce qualcosa come 1.308 miliardi di euro a tasso negativo (!), 178 dei quali finiti a cinque banche italiane (94,3 a Unicredit, 35,8 a Intesa San Paolo, 22 a Banco Bpm, 14 a Bper e 12 a Ubibanca).
Naturalmente, accompagnati dall’auspicio (si sa, alle banche non si danno gli ordini) che questi soldi si riversino nell’economia reale favorendo il credito alle famiglie e alle piccole imprese, nonostante già il Quantitative Easing 2015-2018 abbia dimostrato come questo avvenga solo molto parzialmente (27%), e lo stesso Decreto Rilancio del governo (soldi alle banche per finanziare le famiglie) sia al palo dopo meno di un mese.

La realtà è che, accantonata ogni retorica di unità nazionale e del «siamo tutti sulla stessa barca» dei primi giorni di epidemia, ceti alti, lobby bancarie e finanziarie e grandi imprese stanno utilizzando la crisi per accelerare il drenaggio della ricchezza collettiva e brandiscono il «niente sarà più come prima», non più come speranza collettiva di un futuro diverso, bensì come minaccia per disciplinare compiutamente la società.
Che sia giunto il momento, anche per chi in questi mesi si è fatto irretire da appelli in senso contrario, di disturbare il manovratore, opponendo all’idelogia del profitto individuale la costruzione collettiva di una società della cura?

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