martedì 7 luglio 2020

Piccola storia di colui che elettrizzò il legno con le corde.

Luciano Granieri






Charlie è in ansiosa attesa.  Ha la  chitarra è appoggiata sulle ginocchia.    Dopo  un continuo girovagare nei locali del Midwest,  vincendo,  a colpi di riff e trucchi dei vecchi chitarristi blues,   da lui metabolizzati e modificati,   infiniti contest con altri musicisti, la pianista Mary Lou Williams non può fare a meno di notarlo e presentarlo al produttore John Hammond. 

John è grande amico di Benny Goodman e vuole fare in modo che Benny ascolti a tutti i costi quel ragazzotto del Texas, trapiantato ad Oklahoma City, cresciuto a pane, blues, swing. E’ uno che, grazie all’applicazione dei primi rudimentali pick up alla chitarra,  aveva  inventato un nuovo modo di suonare lo strumento con delle possibilità espressive mai ascoltate prima. 

Siamo alla fine degli anni ’30.  Charlie è in ansiosa attesa in un localino californiano, con il suo eccessivo cappellone e le sue, più che eccessive,  scarpe a punta. Aspetta  Benny Goodman per mostrargli le sue grandi doti. Goodman si presenta e non ha una bella espressione nel vedere quel ragazzino nero, di cui si diranno pure meraviglie, ma, così conciato, non sembra l’archetipo del bravo orchestrale. Lo sguardo severo del” re dello swing” incenerisce il ragazzo che non riesce neanche ad attaccare la chitarra all’amplificatore. 

Un disastro. Ma non è tutto perduto. La sera stessa al  Victor Hugo di Beverly Hills, dove Goodman è di scena, a Charlie viene consentito, di  salire sul palco. Al re dello swing la cosa non va per niente bene  e, per punire il giovanotto col cappellone e le scarpe a punta attacca, “Rose Room”, un brano talmente vecchio da risultare probabilmente  sconosciuto al giovane Charlie. L’idea è quella di irretire il chitarrista proponendo un brano su cui, secondo Goodman, il “tamarro” non potrà che balbettare qualche nota. 

Nulla di più sbagliato. Charlie prende ogni frase di quel brano, la seziona,  ne cava dei riff velocissimi,  strabilianti, li lega uno  all’altro e proietta quel vecchio pezzo  in una dimensione inaspettata, mai ascoltata prima. Charlie viene assunto all’istante.  Benny Goodman lo prenderà sotto la sua ala protettrice.  E’ un musicista  ideale per lo  swing e sui suoi riff Goodman fra il ’39 e il ’41 costruirà numerosi brani.  

Ma si sa ad uno così un posto in un’orchestra, anche se la migliore di tutte,  finisce per andare  stretto. E a quelle strane cose che stavano avvenendo in certi localini, come il Minton’s, o il Monroe’s Charlie non poteva rimanere insensibile. 

Quelle  diavolerie armonico-melodiche che, dalle  tavole del locale sulla 118° ovest di Harlem,  Monk, Gillespie e Clarke, stavano inventando,  lo avevano preso, coinvolto, tanto da farlo diventare protagonista, come, o forse, più degli altri tre.  Inizia allora  un frenetico tour de force. Di pomeriggio e sera si suona nell’orchestra di Goodman, la notte ad inventare mascheramenti impensabili al Minton’s insieme ai boppers. Evoluzioni musicali dalle quali più di qualche jazzista,  che aveva la malsana idea  di cimentarsi in quelle corse mozzafiato, usciva umiliato.  

Meno male che fra i ragazzi della beat generation, abituali frequentatori di quei locali,  c’è  Jerry Newmann, un benestante amico di Jack Kerouac. Jerry  è sempre presente a quelle infuocate jam session con il suo registratore  a fil di ferro magnetizzato.  Cattura ogni singola nota col suo arnese.    Dobbiamo a lui se le evoluzioni di Charlie riusciranno ad arrivare ai posteri . Bisogna essere grati a Kerouac, oltre  che  per essere diventato il profeta  della beat generation, anche per aver conosciuto il lungimirante Newmann. 

Charlie impazza, sia dai palchi dei teatri, con Goodman, che dalle fumose ambientazioni del Minton’s.  Nel  giugno 1941 sul ragazzo, venuto da Oklahoma City,  si abbatte una grave forma di tubercolosi che ha gioco facile nel devastare un corpo giovane,  ma fiaccato  dal fumo e dall’alcool. Goodman gli garantisce il ricovero in ospedale. La  stanza di Charlie, più che un  luogo di cura, sembra la succursale di un night club,  con whisky che corre a fiumi, signorine che offrono le proprie grazie, marijuana a bizzeffe. Qualche volta gli infermieri non lo trovano nel suo letto, scappato chissà dove, per poi essere trovato e riportato in camera. 

Charlie muore il 2 marzo del 1942 a soli 22 anni. Non riuscirà mai a conoscere l’altro Charlie quel “Bird” Parker che, con il suo sax, porterà a vette elevatissime l’epopea del Be Bop.  Lo   stile che pose fine al jazz come musica da ballo, e sollazzo per i bianchi,  trasformandolo in forma dall’elevatissimo valore musicale.  

Ah dimenticavo. Il Charlie, di cui abbiamo raccontato questa breve storia, è il chitarrista Charlie Christian. Colui che portò una rivoluzione nel modo di suonare la chitarra, elettrizzando con primordiali  pick up, il "legno a corde". Strumento, prima deputato a soli compiti di accompagnamento,  diventato poi, grazie a Charlie Christian,  uno  strumento dalla versatilità creativa inimmaginabile. Dopo Christian, per i chitarristi, nulla sarà come prima.

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