di Alessandra Algostino (professoressa ordinaria di diritto costituzionale, Università degli Studi di Torino)
L’articolo 6 del disegno di legge sulla concorrenza (A.S. 2469, Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021), recante “Delega in materia di servizi pubblici locali”, si propone, come si legge nella Relazione che accompagna il disegno, di «armonizzare la normativa nazionale con i principi dell’ordinamento UE, di un’abrogazione referendaria, nonché di una consistente attività ermeneutica da parte della giurisprudenza, anche costituzionale», riordinando un quadro normativo definito «disaggregato e complesso».
Sempre nella Relazione si afferma che il disegno di legge «intende ribadire, in primo luogo, il doppio fine della tutela e della promozione della concorrenza menzionato nel PNRR: quello dell’efficienza economica e quello della giustizia sociale».
Scorrendo i principi e i criteri direttivi del futuro decreto legislativo, nel comma 2 dell’art. 6, tuttavia, a dominare è la concorrenza, come obiettivo autoreferenziale. La prospettiva, in coerenza con quella del Piano nazionale di ripresa e resilienza, di cui il disegno di legge sulla concorrenza costituisce una riforma “abilitante”, è ordoliberale: innanzitutto viene il privato, l’impresa, gli investimenti. È dall’economia di mercato che possono discendere eventuali benefici sociali: il soggetto e l’oggetto sono l’impresa. “Impresa” al plurale ricorre 177 volte nel Piano, mentre il termine Costituzione non c’è. Non c’è in senso formale, così come non c’è in senso sostanziale: il Piano, che si propone di configurare il futuro dei prossimi anni, pone al centro l’impresa e ad essa affida l’eventuale rimozione di diseguaglianze (di genere, territorio e generazione… non di classe).
L’art. 6 (c. 2, lett. a) si premura in primo luogo di precisare che l’individuazione delle «attività di interesse generale», necessarie per «assicurare la soddisfazione delle esigenze delle comunità locali», è «da esercitare nel rispetto della tutela della concorrenza».
Ora, il Testo unico delle leggi sugli ordinamenti locali (D. lgs. n. 267 del 2000), dopo aver proclamato che «il comune è l’ente locale che rappresenta la propria comunità, ne cura gli interessi e ne promuove lo sviluppo» (art. 1, c. 1), stabilisce che «spettano al comune tutte le funzioni amministrative che riguardano la popolazione ed il territorio comunale», in particolare nei «servizi alla persona e alla comunità», nell’«assetto ed utilizzazione del territorio e dello sviluppo economico» (art. 13 TU).
L’autonomia locale è inserita tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 5), a sottolineare la connessione che esiste tra essa e principi quali democrazia, sovranità popolare, uguaglianza, solidarietà. È un’autonomia che esprime un’idea di territorio come luogo vissuto, spazio di riconoscimento della pari dignità sociale, di esercizio dei diritti, di soddisfazione dei bisogni. Attraverso l’autonomia passano il pluralismo, la sovranità come appartenente al popolo e intrinsecamente plurale, la valorizzazione della partecipazione. La prossimità è vista come garanzia, attraverso la vicinanza e l’effettività, di concretizzazione dei diritti, in armonia e al servizio del progetto costituzionale di uguaglianza sostanziale (art. 3, c. 2, Cost.). I servizi pubblici locali sono strumento per la tutela della persona, della sua dignità, della sua emancipazione, dei suoi diritti: a questo sono finalizzati e a questo devono tendere, non al profitto, all’efficienza economica “what ever it takes” (fermo restando, peraltro, il rigetto della vulgata del “pubblico inefficiente”).
È un quadro in linea anche con quanto si legge nella Carta europea dell’autonomia locale (Strasburgo, 15 ottobre 1985, ratificata ed eseguita con legge n. 439 del 1989): «per autonomia locale, s’intende il diritto e la capacità effettiva, per le collettività locali, di regolamentare ed amministrare… a favore delle popolazioni, una parte importante di affari pubblici» (art. 3). «A favore delle popolazioni», ovvero in stretta connessione con la centralità della persona, l’uguaglianza, la solidarietà, nella prospettiva dei diritti; e, per inciso, lontano da pulsioni territoriali egoistiche (il pensiero è all’autonomia differenziata).
L’articolo 6 del disegno di legge sulla concorrenza si inserisce in opposizione, in distonia, rispetto a questo quadro. In esso emerge come centrale, non l’idea di servizio a tutela dei diritti (per tutti, il «diritto umano all’acqua», come è definito nella Risoluzione GA/19067 delle Nazioni Unite), ma il rispetto della tutela della concorrenza. La concorrenza è presentata come elemento prioritario, come se solo da essa potessero derivare coesione sociale e territoriale, scordando come essa rappresenti strutturalmente una modalità competitiva che tende a creare disuguaglianza. La Costituzione, che ha il cuore in un progetto di eguaglianza, ne è consapevole e all’art. 41, dopo aver riconosciuto la libertà di iniziativa economica e privata, prevede limitazioni, controlli e programmazione per «fini sociali» (e ambientali).
Dal complesso delle varie disposizioni dell’articolo 6, si evince molto chiaramente un processo di privatizzazione che ha la sua apoteosi nella lettera f) del comma 2, dove si prevede l’obbligo per l’ente locale di una «motivazione anticipata e qualificata per la scelta o la conferma del modello dell’autoproduzione». È palese come il pubblico venga configurato come recessivo: per esistere deve giustificarsi. La norma è il mercato, è il privato, è la concorrenza. Il testo è chiaro: «oltre la motivazione anticipata e qualificata», in caso di opzione per l’autoproduzione, si richiede che la relativa decisione sia trasmessa «tempestivamente» all’Autorità garante della concorrenza e del mercato e si prevede che sia soggetta a «sistemi di monitoraggio dei costi» (art, 6, c. 2, lett. g) e h).
Attraverso la privatizzazione dei servizi pubblici locali, si svuota l’autonomia territoriale e si indebolisce il compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli, il cuore stesso del progetto costituzionale.
La lotta per lo stralcio dell’art. 6 del disegno di legge sulla concorrenza si manifesta come parte dello scontro tra due visioni del mondo: da un lato, la cultura egemonica che mira alla massimizzazione del profitto e che assume a proprio fondamento la competitività, ovvero, l’immagine dell’uomo imprenditore di se stesso, l’orizzonte autoreferenziale del neoliberismo che cerca sempre nuovi spazi da mercificare; dall’altro lato, la prospettiva, che ha la sua trascrizione giuridica nella Costituzione, che pone al centro la persona inserita in una rete di relazioni, la dignità, i diritti, la partecipazione, la solidarietà.
L’articolo 6 del ddl concorrenza esprime l’arroganza di chi nega perfino l’esistenza del conflitto e pretende di “stracciare” l’esito del referendum del 2011 (sul punto si veda anche la sentenza della Corte costituzionale, n. 199 del 2012), ed insieme ad esso la prospettiva costituzionale.
L’articolo 6 interviene “come se la Costituzione non esistesse” ed assume, invece, come paradigma la nota lettera della BCE, a firma di Draghi e Trichet, inviata al “Primo ministro” il 5 agosto del 2011, in cui si afferma testualmente: «è necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali».
Il conflitto fra le due visioni oggi si configura come una «lotta condotta dall’alto per recuperare i privilegi, i profitti e soprattutto il potere» (Luciano Gallino); dal basso, occorre far sentire la voce di chi è dalla parte degli oppressi, dei diritti, della dignità della persona, la voce, non ultima, della Costituzione.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 49 di Marzo-Aprile 2022: “Si scrive concorrenza, si legge privatizzazione“
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