Paolo Capodacqua. Fonte: “Alias” 15 settembre
“ Dal prodigioso gioco ed equilibrio di melodia e tempo organizzato nasce la muica, figlia di concreto e astratto e perciò rappresentazione possibile dell’unità di cose, della inscindibilità delle persone e dell’armonia sperata dei loro destini”. Potrebbe essere questa la sintesi ispiratrice di “Conservatorio”, testo notevole attraverso il quale Tarcisio Tarquini ci parla di musica erigendo un originale ponte narrativo che va da Charles Burney a Totò passando per Gianni Schicchi. Conservatorio è una matrioska da smontare capitolo per capitolo e rimontare fina alla matrioska madre: il conservatorio di Frosinone, del quale Tarquini stesso è presidente. E’ dalla trincea gestionale di un’istituzione così importante che l’autore ci conduce in un viaggio appassionato e appassionante che si dipana tra musicologia, storia, sociologia, didattica e racconto. Dalle affascinanti cronache musicali di Charles Burney, ai conservatori – orfanatrofio della Napoli cinquecentesca , con un occhio di riferimento costante al lavoro di Daniele Paris, musicista dalle importanti frequentazioni artistiche che, negli anni Settanta, decide di tornarsene nella sua Frosinone per far nascere, appunto, il conservatorio. Una scommessa personale che Paris vinse caparbiamente senza rinunciare a strategie diplomatiche necessario nell’Italia democristiana di quegli anni, quando qualsiasi progetto, pur degno, aveva bisogno di “alleanze e protezioni nella sfera istituzionale”, “Il Conservatorio si faceva a Frosinone ma veniva deciso a Roma”). Ci torna spesso Tarquini sul conservatorio di cui è presidente, per ricordarci , ad esempio, che fu il primo ad ammettere i corsi jazz, sfrattati dal Santa Cecilia di Roma dopo una falsa partenza, oppure per farci percepire quanto siderale e kafkiana sia la distanza tra legislatori e vita reale; tra i palleggiamenti ministeriali di chi pontifica dall’alto regole a volte inapplicabili e l’attivismo propulsivo di che pensa e agisce, di chi quotidianamente lotta avendo come obbiettivo un sogno da condividere con gli altri, un sogno che ammetta la società intera. “Live your dream”: Tarquini ci prova instancabilmente dalla sua prospettiva di vecchi socialista e sindacalista , ma anche da uomo di cultura impegnato e militante. Spesso la lotta è impari, perché troppi sono “gli apparati che abbiamo costruito pezzo dopo pezzo per ingabbiare la nostra vitalità, la nostra voglia di fare, i nostri propositi migliori”. Il tono di Tarquini è quello colloquiale e colto del narratore distaccato e ironico , del vecchio studioso che ogni tanto si distrae e si lancia, a beneficio del lettore, in interessanti e circostanziate divagazioni musicologiche: su Puccini, sulla musica elettronica, sul jazz, su Cage, sul’importanza del timbro nel fauvismo di Ravel. Un tono sereno che riesce a dissimulare solo parzialmente la partecipazione emotiva e appassionata del musicofilo o l’indignazione “civile” dell’intellettuale contro la bestialità della burocrazia. La “curiosità” di Tarquini è preziosa perché abbraccia a trecentosessanta gradi i mondo della musica. Come quando, con ammirazione contagiosa, scopre nell’arte originaria di Francesco Zanin da Codropio l’utopia compiuta della consonanza tra lavoro intellettuale e lavoro manuale, quell’utopia che si realizza nella fusione tra arte, artigianato e scienza acustica. Con estrema naturalezza Tarquini ci porta dalle vette della storiografia musicale alle miserie contabili di un collegio di revisori dei conti o al pigro ostruzionismo dei bidelli, ai quali, pur tuttavia, concede il riscatto della redenzione finale, offrendo al lettore la possibilità della pietas conciliatrice, catartica e ironica verso le umane debolezze. Nel libro si agita una ricce e sorprendente galleria di personaggi popolata da musicisti in erba, valenti maestri, collaboratori, allievi: da Giuseppe Girolamo, lavoratore della musica (batterista dell’orchestra della nave Concordia, inabissato nella lista dei dispersi dopo aver ceduto a un bambino il proprio posto sulla scialuppa), al sopranista pugliese con il suo tormentato strumento naturale. Dal piccolo Giordano, pianista acustico, con il suo “cuore sonante” che finalmente parla agli altri (come non pensare a Glenn Gould?) , al giovane percussionista Francesco con i suoi sogni spezzati, fino alle due giovanissime allieve coreane. Tutti insieme compongono parte dell’affresco umano che popola i tanti conservatori italiani, il cui numero alcuni vorrebbero ridurre, impedendo così alle giovani energie musicali di disperdersi come le “spore del soffione, negli anfratti più impensati”, ognuna con il proprio seme, con la propria occasione, con il proprio fiore da sbocciare. Ma, a dispetto della burocrazia, la musica sa cambiare “come un’entità organica che non interrompe mai la sua evoluzione e si rinnova ad ogni ascolto”. E sa resistere! Magari al suono di quel fischio che nasce dalle pieghe più profonde della società; quel fischi che la memoria storica di Tarquini ricorda (o immagina) di aver ascoltato dai partigiani in marcia, oppure davanti alla salma di Allende, o, ancora, ai funerali di Pietro Nenni e a quelli dell’anarchico Serantini. Quel fischio che, in un concerto a Strasburgo, i giovani musicisti di Frosinone “intonano” mentre percuotono lo strumento più naturale “della famiglia delle percussioni”: il proprio corpo, riscendo così a “riproporre il messaggio di una gioventù disarmata schierata a mani nude contro il potere”. Quel fischio attraversa anche le pagine di Conservatorio, un libro che Tarquini, al pari della famiglia Zanin da Codroipo, costruisce e suona come un organo, con i suoi diversi registri , ognuno dei quali, da solo, ha il suo fascino, mentre tutti insieme concorrono a innalzare un’unica armonia a difesa della multiforme,. policroma, coralità della “moseca”. Perché , come sottolinea l’autore “la musica è un sostantivo solo, ma ammette molti aggettivi, a dispetto di chi lo vorrebbe sempre e solamente assoluto”.
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