False flag, depistaggio: mentre i media inquadrano gli occhi gelidi del “mostro” Breivik, il “killer solitario” di Oslo e Utøya, si sospetta che sull’isola della strage i macellai armati fossero almeno due, e nient’affatto isolati. La polizia norvegese è costretta a fare i conti con una struttura denominata “Simas”, creata dall’intelligence Usa reclutando agenti in congedo, un po’ come la Gladio italiana. La bomba nel centro di Oslo? E’ esplosa 48 ore dopo una strana esercitazione “antiterrorismo”. E Washington aveva messo la Norvegia in cima a una lista nera, da quando la piccola democrazia scandinava aveva annunciato il ritiro dalla Libia. Prima ancora, la Norvegia aveva rifiutato di enfatizzare l’allarme “Al-Qaeda”, irritando americani e inglesi. Fino ai sinistri avvertimenti di Wikileaks: la Norvegia sottovaluta il terrorismo. Vuoi vedere che prima o poi sarà costretta a cambiare idea?
Inquietanti interrogativi, sollevati in questi giorni da Webster Tarpley, celebre giornalista indipendente americano, esperto mondiale di terrorismo internazionale, narcotraffico, finanza globale. Autore di una famosa biografia non autorizzata su George Bush, nonché di inchieste sull’11 Settembre, sul caso Moro e sul terrorismo di Stato (ultimo titolo tradotto in italiano, “La fabbrica del terrore. Origini e obiettivi dell’11 settembre”, edito nel 2007), Tarpley è tornato al lavoro dopo la doppia strage di Oslo, sentendo puzza di bruciato. Lo scrive nel suo blog (tarpley.net) in un post tradotto da Pino Cabras per “Megachip”: «I tragici attentati terroristici in Norvegia presentano un certo numero di segni rivelatori di una provocazione false flag», ovvero “sotto falsa bandiera”, come dimostrerebbero i troppi indizi contraddittori che si vanno accumulando.
Prima falla, il numero dei killer: «Sebbene i media mondiali stiano cercando di focalizzare l’attenzione su Anders Behring Breivik in veste di assassino solitario nella tradizione di Lee Harvey Oswald, molti testimoni oculari concordano sul fatto che un secondo tiratore era all’opera nel massacro presso il campo estivo giovanile di Utøya, fuori Oslo». E appena due giorni prima dell’attentato dinamitardo nel cuore governativo della capitale, unità speciali della polizia avevano condotto una strana simulazione “antiterrorismo” che includeva la detonazione di bombe: «Esattamente ciò che ha causato il massacro a poche centinaia di metri di distanza poco più di 48 ore più tardi». Terzo indizio: l’intelligence degli Stati Uniti stava conducendo un vasto programma di reclutamento di ufficiali in pensione della polizia norvegese. Obiettivo dichiarato: rafforzare la sorveglianza, vista anche la riluttanza del governo di Oslo di fronte all’allarme terroristico targato Al-Qaeda. Alla fine la Norvegia si sarebbe rassegnata a “subire” il programma americano “Simas”, che secondo Tarpley potrebbe aver «fornito un tramite perfetto per la penetrazione e la sovversione della polizia norvegese da parte della Nato».
Non manca il “movente”, secondo il giornalista americano: la Norvegia sta tentando di smarcarsi dalla politica estera di Washington, preme per il riconoscimento di uno Stato palestinese ed è ansiosa di ritirare i propri aerei dai cieli della Libia, cosa che farà il 1° agosto. «Infine – aggiunge Tarpley – l’operazione Cia consistente in “rivelazioni parziali controllate” nota come Wikileaks, ha già fornito un caso prefabbricato e pubblicamente disponibile». Secondo l’opinionista americano, che considera Julian Assange nientemeno che un burattino della Cia, le “esternazioni” di Wikileaks – tratte da «dispacci reali o manipolati» – provano l’offensiva Usa contro il governo norvegese, accusato di «incompetenza». I cablo del network di Assange rivelano la «presunta negligenza» del governo di Oslo nell’affrontare la minaccia terroristica, nauralmente «secondo la visuale dei funzionari del Dipartimento di Stato Usa».
Per provare quanto afferma, a cominciare dalla controversa dinamica della doppia strage, Tarpley cita il giornale “Vg” di Oslo: «Sono sicuro che si sparava da due diversi punti dell’isola, contemporaneamente», dichiara uno dei superstiti, Marius Helander Roset. Non è il solo: i giovani intervistati da “Vg” descrivono un esecutore aggiuntivo, che non indossava l’uniforme della polizia. Era «un uomo alto un metro e 80, con folti capelli scuri e un aspetto nordico». Armato: «Aveva una pistola nella mano destra e un fucile sulla schiena». Lo conferma un altro sopravvissuto, Alexander Stavdal: «Credo che ci fossero due persone che stavano sparando». La polizia norvegese non conferma, ma neppure smentisce: ammette la possibilità della presenza di più esecutori e si chiude nel riserbo, dato che «c’è un’indagine in corso». Un secondo tiratore, dunque? E’ la versione più scomoda, conclude Tarpley, visto che «rappresenta la prova incontrovertibile di una associazione cospirativa criminale, l’elemento essenziale che la copertura mediatica è generalmente ansiosa di evitare».
A destare sospetti, anche la “coincidenza” della inconsueta esercitazione “antiterrorismo” nel cuore di Oslo, due giorni prima del massacro. Peter Power, operatore della “Visor Consultants”, sulla scia degli attentati alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005, disse alla “Bbc Radio Five” che la sua impresa aveva condotto un’esercitazione basata su esplosioni che dovevano avvenire sostanzialmente nelle stesse stazioni della metropolitana londinese e alla stessa ora in cui le vere esplosioni sono poi effettivamente accadute, ricorda Tarpley, sottolineando che «gli eventi norvegesi presentano lo stesso tipo di strana coincidenza». Dettaglio tanto più indicativo, se si considera che «gli operatori dell’intelligence di Usa e Nato hanno dimostrato di possedere capacità straordinarie all’interno della Norvegia», dove «possono essere operativi al di fuori del controllo del governo norvegese».
Ai primi di novembre 2010, il canale televisivo “Tv2 Oslo” ha messo in luce l’esistenza di una vasta rete di risorse e di informatori segreti a libro paga dell’intelligence Usa, reclutati tra le fila dei poliziotti in pensione e altri funzionari. «L’obiettivo apparente di questo programma – scrive Tarpley – era la sorveglianza dei norvegesi che stavano prendendo parte a manifestazioni e altre attività critiche nei confronti degli Stati Uniti e delle loro politiche», ma uno dei norvegesi reclutati «era l’ex capo della sezione anti-terrorismo della polizia di Oslo». Nonostante l’obiettivo dichiarato – sicurezza e sorveglianza – secondo Tarpley «è possibile immaginare altre attività assai più sinistre, che potrebbero essere svolte da una simile rete di poliziotti in pensione».
Il nome ufficiale per il tipo di cellula di spionaggio che gli Stati Uniti stavano creando in Norvegia è Sdu, ovvero “Surveillance Detection Unit” (unità di sorveglianza e rilevamento). Le unità Sdu, aggiunge Tarpley, operano a loro volta nel quadro del “Security Incident Management Analysis System”, cioè il quasi fantomatico “Simas”, il “sistema di analisi nella gestione degli incidenti di sicurezza”, «noto per essere stato utilizzato per spionaggio e sorveglianza da parte delle ambasciate degli Stati Uniti non solo nel blocco nordico di Norvegia, Danimarca e Svezia, ma in tutto il mondo». Gli ultimi eventi terroristici ora sollevano addirittura il sospetto che il “Simas” possa aver avuto addirittura «una dimensione operativa». Si interroga Tarpley: «Potrebbe questo apparato rappresentare una versione moderna delle reti “Stay Behind” della Guerra Fredda istituite in tutti i paesi della Nato e più conosciute sotto il nome della branca italiana, Gladio? Al governo norvegese occorrerà scoprirlo».
Finora, aggiunge il giornalista americano, i ministri norvegesi hanno affermato di non aver mai approvato la rete Sdu-Simas: «Non abbiamo mai saputo nulla su di essa», ripetono il ministro della giustizia Knut Storberget e il ministro degli esteri Jonas Gahr Støre, mentre Hillary Clinton li smentisce, sostenendo che fossero perfettamente informati della nuova rete di intelligence. Sottotraccia, si possono anche leggere storici imbarazzi nei rapporti diplomatici tra Usa e Norvegia, dagli “accordi di Oslo” al Nobel per la Pace attributo a Yasser Arafat (insieme a Rabin), fino all’attuale determinazione dei norvegesi di riconoscere al più presto il futuro Stato di Palestina. Recentissimo, lo “sfilamento” della Norvegia dalla campagna libica contro Gheddafi, che ha scatenato le proteste Usa: il ritiro degli F-16 norvegesi dal Mediterraneo potrebbe indurre anche Olanda e Danimarca a prendere le distanze dall’attivismo militare della Nato.
Illuminanti i “cablo” di Wikileaks: «L’operazione di rilascio controllato di notizie Wikileaks di matrice Cia ha ragion d’essere nel tentativo di far cadere il governo norvegese», accusa Webster, che definisce «discariche documentali» gli archivi di Assange, materiale «rilasciato della sussidiaria Cia, che cura le rivelazioni parziali controllate». Leggendo tra le righe, continua il giornalista statunitense, si deduce come il terrorismo potrebbe esser stato individuato come uno strumento strategico per rovesciare il governo di Oslo, «che la Nato odia» perché troppo indipendente, e attraverso Wikileaks descrive severamente, come se fosse composto da «una manica di pasticcioni e mentecatti, incapaci di prendere misure efficaci per salvaguardare la sicurezza nazionale del paese».
Alcune di queste carte, continua Tarpley, sono state pubblicate sulla scia degli attacchi terroristici di Londra dal “Daily Telegraph”, un giornale notoriamente vicino agli ambienti di intelligence della Nato. Secondo il “Telegraph”, mentre si parla del tentativo di rintracciare una particolare sospetta cellula terroristica di Al-Qaeda, un dispaccio scritto dall’ambasciatore Usa in Norvegia, Barry White, descrive il modo in cui le autorità norvegesi hanno rifiutato l’aiuto del Regno Unito per mettere sotto sorveglianza un potenziale sospetto, e aggiunge: «Non solo non hanno indirizzato le proprie risorse su di lui, ma hanno anche appena rifiutatol’offerta da parte del servizio d’intelligence del Regno Unito di due squadre di sorveglianza di dodici persone ciascuna», minimizzando il contenuto di alcune intercettazioni telefoniche.
Per smascherare «questi giudizi ipocriti», dice Tarpley, basterebbe consultare lo sterminato catalogo «dei più recenti fallimenti e fiaschi dell’Fbi e della Cia nella cosiddetta “Guerra Globale al Terrore”». Da che pulpito, commenta il giornalista: proprio loro, che non hanno “saputo” prevedere l’attacco alle Torri nonostante tutti gli “indizi”, ora vorrebbero dare lezioni di sicurezza alla Norvegia? E infatti continuano, incolpando i norvegesi anche per i presunti “pasticci” della polizia dopo gli attentati di Oslo: Wikileaks accusa la Norvegia di aver trascurato tempo fa un personaggio sospetto, che avrebbe maneggiato attrezzature per la fabbricazione di bombe, e conclude che il Pst, l’autorità di sicurezza norvegese, «non è all’altezza» della situazione.
Sempre il network di Julian Assange riferisce che il Dipartimento di Stato, probabilmente già nel 2007, deplorava l’opinione norvegese secondo cui «le organizzazioni terroristiche internazionali non sono una minaccia diretta contro la Norvegia», mentre un promemoria scritto nel 2008 mostra come gli Stati Uniti ritenessero che la Norvegia non fosse consapevole della possibilità di un potenziale attacco terroristico. «Noi premiamo ripetutamente sulle autorità norvegesi affinché prendano sul serio il terrorismo», si legge nel dispaccio Usa. «Cercheremo di basarci su questo slancio per combattere l’ancora diffusa sensazione che il terrorismo accada altrove, non nella tranquilla Norvegia». Per Webster Tarpley, la situazione è più che inquietante: «Il governo della Norvegia ha bisogno di passare all’offensiva e stabilire tutta la verità su ciò che è appena accaduto. In caso contrario, è probabile che il governo soccomberà alla campagna orchestrata internazionalmente che i documenti Wikileaks così chiaramente presagivano».
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