Quello che sta accadendo sui mercati finanziari non è semplicemente colpa di Berlusconi, Merkel-Sarkozy o Obama ma la presa d'atto di una crisi globale di cui non si vede via d'uscita. Con la riduzione dei margini di profitto scatta la distruzione di capitale
Un giorno la colpa è di Berlusconi, un altro di Obama, poi di Merkel e Sarkozy. La picchiata delle borse occidentali sembra dover trovare spiegazione solo nell’inconcludenza della politica dei governi. Che, effettivamente esiste, e vedremo perché, ma che da sola non spiega il disastro in corso. In realtà quello che i “mercati” stanno compiendo è un vero e proprio processo al capitalismo mondiale incamminatosi ormai da cinque anni sulla strada della stagnazione, se non della recessione, e che grazie a politiche pubbliche rivolte solo al salvataggio delle banche e della finanza, sta stravolgendo anche gli Stati.
Quello cui stiamo assistendo non è altro che un processo coordinato e potente di “distruzione di capitale” (Marx) evidentemente in eccesso rispetto alle capacità produttive e di realizzazione di profitto presenti attualmente sul pianeta. La caduta costante del saggio di profitto che si è realizzata negli ultimi venti anni (vedi Vladimiro Giacché in “Il capitalismo e la crisi”, DeriveApprodi e anche Bertorello-Corradi in “Capitalismo tossico”, Edizioni Alegre) sta in qualche modo a dimostrarlo. Un processo di portata gigantesca di cui le borse costituiscono la misura più corretta. I corsi azionari si sgonfiano perché le previsioni economiche sono fosche e perché quei titoli incorporavano attese di profitto che non si realizzeranno. La caduta del titolo Fiat è esemplare: quando Marchionne ripete che il mercato mondiale dell’auto è “in sovrapproduzione” sta pronosticando la fine di qualche costruttore, evidentemente in eccesso, e a giudicare dall’andamento delle borse quel costruttore potrebbe essere proprio la Fiat che per la prima volta perde quote di mercato anche in Brasile, terra di successi. Non è la prima volta che la bolla si sgonfia: era accaduto nel 1997 con la crisi dei mercati asiatici, poi nel 2002 con la fine del sogno della “net-economy” ma le dimensioni non erano state mai così globali. Oggi a sgonfiarsi è l’intera economia mondiale come annuncia Morgan Stanleyrivedendo dal +4,5 al +3,8 per cento le stime sulla crescita economica del pianeta nel 2012. Considerando che la previsione contiene le crescita di Cina, India e di altri paesi “emergenti”, dati comunque in calo, la recessione in occidente può dirsi alle porte.
Il capitalismo si trova davanti a un’impasse evidente e, a differenza della Grande recessione del ’29 – peraltro mai risolta definitivamente se non con una Guerra mondiale – non può dilatare il deficit pubblico per dare ossigeno all’economia vista la mole enorme dei debiti di Stato.
E’ in questo contesto che la politica appare inerme se non ridicola. Davvero i “mercati” possono spaventarsi per una proposta di Tobin Tax, discussa da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy qualche giorno fa, sapendo bene che difficilmente sarà adottata e ancora più difficilmente sarà applicata? Gli stessi Eurobonds, che pure darebbero un respiro all’Unione europea, devono tener conto di economie, debiti pubblici, capitalismi non sincronizzati su scala europea. Il problema è che le politiche adottate finora sono tutte all’interno del quadro di compatibilità dato: tagli alla spesa pubblica, diminuzione dei diritti del lavoro, compressione sociale. Non è vero che le manovre adottate finora sono assurde o senza senso. Il loro senso è quello di cercare di dare ossigeno alle imprese private, di far recuperare loro profitti, quote di mercato, forza nella competizione internazionale. Se la Fiat sprofonda (anche per effetto del fallimento della 500 negli Usa) cosa c’è di meglio che non regalarle una legge “ad aziendam”?
Ma, oltre a non produrre nessun miglioramento sociale - sempre sbandierato e mai realizzato da oltre trent'anni - questa ricetta non farà che ridurre la domanda e quindi la crescita. Certo, per un po’ la combinazione tra “distruzione di capitale” – cioè imprese che falliscono e quindi concorrenti che si tolgono di mezzo – riduzioni della quota salari nei conti delle aziende, spostamento di risorse dalla spesa sociale agli incentivi alle imprese può dare un po’ di fiato. Ma la nostra idea è che il capitalismo non trovi soluzioni alla sua crisi e, purtroppo, non c’è nessuno in Europa, o negli Stati Uniti, a farlo notare con sufficiente forza. Le forze “riformiste” come il Pd o il Ps in Francia lavorano su un aggiustamento di sistema con Patrimoniali timide e con l’assunzione dei vincoli del sistema, incapaci e inadatti a prefigurare una vera alternativa.
Ma se non interverrà qualche novità di fondo le contorsioni cui stiamo assistendo si produrranno all’infinito, fino a qualche grave sciagura sociale. Le avvisaglie ci sono già tutte. Non vogliamo qui fare la lista delle ricette possibili – qualche proposta viene avanzata dall’appello DOBBIAMO FERMARLI
che ha superato le mille adesioni – ma solo affermare la necessità di una svolta. Il capitalismo ha ancora risorse per sopravvivere e può farlo sia provocando disastri sociali sia cercando un qualche compromesso al suo interno per non far saltare in aria la situazione (i miliardari alla Warren Buffet sembrano essersene accorti). Ma dopo quarant’anni dalla Crisi petrolifera del 1973, data dalla quale si producono costantemente scossoni, bolle speculative, riduzioni di spesa, impoverimento, questo sistema sociale sembra non aver più niente da dire. Prenderne atto è il primo passo per provare a uscire dalla crisi.
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