Viene detto – ed è vero – che l’Italia è sotto l’attacco della speculazione finanziaria a causa della sua fragilità strutturale determinata, da una parte, dall’eccessivo debito pubblico rispetto al prodotto interno lordo, ovvero alla ricchezza prodotta, e, dall’altra, dalla crescita economica troppo scarsa, ovvero dalla mancata crescita proprio del p.i.l.-
Non viene detto che la crisi del 2011, questa crisi dei cosiddetti titoli sovrani, ovvero delle obbligazioni emesse dai singoli Stati a copertura dei propri debiti, è diretta ed immediata conseguenza della crisi finanziaria del 2008, quella determinata dall’enorme debito privato statunitense, con il crollo dei mutui immobiliari e dell’altrettanto enorme quantità di titoli “tossici” collegati, che hanno destabilizzato il sistema bancario.
Non viene detto che le banche, in specie quelle statunitensi e quelle inglesi, ma non solo, sono state salvate dal fallimento con i soldi “pubblici”, determinando un incremento proprio di quel debito pubblico che oggi viene additato come fonte di ogni male.
Non viene detto che quegli stessi mercati – assurti nelle cronache di TV e giornali a nuove divinità da ingraziarsi e rabbonire con offerte e sacrifici, sono all’origine della crisi stessa. Che la totale assenza di regole e controlli consente alla speculazione finanziaria di devastare interi paesi al solo scopo di generare profitti. Che ancora oggi trovano resistenze le proposte di regolamentazione dei mercati, di introduzione di tassazioni sulle transazioni finanziarie, ovvero degli unici strumenti che nel concreto potrebbero arginare il potere distruttivo della speculazione.
Non viene detto che la crescita economica troppo scarsa dell’Italia si registra dopo almeno quaranta anni di politiche volte a rendere appetibile il paese agli investitori con una leva fiscale reale fondata, contro l’inesorabile spoliazione dei salariati, da una parte, su una evasione fiscale di fatto assunta a sistema e, dall’altra (attraverso il sistema degli incentivi, delle detassazioni e delle agevolazioni) su una “benevola” imposizione fiscale sui profitti e sulle rendite nei fatti insostenibile, oltre che iniqua nei confronti della pressione fiscale sui salari.
Non viene detto cioè che quaranta anni di queste politiche, oltre ad aver smantellato il sistema dei diritti e delle tutele, oltre ad aver drasticamente ridotto l’effettivo potere di acquisto dei salari di chi è a reddito fisso, hanno prodotto una voragine nei conti pubblici a causa delle minori entrate volute e causate, senza ottenere alcun risultato sul piano degli investimenti (ovvero sono almeno dieci anni che il paese è sull’orlo della recessione). Anzi, ottenendo come unico risultato che i maggiori profitti così determinati, senza generare alcun investimento produttivo, rendessero sempre più ricca la frazione ricca della popolazione, sia dal punto di vista patrimoniale che da quello di attori sul mercato finanziario.
Viene detto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità. Che dobbiamo rassegnarci a rivedere le nostre aspettative.
Nulla è più falso di questa affermazione.
I dati economici sono inequivocabili. Almeno fin dagli inizi degli anni ’70 del secolo scorso (da quando cioè ha iniziato a generarsi il nostro debito pubblico) l’Italia ha sempre speso, in proporzione al proprio prodotto interno lordo, meno della media degli altri stati europei. La spese dell’Italia per i servizi pubblici, per la sanità, i servizi sociali, i trasporti, la scuola, per le pensioni – ma non solo – anche la spesa per l’apparato burocratico, per gli enti locali e così via, è stata sempre in proporzione inferiore a quella della Germania o della Francia. L’Italia, per garantire i diritti e le aspettative dei cittadini ha sempre speso sia in termini assoluti che in termini relativi meno del resto d’Europa.
Non è il nostro stile di vita, non è il nostro stato sociale, non è il nostro sistema di diritti e garanzie che ha prodotto il debito pubblico. Il debito pubblico è stato prodotto al contrario proprio dall’altro versante, quello delle entrate. E’ stato prodotto dall’evasione fiscale, più che tollerata assunta a sistema economico, e dalle fallimentari politiche di incentivazione degli investimenti.
In pratica se la spesa pubblica ha sistematicamente inciso sul prodotto intero lordo dell’Italia meno di quanto abbiano inciso le spese degli altri paesi, le entrate dell’Italia sono risultate sistematicamente più basse rispetto al prodotto interno lordo di una quota percentuale decisamente maggiore.
E’ da questo che, accumulando annualmente il disavanzo primario tra entrate ed uscite, si è prodotto il debito.
Non solo, col tempo, al disavanzo primario, ovvero alla differenza tra entrate ed uscite nel determinato anno, si sono aggiunti gli interessi sul debito accumulato.
Ed anche questa è una voce che ha delle vittime e dei carnefici.
Fin dagli anni ’60 le politiche economiche e monetarie dei governi italiani si sono caratterizzate per il sostegno alle esportazioni di una produzione che, tranne che per alcuni settori industriali (macchine operatrici e cosiddetto “made in Italy”), non si è mai caratterizzata sul piano dell’innovazione. La natura familiare ed assistita del capitalismo italiano e la sua eccessiva parcellizzazione (tutto quello che era il miracolo del nord/est ne è un esempio calzante) hanno da sempre imposto che la competizione sui mercati internazionali non fosse di norma fondata sull’innovazione del prodotto o su un suo specifico valore aggiunto, ma sul piano dei costi.
La competizione italiana si è fondata sulla svalutazione competitiva della moneta.
Dagli inizi degli anni ’60 all’introduzione dell’Euro la lira è stata svalutata rispetto al dollaro, la moneta internazionale, del 360% circa. Cioè è avvenuto che sistematicamente la lira venisse svalutata ottenendo che le merci italiane, a livello internazionale pagate in dollari, costassero meno e quindi fossero più competitive.
Questo servizio reso al capitalismo straccione nazionale comportava, come conseguenza diretta ed immediata, un aumento del costo delle materie prime e delle importazioni con il conseguente aumento dei prezzi e quindi dell’inflazione che tra la metà degli ’70 e per tutti gli anni ’80 galopperà anche a due cifre, raggiungendo punte superiori al 20% annuo.
Simili livelli di inflazione comportavano altrettanto alti livelli del costo del denaro e, quindi, dei tassi di interesse applicati ai debiti e, ovviamente al debito pubblico.
E’ questa l’origine del debito pubblico dell’Italia e ad esso i salariati non hanno contribuito in nulla.
Anzi, quantomeno dal ’92, ovvero da quando, eliminata la scala mobile che consentiva a posteriori il recupero automatico del valore reale dei salario eroso dall’inflazione, si è passati al modello contrattuale concertativo che non ha mai assicurato agli stessi lavoratori quel recupero, i lavoratori quel debito generato da altri lo stanno già pagando sia in termini di diritti e sia in termini di valore reale del salario.
Ma lo stanno pagando anche in termini di contrazione dello stato sociale e dei servizi. E’ infatti dalla metà degli anni ’90 che il disavanzo primario dello Stato è positivo (ovvero le entrate superano le uscite) e sono gli interessi sul debito pregresso che generano nuovo debito pubblico. Ma questa positività del disavanzo primario è determinata non già da un aumento delle entrate, bensì da una riduzione delle spese, ovvero da una riduzione dei servizi, dello stato sociale.
Viene detto che il debito c’è e che deve essere pagato, e per ottenere il consenso sociale alla liquidazione definitiva dello stato sociale e dei diritti dei lavoratori hanno scoperto la parola magica: “equità”.
Dicono che questa volta i sacrifici li debbano fare tutti - a cominciare dall’odiata casta della “politica” – e in cambio del vitalizio immolato sull’altare dei sacrifici, vogliono mettere in esercizio un vero e proprio mattatoio sociale, con la mandria della popolazione che si avvia di buon grado al macello.
Ma non è affatto vero che il debito debba essere pagato.
Sono una piccola parte del debito pubblico italiano (tra il 14 e il 16%) è a favore dei “cittadini” italiani, ovvero delle persone fisiche e delle persone giuridiche che hanno acquistato bot, cct, bpt, ecc.. E di queste, solo una minima parte non rientra in quel 10% di popolazione che in questi quarant’anni ha generato il debito pubblico aumentando a dismisura i propri profitti.
Il resto del debito pubblico italiano è nelle mani delle banche e degli operatori finanziari internazionali. Cioè proprio di coloro che la crisi l’anno generata, che sono stati salvati dalla crisi del 2008 grazie ai soldi pubblici, provocando così l’aumento generalizzato del debito pubblico, e che in questo momento conducono indisturbati l’attacco speculativo che colpisce i debiti sovrani della zona dell’Euro.
Non c’è alcuna ragione di ordine etico o morale che imponga il fatto che il debito debba essere onorato.
L’attacco speculativo al debito sovrano di Grecia, Italia, Spagna, Portogallo, Belgio potrebbe e dovrebbe essere bloccato, come del resto proposto dagli stessi Obama e Sarcozy, con l’introduzione della Tobin Tax, ovvero con una tassa che penalizzi gli speculatori che effettuano migliaia di transazioni finanziarie in un solo giorno.
Questo attacco speculativo potrebbe essere vanificato se la Banca Centrale Europea potesse emettere valuta, come qualunque altra banca centrale al mondo potrebbe e farebbe (come è avvenuto sia negli USA che in Gran Bretagna e Giappone). Cioè se la Banca Centrale Europea intervenisse mettendo sul mercato il quantitativo di denaro necessario.
Queste strategie non vengono attuate per una precisa volontà politica, in particolare della Germania della Merkel, che, dopo aver concepito e gestito l’area dell’Euro come il giardino di casa da cui ottenere tutti i vantaggi e in cui scaricare tutti gli svantaggi, non è disposta a derogare dalla propria posizione di predominio.
La Germania e l’area “nord” dell’Euro (tutti sono il “sud” di qualcuno) non possono vantare alcuna supremazia morale: l’Euro, la sua forza nei confronti del dollaro, la pretesa che la moneta europea fosse una valuta globale e non regionale, sono tutti elementi serviti alla Germania e all’area “nord” dell’Euro che, assicurata la stragrande maggioranza delle proprie esportazioni all’interno della stessa area Euro, ha potuto esercitare un ruolo primario sui mercati mondiali. L’area “sud” dell’Euro, queste stesse scelte le ha subite in primo luogo sotto forma di ostacolo alla crescita economica, quantomeno a causa della mancanza di competitività dei propri prodotti determinata dalla forza dell’Euro sul mercato dei cambi.
Il debito non deve essere pagato.
Che il debito non debba essere pagato ce lo dimostra drammaticamente la Grecia.
Nel 2010 il debito pubblico greco era nell’ordine del 128% del prodotto interno lordo del paese.
Al di là di come si è generato il debito pubblico greco e della realtà economica della Grecia, profondamente diversi dal caso Italia, la stessa Banca Centrale Europea, la Commissione Europea, il Fondo Monetario Internazionale, hanno imposto alla Grecia il pagamento del debito attraverso una serie di manovre economiche draconiane, affatto dissimili da quelle richieste e pretese dall’Italia.
Queste manovre economiche hanno sortito l’effetto di ridurre letteralmente in miseria strati sempre più vasti della popolazione, con un crollo generalizzato dei consumi che ha portato alla crisi e alla chiusura di un numero enorme di aziende.
Ovvero le misure imposte alla Grecia per ridurre il suo debito pubblico hanno portato ad un crollo dello stesso prodotto interno lordo della Grecia, facendo sì che ora il rapporto tra debito pubblico e p.i.l. sia arrivato nell’ordine del 158%!
Considerato che la Grecia, sempre sulla base delle misure imposte, ha svenduto tutto il proprio patrimonio pubblico, grazie alla pretesa di pagare il debito, ora la Grecia è effettivamente fallita.
Si può non pagare il debito pubblico.
L’Islanda, che nel 2008 aveva praticamente tutto il suo debito pubblico nelle mani di due banche ed era sotto attacco speculativo, ha nazionalizzato le banche e, analizzato il suo debito (facendo il cosidetto edit sul suo debito), ha separato quello lecito che doveva essere rimborsato da quello illecito (determinato dalla speculazione finanziaria) che ha dichiarato non avere intenzione di pagare.
L’Islanda è ora un paese felice.
Nella storia innumerevoli sono i casi di mancato pagamento del debito e quantomeno di rinegoziazione dello stesso.
Se l’Italia non vuole fare la fine della Grecia, ora, prima che, nonostante decenni di privatizzazioni presenta ancora un patrimonio pubblico (statale e comunale) consistente, con una presenza residuale ma significativa sia in campo produttivo (Eni, Enel, Finmeccanica), sia nei servizi (Ferrovie e Poste) e sia nel campo finanziario (Cassa Depositi e Prestiti), occorrerebbe mettere in discussione il pagamento del debito.
Al contrario, la totalità dello schieramento politico ed istituzionale, le cosiddette forze sociali – ivi comprese cgil, cisl e uil -, i grandi organi di stampa e l’informazione in generale, sono tutti concordi nell’imperativo del pagamento del debito.
Dopo la caduta del grande corruttore, la mera presentabilità del tecnocrate Monti e dei suoi ministri – tutti espressione di una visione caparbiamente liberista dell’economia e della società - ha prodotto un consenso tanto aprioristico quanto ingiustificato all’annuncio di politiche di “rigore e sacrifici nel segno dell’equità”.
Questa parola, “equità”, viene brandita dinanzi agli occhi dei cittadini come il necessario strato di vasellina propedeutico alla somministrazione di una medicina dolorosa.
Il decreto “Monti” lo strato di vasellina se l'è dimenticato (credo) volutamente, per consentire allo schieramento bipartisan che lo sostiene di farsene merito agli occhi degli elettori, spalmandone un sottile strato in Parlamento (innalzamento della soglia del blocco della rivalutazione delle pensioni, aumento della fascia di esenzione dell'ICI sulla prima casa).
La vasellina manca e la supposta in realtà è un veleno … non mi sembra utile sviare la possibile rabbia della mandria condotta al macello, dai carnefici, da un lato, verso la casta della politica e, dall'altro, contro i privilegi di una chiesa cui questo governo e chi lo sostiene si è sempre genuflesso.
Severo Lutrario
E' giusto non sviare l'attenzione con le polemiche contro la "casta", però tu stesso, caro Lutrario, hai detto che la causa del debito pubblico risiede nell'evasione. E cosa è il mancato pagamento dell'ICI da parte della chiesa se non un'evasione legalizzata?
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